Athos senior — Sentite. Per Tara, per tutta la regione, il mio nome ha un suono di ribellione, di coraggio. Se vengono a sapere del mio tradimento, tutto il nostro lavoro diventa inutile. Capito?
Non mi ucciderete voi! Un traditore è dannoso anche morto. È molto più utile… un eroe. Un eroe che la gente possa amare. Io sarò assassinato da un fascista, vigliaccamente. Offriremo uno spettacolo drammatico, che si scolpisca nell’immaginazione popolare, perché si continui a odiare, odiare, odiare sempre di più il fascismo. Sarà la morte leggendaria di un eroe: un grande spettacolo teatrale.
Proveremo. Proveremo come si prova a teatro. Centinaia di attori, tutto il popolo di Tara vi parteciperà, senza sapere. Tutta Tara diventerà un grande teatro.
Athos Magnani arriva col treno e, da solo, scende a Tara, dove è stato chiamato da Draifa, antica amante del padre, per cercare la verità sull’assassinio di quest’ultimo, nel lontano 1936. Benché Athos non abbia mai conosciuto il genitore — morto prima della sua nascita —, essi sono perfetti omonimi e si assomigliano in modo impressionante. Donde la confusione di tutti gli abitanti del posto, che continuano a celebrare in ogni occasione la memoria dell’eroe locale dell’antifascismo.
Mentre prosegue l’indagine di Athos, attraverso le testimonianze a volte contraddittorie dei compagni e dei nemici del defunto, si fa sempre più ovvio che la versione ufficiale nasconde qualcosa… Finché gli viene confessato che non fu “il piombo fascista” a colpire suo padre, bensì i suoi stessi sostenitori, da lui convinti a mascherare la propria esecuzione — per un presunto tradimento — come un attentato fascista, destinato ad ancorare l’odio verso il regime nel cuore dell’intera popolazione…
Invece di rendere pubblica questa nuova “verità”, Athos decide di avallare la leggenda prima di tornarsene a casa. Salvo che rimarrà prigioniero a sua volta dalla ragnatela paterna, realizzando sul binario che nessun treno passa più a Tara da chissà quanto tempo.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci, Eduardo de Gregorio e Marilù Parolini, dal racconto Tema del traditore e dell’eroe (1944) di Jorge Luis Borges
(Eastmancolor, 35mm, 1.37:1) Vittorio Storaro, Franco Di Giacomo; operatori Enrico Umetelli, Beppe Lanci
Maria Paola Maino
Sandro Melaranci
Roberto Perpignani
Brani dal Rigoletto e l’Attila di Giuseppe Verdi, Sinfonia da camera n. 2, op. 38 di Arnold Schoenberg; Giovinezza di Giuseppe Blanc; canzone Come un fior (aka Il conformista) di Mina e Martelli
(Mono, in presa diretta) Giorgio Pelloni
Giuseppe Bertolucci
Mimmo Rafele
Marilù Parolini
dipinti di Antonio Ligabue
Giulio Brogi (Athos Magnani padre e figlio), Alida Valli (Draifa), Pippo Campanini (Gaibazzi), Franco Giovanelli (Rasori), Tino Scotti (Costa), Allen Midgette (marinaio), Claudio Cerioli (bambino dell’osteria), Chiara Regina (bambina a casa di Draifa), Attilio Viti (domatore), Giuseppe Bertolucci (portatore della testa di leone) e i musicisti del Concerto Cantoni di Colorno
Giovanni Bertolucci per la Red Film / Rai-tv; direttore di produzione Aldo U. Passalacqua
Aiace
110′
Sabbioneta, Pomponesco, Villa Longari Ponzone di Rivarolo del Re, Stazione di Brescello, Teatro Magnani di Fidenza; luglio-agosto 1969
31a Mostra del cinema di Venezia, agosto 1970
RaiUno, 25 ottobre 1970 (eccezionalmente ripetuta il 1° novembre)
Fondazione Cineteca di Bologna e Massimo Sordella in collaborazione con Compass Film e RAI Cinema, 2019
I primissimi passi dell’esperienza analitica segnano il passaggio dal caos di Partner all’imprevedibile armonia formale di Strategia del ragno. Onirismo e complesso edipico stanno al centro di questo piccolo gioiello del “realismo magico” che vinse il premio Luis Buñuel. Dietro l’enigma a doppio fondo che fa da plot alla discesa nell’inconscio più intimo del regista, il film vuole essere pure una riflessione ideologica sugli anni del dopoguerra. Il punto non sembra tanto di sapere se l’eroe ha tradito o no, quanto di capirne il “perché”…
Considerato da alcuni un remake atipico dell’Uomo che uccise Liberty Valance (1964) di John Ford ambientato nella Bassa Padana, verrà rivisitato a sua volta da John Sayles in Lone Star (1995). [F.G.]
