Professor Quadri — Immagina un grande sotterraneo a forma di caverna. All’interno, degli uomini che vi abitano fin dall’infanzia, tutti incatenati e obbligati a guardare il fondo della caverna. Alle loro spalle, lontano, brilla la luce di un fuoco. Tra il fuoco e i prigionieri, immagina un muro, basso, simile a quella piccola ribalta sulla quale il burattinaio fa apparire i suoi burattini… E ora cerca di immaginare degli uomini, che passano dietro quel muretto, portando delle statue di legno e di pietra. Le statue sono più alte di quel muretto… I prigionieri incatenati di Platone! Come ci assomigliano… Vedono solo le ombre che il fuoco proietta sul fondo della caverna che è davanti a loro… Ombre, i riflessi delle cose, come accade a voialtri oggi in Italia.
Marcello Clerici vive con il peso segreto di avere ucciso, all’età di 11 anni, un pedofilo che stava abusando di lui. Due decenni dopo, nel 1938, approfitta del suo viaggio di nozze a Parigi per coprire una delicata missione per conto della polizia politica fascista. Il vero scopo del viaggio è infatti quello di contattare, e poi di “eliminare”, un suo ex insegnante di filosofia, il professor Quadri, ormai un noto dissidente rifugiatosi in Francia. Dopo essersi sistemato in albergo, Marcello riesce a farsi invitare a casa del professore, insieme a sua moglie, Giulia. Anna, la moglie del Quadri, si offre subito di fare da guida nella capitale a Giulia, mentre il nostro rimane folgorato dall’inquietante bellezza della signora Quadri, cui propone perfino di fuggire insieme in Sudamerica. Non ci mette molto però a capire che Anna invece si è invaghita di Giulia. L’indomani, tra i mille tormenti che assalgono Marcello durante il lungo viaggio in macchina che lo porta al luogo scelto per l’agguato teso al Quadri, risulta inevitabile che andrà eliminata anche la donna, avendo deciso all’ultimo momento di accompagnare il marito…
Anni dopo, la sera del 25 luglio ’45, l’incontro fortuito di Marcello con l’uomo che credeva di avere ferito a morte da bambino segnerà per lui l’ora della resa dei conti.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci, dall’omonimo romanzo di Alberto Moravia (1952)
(Technicolor, 35mm, 1.66:1) Vittorio Storaro; operatore Enrico Umetelli
Ferdinando Scarfiotti, con Nedo Azzini; arredamento Maria Paola Maino, Philippe Turlure (Parigi)
Gitt Magrini, con Piero Cicoletti
Franco Arcalli
Georges Delerue; L’Internationale (1888) di Eugène Pottier e Pierre Degeyter, Bandiera Rossa (1880) di Carlo Tuzzi, Fratelli d’Italia (1847) di Goffredo Mameli; canzoni Chi è più felice di me? (1937) di Cesare A. Bixio, Tornerai (1936) di Dino Olivieri e Nino Rastelli, Come l’ombra (1942) di Norlissa (aka Bruno Quarantotto) e Enrico Frati eseguita dal Trio Lescano, Il conformista (aka Come un fior, 1969) di Mina e Martelli eseguita da Mina
(mono) Franco Bassi, con Mario Dallimonti (colonna guida)
Aldo Lado, Alain Bonnot (Parigi)
Flavia Sante Vanin
Angelo Novi
Jean-Louis Trintignant (Marcello Clerici), Stefania Sandrelli (Giulia), Dominique Sanda (Anna Quadri), José Quaglio (Italo), Enzo Tarascio (professor Quadri), Gastone Moschin (Manganiello), Fosco Giachetti (colonnello), Yvonne Sanson (madre di Giulia), Milly (madre di Marcello), Giuseppe Addobato (padre di Marcello), Pierre Clémenti (Lino), Pasquale Fortunato (Marcello bambino), Antonio Maestri (confessore), Christian Alegny (Raoul), Romano Costa, Gianni Amico, José Dias Barcelos e Giorgio Pelloni [n.a.] (assistenti del professor Quadri), Marilyn Goldin [n.a.] (fioraia del Fronte Popolare), Pierangelo Civera (infermiere), Benedetto Benedetti [n.a.] (Ministro), Gino Vagniluca [n.a.] (segretario), Marta Lado [n.a.] (figlia di Marcello), Christian Bélègue (profugo al Colosseo), Carlo Gaddi, Umberto Silvestri, Furio Pellerani, Claudio Cappeli (sbirri), Orso Maria Guerrini, Luigi Antoni Guerra, Luciano Rossi, Gino Vagniluca; e inoltre, nella versione restaurata Alessandro Haber, Massimo Sarchielli (ciechi ubriachi), Luciano Rossi (biondo cieco); voci italiane Sergio Graziani (Marcello), Rita Savagnone (Anna Quadri)
