La morte del maiale: le scalette ritrovate

Pubblichiamo due differenti bozze della scaletta del cortometraggio La morte del maiale, girato da Bertolucci a quindici anni in 16mm con una Paillard-Bolex presa in prestito a un cugino del padre. Tre mesi prima, nell’estate del 1956, aveva girato il suo primo corto, La teleferica.

Scomparsi entrambi da decenni, dei due corti resta una memoria astratta e potente, come certe imprese dell’adolescenza. E resta, qui di seguito in un lungo e prezioso testo, il ricordo dell’amico Aprà, spettatore adolescente anche lui a casa di Cesare Zavattini un pomeriggio del ’57.

LA SCHEDA
DEL FILM

LA MORTE DEL MAIALE
assignment
Scopri di più

Panoramica su Bertolucci

di Adriano Aprà

 

 

Premessa autobiografica

Ho sentito per telefono Bernardo pochi giorni prima della morte per invitarlo a un seminario. Aveva la voce molto affaticata. Mi ha detto che aveva una complicazione ai polmoni ed era sotto cure intensive.

L’ho conosciuto quando aveva sedici anni, nel 1957, in casa di Cesare Zavattini (amico di mio padre) dove, in compagnia del suo amico Romano Costa (lo si vede in una particina in Agonia e in Il conformista), ha proiettato due cortometraggi in 16mm: La teleferica, di finzione, e La morte del maiale, documentario. Nonostante avessi solo quattro mesi più di lui, feci il critico: troppe inquadrature dal basso, nel primo, bene il secondo. Credo di essere uno dei pochissimi ad averli visti (sono andati perduti) ma ne ho ancora memoria. Io, per la cronaca, ero andato solo per chiedere come si facesse a pubblicare (Zavattini collaborava a Cinema Nuovo, allora unica rivista di riferimento per me).

Non posso nascondere un po’ d’invidia che ebbi allora per la mia ingenuità: Bernardo faceva vedere dei film, io chiedevo “solo” consigli.

Ricordo ancora Bernardo alla prima Mostra di Venezia che ho frequentato, nel 1958: lui che parlava disinvoltamente in sala, stando in piedi, con Pietrino Bianchi e altri critici che conoscevo di nome ma per me, timidissimo, inaccessibili.

Non vidi all’epoca La commare secca perché, avendolo ascoltato in tv quando presentò il suo vincitore libro di poesie e disquisì in francese sul cinema come “poesia”, e poi incontrato a una festa il giorno prima delle riprese, mi sembrava che fosse troppo presuntuoso (per onestà debbo dire che anche io, nonostante la mia timidezza, lo ero, ma non avevo i suoi “appoggi”). Ancora invidia? Ma quando Gianni Amico, conosciuto da poco, mi ha invitato a una proiezione privata di Prima della rivoluzione ogni pregiudizio è scomparso fin dalla prima inquadratura. Un capolavoro, il nostro film nouvelle vague (assai più del pur bellissimo I pugni in tasca dell’altro giovane che avevo conosciuto al Csc prima che debuttasse): il film di un fratello, dopo i tanti film ammirati dei padri. Ne scrissi e lo intervistai.

Ho seguito da vicino i suoi anni difficili, perché in Italia quel film era dispiaciuto ai più e il successivo Partner lo stesso. Andavamo al cinema insieme, amavamo entrambi sia i classici statunitensi sia la nuova scuola francese e internazionale.

Realizzammo per lo stesso programma della Rai lui Strategia del ragno io il mio unico film di finzione, Olimpia agli amici. Quando il funzionario televisivo mi chiese quanto volevo essere pagato gli risposi: come Bertolucci.

All’arrivo di Il conformista erano anni difficili anche per me: il ’68 aveva sconvolto molte mie certezze. Dissi, spero solo fra me e me, che il conformista era Bernardo, che aveva ceduto al Capitale. Me ne pento, perché oggi ritengo che sia il suo capolavoro. Ho realizzato nel 2011 per l’edizione in dvd del film per Rarovideo un critofilm o videosaggio che dir si voglia, intervistandolo e analizzando dettagliatamente l’opera: All’ombra del Conformista (58′).