Nel clima di allucinazione, di quiete e minuziosa follia che dal primo momento gli si è creato intorno e che costituisce la chiave stilistica (“magrittiana”, per usare un aggettivo suggerito dallo stesso regista) dell’intera narrazione, scopre a poco a poco che l’eroe, in realtà, è stato un traditore. Ma è stato un traditore per viltà o per “strategia”, cioè per offrire se stesso come martire alla causa della libertà?
L’uccisione del traditore da parte degli amici, infatti, è stata “truccata” per idea della stessa vittima, in modo di risultare un crimine degli avversari. Il figlio, saputa la verità, capisce di non poterla usare che per se stesso. Le lapidi devono rimanere al loro posto. Su questo spunto, che deriva da un breve racconto di Borges, Bertolucci ha costruito un film incantevole per la dolcezza appena avvelenata delle immagini, per la precisione volta a volta tenera o bizzarra dei dettagli. Direi che questa della tenerezza, della riscoperta limpida e affettuosa ma rabbrividente, come incrinata da un fiato di morte, di un paesaggio e di una gente è la dimensione decisiva di Strategia del ragno, quella che ne determina e ne spiega la sottile, continua tensione poetica. È come se la mistificazione dell’immagine del padre, che il protagonista persegue, si fosse rovesciata, fra le mani del regista, in una sorta di struggente omaggio all’immagine della propria infanzia, dei luoghi nativi, della sua pietà filiale.
Allo stile contrastato, caotico, fatto di citazioni e di tic alla moda che caratterizzava Partner, ha fatto seguito un’opera limpida, luminosa, dove l’autore si riallaccia alla felicità espressiva che trovavamo in Prima della rivoluzione.
Ma Bertolucci non è qui soltanto l’ammirevole pittore dell’Italia provinciale, si muove da maestro sul tenue confine che separa il reale dall’immaginario, un gioco che affascina parecchi registi moderni, da André Delvaux a Ruy Guerra. E non è solo perché Bertolucci cita Magritte che si pensa all’autore di Una sera, un treno davanti a questa limpidezza delle notti e a questa ricerca di un fantastico quotidiano. Delle scene rustiche di perfetta naturalezza preparano il terreno per un viaggio nella memoria, per un angoscioso confronto con il passato. La corsa di Athos per le strade di Tara, i cui abitanti stanno immobili agli incroci, sbocca in un luogo dove si ascolta nuovamente il Rigoletto. Preso nella trappola della verità, si rifiuta di divulgarla e torna in stazione per riprendere finalmente il treno che lo aveva portato lì. Colà, fissa i binari ormai coperti dall’erbaccia.
Bertolucci è un poeta che ci impone le maggiori audacie: i compagni del padre sono interpretati nel presente come nel passato dagli stessi attori — non truccati —, e noi accettiamo tale stranezza come un supplemento di realismo. Ritrova l’ebbrezza di filmare e ce la fa condividere finché, storditi, ci ritroviamo all’improvviso alle soglie dell’ignoto.
Un film per chi ha amato e per chi non ha amato Ultimo tango a Parigi: realizzato in tutta modestia, con finanziamenti televisivi, non è arbitrario considerarlo il capolavoro di Bernardo Bertolucci. Si tratta di una versione padana, girato tra Sabbioneta e Pomponesco, del racconto di ambiente irlandese “Tema del traditore e dell’eroe”, raccolto da Jorge Luis Borges in Finzioni (Einaudi). Athos Magnani, figlio e omonimo di un eroe antifascista di cui esiste il culto in un paesello della Bassa, torna come Oreste alla terra dei padri per scoprire l’assassino del genitore. I suoi scandagli nella memoria dei vecchi militanti incontrano improvvise difficoltà, affondano in zone d’omertà mal conciliabili con la civiltà edonistica ed estroversa dei culatelli e del Lambrusco. In fondo a questo itinerario, percorso con ostinazione compulsiva, c’è una rivelazione spiacevole; ma anche il raggiungimento della consapevolezza che la verità vale sempre più del mito. Pochi film abbiamo visto, negli ultimi anni, immaginati e scritti in un tale stato di grazia, con la leggerezza un po’ straziata di certe pagine mozartiane. Eppure per Bertolucci si è visibilmente trattato di rimettere in questione, quasi in psicoanalisi, tutta una privatissima eredità etnica e culturale: l’ha fatto con fermo coraggio e struggente delicatezza. Strategia del ragno sullo schermo, per chi già l’avesse visto in tv, ha in più i colori di una soave tavolozza; e resta fra le più belle interpretazioni dell’ultimo cinema italiano la doppia personificazione che Giulio Brogi fa del padre e del figlio: ecco cosa significa, facendo il mestiere dell’attore, avere un autentico talento da artista.