Maurizio Lodi-Fè, Giovanni Bertolucci (produttore esecutivo), Henri Michaud [n.a.] per la Mars Film (Roma), Marianne Productions (Parigi) / Maran Film GmbH (Monaco di Baviera)
Paramount attraverso CIC [Cinema International Corporation]
110′, 115′ (edizione restaurata, 1995)
Roma, Parigi, Passo del Cerreto (Appennino bolognese); novembre 1969-gennaio 1970
28 gennaio 1971
Cineteca di Bologna, in collaborazione con Minerva Pictures e Paramount, presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata, 2011
A prescindere delle affinità di contenuto (due storie di tradimento ai tempi del fascismo), Strategia del ragno e Il conformista compongono un dittico ideale che fa da spartiacque nella filmografia di Bernardo Bertolucci. Ambedue i film sono stati scritti negli stessi primi mesi di analisi e le loro rispettive riprese si sono susseguite a distanza di qualche settimana, mentre il montaggio dell’uno e dell’altro avverrà contemporaneamente in stanze separate che davano sullo stesso corridoio.
Se Strategia si presenta come l’apice dello sfrenato sperimentalismo formale seguito dall’autore per un intero decennio, Il conformista vuol essere invece una specie di manifesto del progetto che lo occuperà da ora in poi; vale a dire un cinema deciso a fare riflettere sia sulla forma che sul contenuto, ma capace anche di non perdere il contatto col grande pubblico (donde la famosa rottura col venerato Godard, simbolicamente illustrata nel Conformista attraverso il rapporto tra il protagonista e l’uomo che è stato il suo maestro). Così, il destino della figura paterna, pure uscita vincitrice alla fine di Strategia, era già sigillato fin dall’inizio nell’assassinio programmato del dissidente Quadri. Il resto appartiene alla “follia dell’arte”. [F.G.]
Pur restando fedele allo spirito e agli avvenimenti del testo originale, Bertolucci ha conferito al film un suo accento particolare e singolare, in chiave proustiana. Ora, Moravia è tutto fuor che proustiano: non sovrappone un tempo della memoria al tempo storico ma sta fuori della storia, tra cronaca e metafora, in cerca di caratteri. Nel Conformista viene affrontato un tipo d’uomo timido e amorale che prende stanza sotto tutti i regimi. Bertolucci ha invece colto Marcello come efflorescenza caratteristica di un’età molto ben precisata, quella del fascismo al declino.
La guerra d’Etiopia è stata un trionfo apparente; nell’iniziata guerra di Spagna si avvertono i primi cigolii, strepiti e sordi rumori di un motore affannato. Nello sfondo le due città, Roma e Parigi, entrambe agonizzanti ma per malattie diversissime. L’ipocrisia, le ambizioni sbagliate, l’amoralismo corrompono la goffa capitale che ha ceduto al dittatore senza fede e senza vergogna; Parigi, metropoli estenuata, gode gli ultimi anni di un’età favolosa in cui ogni voce ha parlato, da Gide a Prévert, da Matisse a Giraudoux, da Renoir a Carné, secondo una sua libera intuizione.
A Roma, il baco lavora dentro l’organismo, a Parigi il bestione trionfante urla ai confini, sulla linea azzurra dei Vosgi. Per il trentenne Bertolucci si trattava, attraverso le apparenze, di individuare un unico male comune all’Italia barbara (Malaparte) e a quella bizantina (Benda): l’erosione di quei valori borghesi che, giovani e “ingenui” nell’apparire delle idee del [17]89, mostrarono il loro vero, autentico volto nel massacro della Comune.