Da allora ho sempre seguito la sua evoluzione, cercando però di non confondermi con i troppi laudatores che lo circondavano. Gli ho quasi sempre telefonato all’uscita di ogni film. L’ho visto spesso a casa sua (una volta accompagnai Coppola che voleva incontrarlo, un’altra passai una piacevole serata con lui e Michael Cimino non ancora Michelle). Rimasi entusiasta di L’ultimo imperatore, raro esempio di kolossal personale. Bernardo mi invitò a rivederlo in versione originale una sera che lo proiettò a Wim Wenders, con cui poi andammo a cena.

Ma per me Bertolucci non era solo Bernardo. C’era Giuseppe e c’era Attilio. Attilio fece da “protettore” del Salso Film & TV Festival che diressi negli anni ’80. Giuseppe era molto diverso da Bernardo e faceva film assai personali che quasi sempre amavo: i suoi documentari, Amori in corso, Troppo sole, L’amore probabilmente soprattutto.

Ho conosciuto le sue compagne-mogli: Maria Paola (Mapi) Maino, Clare Peploe.

Bernardo è uno dei grandi del cinema italiano. Solo la malattia gli ha impedito di realizzare tutti i film che avrebbe ancora voluto fare. Ed è il solo che sia riuscito, assieme all’amato Rossellini e ad Antonioni, a rimanere integro quando ha avuto la possibilità di fare film di grosso budget con capitali stranieri (Rossellini assai meno) e in altra lingua.

Resta, di quella stagione felice degli anni ’60, Marco Bellocchio, sempre attivissimo e sempre indipendente. Non ci sono più Pasolini, Olmi, Ferreri, De Seta, Carmelo Bene, Schifano, Bargellini, Grifi. Credo che oggi ci siano in giro degli imitatori di Bertolucci: cinema di secondo mano se non peggio. Quanto a me, più invecchio più perdo coloro a cui ho voluto bene e che, penso, mi hanno voluto bene: compagni di una vita. Ci sono però i giovani, i giovani “fuori norma”, che proliferano perché il nostro cinema rimanga vivo e inventivo.

Sarebbero piaciuti a Bernardo, fuori norma nei suoi “piccoli” e “grandi” film?

 

Nouvelle Vague, mon amour

Si comincia sotto casa, con due cortometraggi oggi perduti: il primo, La teleferica, girato fra i castagneti dell’Appennino parmense, mi parve di maniera, con un eccesso di inquadrature dall’alto e dal basso, esibizioni di abilità tecnica; il secondo, La morte del maiale, girato nel cortile di un casolare vicino Parma, con il suo andamento documentaristico e radiografico, mi convinse invece di più. Di questi due cortometraggi resta un’eco in Novecento (l’uccisione di un maiale) e in La tragedia di un uomo ridicolo (la casa abbandonata fra i castagneti dove viene depositata la valigia con i soldi e, ancora, l’uccisione di un maiale).

La commare secca, che contraddice stilisticamente la matrice tematica pasoliniana a forza di sperimentare moduli espressivi contraddittori, è un film adolescenziale sull’adolescenza. Ma non senza prove di maturità nel giocare col tempo di flashback che ricostruiscono eventi in costante contrasto fra ciò che si dice e ciò che si vede, e in contrappunto col “pedinamento” della giornata triste della prostituta che abbiamo visto morta nella prima scena. Ragazzini e ragazzine sono degli “innocenti”, e il colpevole è già cresciuto oltre quell’età di purezza che è quasi la stessa del regista.

Dopo questa prova “su commissione”, ma già convincente, Bertolucci si lancia senza rete nell’esibire in soggettiva i propri tormenti giovanili in Prima della rivoluzione. L’intenso, palpitante shock che ebbi da giovane vedendolo non è venuto meno con gli anni e le revisioni. Film allora “generazionale”, oggi è anche un film “storico”: radiografia di una condizione soggettiva e di una situazione sociale che gli anni successivi avrebbero fatto emergere. La “lingua franca” della Nouvelle Vague è pienamente assimilata, con i jump cuts in evidenza, come non avveniva nel giovane cinema italiano (salvo forse il caso di I fidanzati di Olmi) e certo non nel début à succès del “fratello coltello” piacentino Bellocchio con I pugni in tasca. L’emozione è la chiave di volta del film, con la passione delle idee vissute a fior di pelle e poi masochisticamente rigettate. La scenografia di Parma e del paesaggio circostante, così musicalmente in accordo/disaccordo con i personaggi, è il controcanto insieme provinciale e universale della vicenda.

Una tendenza delle nouvelles vagues è stata quella di destrutturare il “cinema di inquadrature” in favore di un “cinema di sequenze”, più che di scene: un flusso di inquadrature che si sommano fra loro negli occhi dello spettatore. Un certo equilibrio o una certa idea della mise en scène classica viene meno; l’unità del mondo rappresentato viene infranta per lasciare il posto a una interrogazione del mondo. A questa tendenza appartiene pienamente Prima della rivoluzione. Pasolini ne parlò come di un “cinema di poesia”.

L’altra tendenza, quasi in contrappasso, è stata quella della “sindrome” del piano sequenza: tentativo estremo, talvolta estremistico, di rivalutare il ruolo dell’inquadratura come piccolo film in sé compiuto, anche se nel frattempo la padronanza che nel cinema classico consentiva di raccordare armoniosamente le inquadrature fra loro in una scena era venuta, modernamente, meno. Questa tendenza Bertolucci la sperimenta in Agonia e la pratica con ostentazione in Partner.

La via del petrolio, come in minore il corto Il canale, e più tardi La salute è malata, per non parlare di Videocartolina dalla Cina (l’episodio Bologna va invece attribuito nella versione “lunga” al fratello Giuseppe), rivela il disagio di Bertolucci nei confronti del documentario, che egli tenta nella terza puntata di piegare alla finzione con l’introduzione di un personaggio-guida, riuscendoci solo in parte.

Agonia ha al proprio centro, come da titolo, una lenta penetrazione dentro la morte. Ma essa riverbera tutt’intorno una scatenata vitalità, tuttavia imponente. Il formato scope e il colore la esaltano. I fantasmi, evocazioni del cardinale morente, ovvero del potere, sono tracce di un inconscio irrisolto: nel momento della morte, ciò che egli ha represso si manifesta, in un’incandescenza di breve durata. L’episodio sembra predilige questa energia inconscia, e curiosamene immobilizza colui che, nella realtà dell’esperienza del Living Theatre, ne è il vero autore. Bertolucci uccide così un padre troppo ingombrante?

Partner, risplendente di colori, esaltante nel formato scope, materico nell’impiego (allora eccezionale) della presa diretta dell’originale francese, solo in parte conservata nella versione doppiata in italiano, affronta in modo giocoso ed eccentrico il tema, cruciale in Bertolucci, del doppio: esibendolo. E affronta altrettanto esplicitamente quello del dilemma arte-(vita)-politica, che già tormentava il Fabrizio di Prima della rivoluzione. Il film, coscientemente marginale e underground (ma il colore e lo scope lo rendono quasi overground), si impone, forse oggi più di ieri, come il manifesto di un cinema estremo, autoreferenziale e sperimentale, che ha pochissimi analoghi non solo in Italia. È in questo senso davvero il film del Sessantotto e delle sue vitali utopie.

Strategia del ragno approfitta di una commissione televisiva per “sistemare” le pulsioni tematiche e stilistiche del primo Bertolucci. I temi del padre e del doppio vengono guardati frontalmente, con la sicurezza conferita all’autore dal recente inizio dell’analisi psicoanalitica. La chiarezza fin troppo didascalica con cui alla fine viene sciolto l’enigma del padre eroe-traditore nasconde un trauma irrisolto, che la bellezza delle immagini si incarica di rimuovere. L’agitazione che dovrebbe accompagnare la scoperta delle colpe del padre da parte del figlio viene distanziata dalla compostezza figurativa. L’interprete maschile, Giulio Brogi, non contribuisce a trasmettere le inquietudini. L’equilibrio è solo delle apparenze.