Noi che scriviamo non siamo degli spettatori normali e nemmeno degli spettatori anormali, dei filmofagi che vedono due o tre film al giorno. Ne vediamo tre o quattro alla settimana e il dovere professionale ci consiglia il massimo distacco dalla materia trattata. Non è una conquista difficile questa del distacco, dato il livello medio dei film che vediamo. Non lo è neppure coi film che riteniamo buoni, che ammiriamo: esiste l’ammirazione distaccata; l’importante poi è saperla verificare e giustificare. Ogni tanto capita quella pellicola di fronte alla quale il distacco non è più possibile: o perché ci coinvolge sin dalle prime immagini o perché ci lavora dentro trasformando l’ammirazione in entusiasmo. Capita rare volte, ma capita; e sono momenti privilegiati perché ci fanno capire che non stiamo perdendo il nostro tempo, che il cinema, nonostante tutte le sue bardature da confezione industriale, può dare di quando in quando le stesse emozioni di un bel libro, di un bel quadro, di una bella composizione musicale. In questa stagione ci è successo con il Don Giovanni di Carmelo Bene, con Il cameraman di Buster Keaton e ora con Il conformista di Bernardo Bertolucci: un film così ricco e denso di significati che, per analizzarlo a dovere, ci vorrebbe un intero volume. Se il 1969 è stato l’anno di Marco Ferreri (Dillinger è morto e Il seme dell’uomo), il 1970 ha messo definitivamente in luce le grandi qualità di Bertolucci, il quale, con Strategia del ragno e Il conformista, dimostra chiaramente di avere raggiunto la pienezza delle proprie capacità espressive.
Il dramma personale del protagonista si inserisce strettamente in un contesto storico che lo illumina e ne dirige lo svolgimento. Bertolucci ha preso il partito di suggerire i sommovimenti dell’epoca attraverso i piccoli atti quotidiani, così come ha scelto un’angolatura da feuilleton cinematografico anni ’30 per stigmatizzare i suoi sicari da operetta. Ma, d’un tratto, la sua voce si incrina. Le notazioni vanno crescendo fino al doppio assassinio nella foresta, scena atroce dove il fascismo appare a viso scoperto. Così si trovano riuniti nella stessa condanna un regime e uno stile di vita: il fascismo e la spensierata società che ne ha fatto da precursore.
I bei film sono rari. Specialmente quando essi sono, in più, intelligenti.
Quello che rende i film di Bernardo Bertolucci diversi dal lavoro dei registi delle altre generazioni è una straordinaria combinazione di ricchezza visuale e di libertà visuale. Mentre in un film hollywoodiano le grandi scene di solito appaiono artefatte, i suoi film danno l’impressione di fluire, come se la vita che stesse fotografando non fosse preordinata per la macchina da presa ma già tutta lì, e che lui si limitasse a entrarci e a uscirne a volontà… cosicché tutti diventano parte della sua visione. Bertolucci porta vicino il periodo storico, e noi vi entriamo.
Il fascismo storico è morto, però la borghesia è sempre lì, salda al suo posto. Proprio in questo momento assistiamo in Italia a una specie di rinascita del fascismo, e io credo che le forze che lo finanziavano nel 1921-22 siano le stesse che continuano a finanziarlo oggigiorno. Il conformista è un film sul passato; io non ho conosciuto gli anni ’30, quindi l’unico ricordo che ne ho viene da tutto il cinema di quell’epoca: Renoir, Josef von Sternberg, Ophüls, ecc. Moravia, che è forse il più grande scrittore italiano, è anche un romanziere un po’ tradizionale. Allora, quel che m’interessava era la possibilità di “sventrare” in qualche modo questa sua struttura narrativa classica. Questo gliel’ho detto, ed era d’accordo.
Un altro elemento molto forte, secondo me, era l’intuizione che Moravia aveva avuto del personaggio di Marcello: un grande personaggio tragico; tragico anche se squallido, e grande anche se meschino. Essere “conformista” vuol dire non esserlo affatto nella realtà, nell’intimo: è soprattutto l’espressione di una certa tensione verso la normalità. Una persona che si sente come gli altri non si pone mai il problema del conformismo.
Il finale del film è cambiato rispetto al libro. In Moravia, così come nelle tragedie greche, è il destino che spinge Marcello a fare tutto quello che fa. Nel film, invece, l’inconscio del protagonista si è sostituito al destino. Tutti i rapporti che legano i personaggi tra di loro sono dei rapporti quasi sessuali, basati su una specie di scambio magnetico e sensuale.