 

La sperimentazione dello spettacolo

Tutto cambia pochi mesi dopo con la realizzazione di Il conformista. Jean-Louis Trintignant incarna alla perfezione la duplicità del personaggio. Certe sue gestualità marionettistiche – come quella che scoppia incontenibile alla fine del suo incontro col fiduciario di Ventimiglia – ne materializzano l’ambiguità. L’ombra che schiacciava il Giacobbe di Partner si manifesta qui in tutte le sue varianti: dalla “caverna platonica” evocata in una scena-chiave del film – metafora anche del tipo di cinema proprio di Bertolucci: la realtà come finzione – allo sguardo finale con cui Marcello Clerici, ormai messo a nudo, scruta fuori campo ciò che per lui stesso potrebbe essere mentre il Trio Lescano intona, appunto, Come l’ombra. Il personale (il rapporto tortuoso con le donne e le latenze omosessuali) si intreccia col politico (la missione omicida a Parigi accettata-rifiutata) in un gioco di flashback che avvolge il film in una cappa onirica. Il momento magico del viaggio in treno, dove a un certo punto, irrealisticamente, l’arancio del tramonto lascia d’un tratto il posto al blu della notte, potrebbe essere scelto come stilema dell’intero film. Conservando e anzi portando alle estreme conseguenze le sperimentazioni dei film precedenti (un’inquadratura per tutte: il carrello immotivato sulle foglie agitate dal vento), Bertolucci accetta la propria “crisi” accettando di confrontarsi con ciò che aveva sempre respinto: la produzione industriale e, quindi, il fantasma del grande pubblico. Riuscendoci pienamente.

Ultimo tango a Parigi è un film centripeto, che restringe il campo su due protagonisti osservati “in laboratorio”, quasi fossero cavie per una macchina da presa che li assedia. La dominante arancio, come quella blu sperimentata da Storaro in Strategia del ragno e in Il conformista, trasforma l’appartamento in ventre materno, conferendo agli amplessi della coppia una dimensione regressiva. Qui Bertolucci, forse per la prima volta (preannunciando in questo i suoi ultimi film “casalinghi”), filma oggettivamente, distaccato ma non distanziato dai suoi personaggi, libero da autobiografismi. Accetta l’attore, e soprattutto Marlon Brando, come altro da sé, che può dunque scrutare, come in certi monologhi da cinema verità, senza interferire. L’audacia sessuale, oggi meno percepibile ma allora come noto eversiva, è essenziale all’intimità con cui viene registrato questo teatro del privato.

Novecento resta forse il film più rischioso di Bertolucci. Non tanto un film “malato” come Partner quanto un film utopico nella sua volontà di coniugare Hollywood con Cinecittà e, soprattutto, di fare del comunismo e della lotta di classe uno “spettacolo”. Stavolta Bertolucci sembra totalmente coinvolto dal materiale messo in scena. Filma in grande ma empaticamente. Ritrova gli accenti melodrammatici, e la commozione, che rendevano prezioso Prima della rivoluzione. Girato in un momento storico che poteva far apparire il film come un manifesto politico con lo sguardo volto al futuro, oggi appare piuttosto come un inno a ciò che il Paese avrebbe potuto essere e che non è stato: un monumento eretto a perenne ricordo.

(Una sera lo invitai a mangiare insieme a La Carbonara, a Campo de’ Fiori, un ristorante frequentato da Pasolini, Laura Betti e altri, oltre che da me e amici; ma allora ero assai povero, e speravo che avrebbe pagato lui. Fatto sta gli elogiai Ultimo tango ma alla fine del pasto, con qualche mio imbarazzo, gli chiesi un finanziamento per il Filmstudio ’70, che dirigevo con Enzo Ungari e che non versava bene. Bernardo ci rimase male, credette – lo capisco – che il mio elogio fosse interessato. Comunque contribuì, come Pasolini e Sergio Leone; Lattuada dette solo 10.000 lire. Altri tempi, ma il cinema è fatto anche di queste piccole cose).

In La luna, dove dichiaratamente il melodramma cinematografico si sposa con quello musicale, sono in scena la madre e il figlio, col padre in secondo piano. È il film famigliare per eccellenza. Anche quello dove il paesaggio – già polo decisivo della messa in scena in quasi tutti i film precedenti di Bertolucci – viene invaso dalla luce: spettatore oggettivo, meno che nelle scene parmensi, del conflitto dei personaggi. Il film trasmette serenità pur penetrando dentro un universo di angoscia. Rispetto alle “malattie” che emergevano proficuamente in Prima della rivoluzione, Agonia e Partner, schermate dalla bellezza in Strategia del ragno, liberate in Il conformista e Novecento, qui, come in Ultimo tango a Parigi, un Bertolucci più maturo può contemplarle e dominarle. La tragedia di un uomo ridicolo mette invece al centro il padre. Stavolta la maturità del regista si manifesta in una scelta, anomala nella sua filmografia, di un cinema “di prosa”, realistico e normalizzato (complice forse l’assenza di Storaro?). Fare i conti con la figura paterna, e con il cinema italiano coevo – la solida presenza di Ugo Tognazzi non è ininfluente -, costa però qualcosa a Bertolucci, che adesso non ha a che vedere con un’incertezza formale, ma piuttosto con una narrativa: l’aggiunta, dopo l’anteprima di Cannes, della voce fuori campo del protagonista finisce per essere un espediente che non risolve la costruzione da giallo del film, e lascia aperto senza necessità il finale.