Franco Arcalli, detto Kim, non violentava tanto il materiale quanto la struttura. Faceva un tipo di intervento molto forte sulla struttura. Normalmente i montatori lo fanno dopo il primo montaggio. Invece Kim, essendo anche sceneggiatore, lo faceva subito. La sua parola d’ordine era “stravolgiamo tutto!”
Veniva chiamato per il suo apporto creativo. Amava molto le costruzioni ellittiche (vedi la scena del treno nella galleria in Novecento). Ma queste ellissi dovevano essere così ben fatte da diventare comprensibili per tutti. Non si limitava a tagliare i ciak alle inquadrature: lui si preoccupava della struttura e del racconto del film.
Uno dei ricordi più graziosi che ho della lavorazione del Conformista riguarda un momento in cui la macchina da presa non c’era. Si stava in montagna, dove andava girata la scena terribile dell’assassinio del professore Quadri e di sua moglie Anna. Avevo 18 anni, e Bernardo non tanti di più. La sera del nostro arrivo, camminavamo in mezzo alla neve, c’era una slitta sul lato della strada e un pendio che si inoltrava nel buio. Ci siamo precipitati sulla slitta e siamo scivolati giù nella notte fonda. Per me, la memoria di questo episodio illustra la fiducia che ho in lui. Bernardo è uno capace di coinvolgere gli altri nel gioco, nell’oblio dell’Io e il divenire del Sé, così che il nostro doppio si ritrovi lontano dalle proprie paure, leggero, allegro, dimentico di qualsiasi pesantezza. Proprio di questo ha bisogno l’attore: di essere, semplicemente. Conosco pochissime persone che possiedono quella forza di liberare l’altro — indubbiamente la forma d’amore più alta che esista, sia nella vita che nel lavoro.
C’era una scena a tavola in cui io avevo solo una funzione rappresentativa: i veri protagonisti erano Trintignant, Enzo Tarascio, la Sanda. C’era un’atmosfera tesa, da “scena madre”: io ero in primo piano, ma non avevo alcuna battuta in copione. È ancora più difficile trovare l’atteggiamento e l’espressione adeguati alla circostanza quando non si deve parlare. Quindi mi ero preparata tutte le mosse da fare per apparire disinvolta, quando improvvisamente feci rovesciare la salsiera. Credetti di avere rovinato la scena e per il nervosismo reagii ridendo in maniera quasi isterica. Mi sarei calmata se non avessi incontrato lo sguardo di Dominique Sanda, che non sapeva più che cosa fare. Era stupita che Bernardo non ordinasse di fermare la macchina da presa; e, aspettando da un momento all’altro lo stop, batteva i denti per l’imbarazzo. La trovai così comica, con quella mascella enorme che già la rende buffa e che allora digrignava e batteva, che mi misi a ridere ancora più forte, mentre la macchina da presa continuava a girare. Bernardo aveva scoperto che quella situazione imprevista aveva dato alla scena una drammaticità maggiore.
Bernardo e io abbiamo la stessa età. Nessuno di noi due aveva veramente conosciuto il fascismo, quindi dovevamo documentarci. Di solito, a questo scopo, si usano fotografie, libri, giornali d’epoca. Invece, il mio suggerimento — accettato da Bernardo — fu quello di tralasciare questo genere di fonti e documentarci sui film di quell’epoca, non solo italiani, ma anche stranieri. Volevamo un’Italia fascista astratta, lontana dal documentarismo. Così non ci siamo riferiti a un’immagine vera e storica di quell’Italia, ma alla sua immagine riflessa nel cinema dei telefoni bianchi. Siamo andati a studiarci anche il gusto estetizzante di film come Angel di Lubitsch, con Marlene Dietrich. Il risultato è stato una forte stilizzazione. Gli ambienti che si vedono nel Conformista non riproducono alcun vero ufficio o ministero dell’epoca, ma si ispirano liberamente al modo in cui l’immaginario fascista ha interpretato questo genere di spazi. Molti marmi erano marmi veri, i marmi dell’architettura fascista che facevano il verso alla romanità. Io li ho decontestualizzati, usandoli anche come background in alcuni passaggi per strada. C’è una scena in cui si vede Trintignant camminare davanti a una parete di travertino con una lunghissima iscrizione latina. È una cosa dal sapore astratto, del tutto surreale. Eppure, non è che il muro esterno di uno dei più celebri monumenti di Roma, l’Ara Pacis. Feci costruire un lungo praticabile alto due metri, in modo che Trintignant camminasse proprio davanti alla scritta. Quel background copriva per intero lo spazio dell’inquadratura: sembrava una cosa infinita, sovrumana, che racchiudeva in sé tutti i miti dell’immaginario fascista, dal gusto della romanità fino al culto del superuomo. Qualcuno ha scritto che Il conformista ha favorito l’affermazione di un certo gusto per l’art déco. Effettivamente, prima di quel film, in giro non c’era nessuno che parlasse di art déco. Ed era anche difficilissimo trovare oggetti ed arredi degli anni ’20 e ’30. Ma naturalmente il film non ha inventato uno stile: ha soltanto contribuito a riportarlo in voga.
Dopo l’episodio dell’infanzia conclusosi con l’”uccisione” del pedofilo, Marcello comincia a nascondersi perché non è pronto ad affrontare quello che gli è successo. Ora, quale modo migliore per nascondere il fatto di sentirsi diverso degli altri che diventare un conformista, assomigliare il più possibile agli altri? E se volevi nasconderti ancora di più a quei tempi, diventare un fascista; io volevo creare una specie di gabbia visiva attorno al protagonista, usando fortissimi contrasti di ombre e di luci. Non dobbiamo mai vedere niente della realtà esteriore attraverso le finestre. Perciò usavamo molte persiane oppure carta velina. Questa gabbia visiva che stavamo creando la volevo quasi monocromatica, togliendo qualsiasi colore, cioè qualsiasi passione negli ambienti nei quali si aggirava. In un senso, il mito della caverna di Platone è una perfetta metafora per il cinema. Il professor Quadri lo usa per dire a Marcello che la gente, in Italia, non vede la realtà, ma solo le ombre della realtà. Quando ho scoperto quella stanza ho subito notato che c’erano due finestre e ho detto: “Bernardo, questo è perfetto: all’inizio possiamo avere le due finestre aperte, poi uno dei personaggi ne chiude una”. Però l’appartamento stava al secondo piano ed era indispensabile erigere una piattaforma fuori, in giardino, per poter piazzarci un arco così da ottenere la dovuta luce. Pregai perché la padrona di casa ce ne desse l’autorizzazione. Fortunatamente disse di sì. I movimenti della macchina da presa invece sono completamente di Bertolucci. Poi Coppola mi chiese di girare il mio primo film americano dopo avere visto Il conformista, di cui era una grande fan. Così questo film fu il mio passaporto per Apocalypse Now e per tutti quelli che ho fatto da allora.
Ero rimasto affascinato dal romanzo, ma la parte che mi aveva proposto Bertolucci all’inizio non mi piaceva troppo. Di lui, avevo visto Prima della rivoluzione, un film su Parma, bellissimo e decadente. Così gli scrissi dei dubbi che avevo, insistendo sul fatto che desideravo enormemente lavorare con lui, perché lo consideravo uno degli autori più sconvolgenti in Italia. Poi ci siamo visti, e mi ha convinto che la parte più interessante nella sceneggiatura era il non detto, tutto ciò che sarebbe stato suggerito attraverso il film. Da quel momento in poi, tutti i miei sforzi sono andati in questa direzione…
Io e Nadine, mia moglie, avevamo preso un appartamento a Roma per la durata delle riprese. Con noi, c’erano anche le nostre bambine, Marie e la piccolissima Pauline. Una mattina, mentre stavo uscendo per andare sul set, andai a baciare Pauline nella sua culla. Era morta… Non si è mai capito cos’è successo. Le riprese furono interrotte per alcuni giorni, durante i quali Bernardo fu molto presente e adorabile. Poi abbiamo ricominciato. Nella mia interpretazione c’era qualcosa di completamente infranto, che andava al di là del mio comprendonio, e che ha dato al film un colore unico. Fa parte del lavoro dei registi utilizzare qualsiasi cosa un attore possa portare ai suoi personaggi, positivo o negativo che sia.