 

Altrove

La cosa sorprendente di L’ultimo imperatore – primo grande film “internazionale”, che si confronta con un tema alieno all’esperienza del regista, ed enorme successo di pubblico, mentre Ultimo tango a Parigi era un film intimista sia pure lussuoso e Novecento restava, nonostante la grandeur, un film “domestico” – è la capacità di mantenere sullo stesso piano il grande affresco storico e la scena priva psicoanalitica. In questo modo Bertolucci riesce magistralmente a comporre un film “universale”, che trascende tanto le vicende della Cina quanto quelle del protagonista Pu-Yi. Sarei tentato di eleggerlo a suo capolavoro, se prevalesse come criterio di giudizio l’equilibrio perfetto tra i vari elementi della mise en scène. Curioso che Bertolucci abbia realizzato, dopo quella “corta” – che resta il director’s cut ufficiale – una versione lunga per una diffusione televisiva sporadica (a quanto mi risulta), che in pratica esiste solo come sontuoso extra di alcune edizioni in dvd: essa è ugualmente affascinante, tanto da rendere difficile preferire l’una all’altra.

Anche Il tè nel deserto finisce per essere un film “sulla vita”, una riflessione filosofica a partire da un pretesto turistico. Quel rifugio (lo shelter del titolo internazionale, The Sheltering Sky) dalle angosce, che in Ultimo tango veniva individuato nel chiuso di un appartamento, qui si apre al cielo. Ma il paesaggio, filmato nella sua esaltante bellezza, finisce per essere altrettanto opprimente: una trappola e un inganno. Spinti a indagare su se stessi, gradualmente messi a nudo, i due protagonisti vengono sconfitti da forze più grandi di loro. Il viaggio si conclude nel sogno. Alla fine lei incontra il narratore dopo essere passata davanti al cinema Alzatraz: la realtà è un’illusione, una finzione.

Piccolo Buddha vuole essere, dichiaratamente, una favola didattica. Bertolucci assume il punto di vista del bambino e si posiziona, come “padre”, tra un “figlio” e un “nonno”. Gli effetti speciali conservano proficuamente – un po’ come in Partner – una ingenuità infantile: sono trucchi che si vedono. È il film della serenità raggiunta. Quel film “in positivo”, a lungo cercato, che La luna preannunciava e che La tragedia di un uomo ridicolo non era riuscito a essere.

 

Ritorni a casa

Dopo queste avventure fuori dal proprio universo, nelle quali il suo sguardo riesce ad assumere un punto di vista “alto”, tanto da affermare una visione del mondo, Bertolucci con Io ballo da sola accetta di ritornare in terra. Nelle terre senesi, in un paesaggio che irradia bellezza senza quasi bisogno di “inquadrarla” con ostentazione come in Strategia del ragno. È comunque un “teatro” quello messo in scena: un “paradiso” ritagliato, utopicamente, da contrapporre al “deserto del mondo fuori campo. Anche se la tentazione del musical è latente (come in molti altri suoi film), qui la costruzione a rondò lascia renoirianamente aperta la porta al caso, che circola liberamente in questo giardino. Bertolucci sembra anche essersi liberato dal bisogno di “fare cinema” che altrove lo ha distinto. Gli attori costruiscono un coro di voci dissonanti (accentuate nella versione originale) attorno a un centro fermo, che irradia bellezza con la stessa naturalezza del paesaggio. Tornando a casa, Bertolucci trova un punto di equilibrio delicatissimo, precario come un incantesimo, caduco come la bellezza, effimero come la pellicola ma, sullo schermo, duraturo e vivificante: la dolcezza del vivere.

L’assedio è il film più chiuso di Bertolucci. E anche il suo formalmente più anomalo: montaggio rapido, ralentis, jump cuts, abbondanza di macchina a mano. Dopo Ultimo tango a Parigi, un altra indagine sulla coppia inquisita come in laboratorio nel chiuso di un appartamento. Ma qui domina il buio, l’impossibilità della comunicazione, se non nel sibillino finale. Lui sembra aver rinunciato a vivere, lei è costretta a sopravvivere. L’utopia della conciliazione degli opposti è affidata alla “prova d’amore” che lui mette in atto per semplice dedizione all’altro da sé, senza attendersi corrispettivo. Darsi all’altro per trovare se stesso.

Histoire d’eaux è un felicissimo episodio che può essere visto come appendice a Piccolo Buddha. Il tempo non esiste. Il tempo occidentale fonte di angosce viene sospeso per incantesimo cinematografico, sintetizzato fulmineamente come la vita che ti scorre davanti nell’attimo della morte.

Con The Dreamers Bertolucci torna all’autobiografismo dopo una lunga parentesi nella quale ha appreso, laboriosamente, a conoscersi e a oggettivare il materiale delle proprie ossessioni. Stavolta l’appartamento è una camera oscura. Come nella caverna di Platone, rievocata in Il conformista, i tre protagonisti fanno rivivere i fantasmi che sono stati quelli di una generazione alla quale è appartenuto Bertolucci, assieme ad altri “carbonari”. Ma la distanza cronologica di quel Sessantotto non significa “presa di distanza”. La cinefilia era un altro modo di coniugare l’utopia politica. Nessun revisionismo, nessun pentimento. Lo sguardo su quei figli lontani e innocenti è dolce. Essi sono gli eroi, casomai sconfitti, di un sogno che il tempo ha rimosso ma che il regista sa far rivivere con limpidezza e orgoglio.

 

Conclusione (solo in parte) autobiografica

Il “ritorno a casa” più costringente, perché determinato dalla condizione fisica del regista in carrozzella (come Visconti per L’innocente, come Steve Dwoskin per i suoi ultimi film?), è Io e te (nulla a che fare con il progetto degli anni ’70 di adattare Ioe lui, 1971, di Alberto Moravia). Mentre lavorava alla sceneggiatura con i suoi complici l’ho intervistato per il critofilm su Il conformista. L’ho visto all’uscita con mixed feelings e credo di averglielo detto. L’ho rivisto ora per l’occasione di questo saggio aggiornato.

Liberatosi dai genitori e dai parenti tutti, e anche dallo psicoanalista (uno psichiatra per la verità), conciliato invece con gli animali, il folto adolescente Lorenzo – una sorta di Malcolm McDowell assai più giovane – esce dal chiacchiericcio del mondo, si chiude in cantina e in se stesso: quasi un’esperienza di meditazione, casomai con musica rock invece che con dei mantra (mi chiedo se in questa forzata immobilità Bertolucci non rifletta anche la propria, anche se la ha anticipata, in maniera meno radicale, in Ultimo tango a Parigi, L’assedio e The Dreamers). Ma il mondo, nella persona della sorellastra maggiore Olivia, tanto bella quanto volgare, e tossica, non tarda a irrompere. Nel modo peggiore, apparentemente. La forzata convivenza finisce tuttavia per essere terapeutica per entrambi. Il film è in effetti la storia di una cura. E il ballo al suono di Ragazzo solo, ragazza sola ne è l’apoteosi. Ma, come in ogni analisi, non si guarisce dalla malattia: alla fine si è forse in grado di controllarla e di conviverci meglio. La gru conclusiva è l’impossibile librarsi in cielo e poi ridiscendere a terra di Bertolucci. Il sorriso di Lorenzo Bloccato dal fotogramma fisso è il viatico che Bernardo ci elargisce.

 

[Questo testo, pubblicato nel gennaio 2019 su biancoenero n. 593, riprende, con qualche ritocco, l’obituary scritto da Aprà e pubblicato sul Manifesto del 27 novembre 2019, e Panorama su Bernardo Bertolucci, in Adriano Aprà (a cura di), Bernardo Bertolucci Bertolucci. Il cinema e i film, Marsilio, Venezia 2011, pp. 11-16, con l’aggiunta di una riflessione sul suo ultimo film]

 

Conversazione
con Enzo Ungari

Una specie di iniziazione
assignment
Scopri di più