Il soggetto da cui parte Bertolucci è un brevissimo racconto di Borges, la cui azione si svolge nel passato “in un paese oppresso e tenace” che lo scrittore indica come l’Irlanda. Un cospiratore viene assassinato in circostanze misteriose e l’enigma del delitto rimane insoluto. Dopo molti anni, il nipote indaga su questo delitto per scoprire la verità e gli si rivelano a poco a poco tracce inquietanti di una “armonia prestabilita”. Alcune scelte narrative e scenografiche riprendono e concretizzano il tema borgesiano della “armonia prestabilita”. Sono essenzialmente tre: Tara, cioè Sabbioneta, cioè una città magica, armonicamente costruita nel ’500 da un Gonzaga di Mantova, la cui struttura rinascimentale è rimasta intatta e le cui linee parallele, le piazze, i grandi spazi, sono lo scenario dentro il quale si compie il viaggio a ritroso di Athos figlio. Il melodramma, cioè Verdi, cioè il Rigoletto, che scandisce con la sua musica tutto il prefinale e lo scioglimento dell’enigma. Dramma anche di tradimenti e di travestimenti che richiama e si armonizza con il dramma del traditore che si traveste da eroe. Infine la rappresentazione: quella antica, che sta alla base del mistero dell’assassinio di Athos Magnani; e quella recente, architettata a beneficio di Athos figlio. E l’armonia della rappresentazione antica, in cui si copiano i grandi drammi della Storia e della letteratura, viene ripresa, in “parodia”, nella rappresentazione recente in cui Draifa e i tre amici (ai quali si aggiunge il fascista del luogo) mettono in scena una sorta di maldestro “teatrino di famiglia”.
Fu Strategia del ragno (1970) più del Conformista (1970), a rinnovare la mia fiducia nel talento di Bertolucci. Entrambi i film, come già Prima della rivoluzione e Partner, erano l’esuberante espressione di un sinostroide tormentato dal senso di colpa, un ragazzo ricco e viziato con un’immaginazione barocca e una coscienza sociale che si abbandonava a idee cupe e decadenti sul privilegio e a innocenti fantasie sul sesso. A differenziarli era a mio avviso il modo in cui Il conformista soccombeva a un intreccio elegante, a una stilosità che prendeva il posto dello stile.
Fu Il conformista, film dal budget relativamente grosso, adattamento di un romanzo di Alberto Moravia, a rendere il nome di Bertolucci noto al mondo influenzando a tal punto il cinema americano che la trilogia del Padrino di Coppola non sarebbe stata concepita senza quel film. Ma fu il più imponente e avventuroso Strategia del ragno — film commissionato dalla tv e adattato dal racconto di Jorge Luis Borges “Tema del traditore e dell’eroe” — che rivelò come Bertolucci lottasse corpo a corpo con la propria storia e non solo con le aspettative del mercato. La sua mise en scène potrebbe avere sopraffatto il contenuto, facendo di Bertolucci un manierista, ma quel contenuto non ha nulla di facile, e la regia non è mai meramente decorativa. E tuttavia, forma e contenuto erano troppo europei per conquistare il mercato americano — a differenza del più patinato Conformista, così elegante da far venire in mente una delle vetrine di Marshall Field’s.
Come avrete dedotto, Strategia del ragno non è un film per il pubblico di massa. Incanterà più che altro le persone sensibili all’audace uso dei movimenti di macchina e dei colori di Bertolucci. Molto tempo fa, Pauline Kael disse che di tutti i registi influenzati da Godard, Bertolucci è l’unico a portare avanti il modo di guardare di Godard, e non solo a imitarlo. Strategia del ragno ne è testimone, ed è un film che più che analizzare val la pena guardare.
Almeno la metà del film è blu come certi quadri di Magritte, perché ho girato molto nel breve intervallo della luce tra il giorno e la sera. È il colore che si può ottenere soltanto nei pochi minuti appena il sole è tramontato d’estate, se si filma senza mettere dei filtri. È un blu molto speciale, inequivocabile, che tutti gli operatori temevano, allora. Noi cominciavamo a girare proprio quando un operatore tradizionale avrebbe detto basta.
Strategia del ragno…
Film del 1969.
Sono passati quarant’anni.
Mamma, quanti!, sembra ieri.
Che buona aria si respirava in quella stagione, ossigenata dall’entusiasmo e dalle capacità professionali di gente che credeva in quello che faceva, che si sentiva utile.
Che luci, che atmosfere, che serate al piccolo ristorante di Sabbioneta, a parlare, parlare.
Che personaggi, che persone: la mitica Alida Valli (Draifa), Tino Scotti, grottesco tragico (Gaibazzi), Pippo Campanini (Costa), saporito illustratore di culatelli, il trentenne Bernardo Bertolucci, pieno di vigore e di fantasia, l’ancor più giovane Vittorio Storaro, attrezzato fin da allora per imprese luminose.
Che atmosfera!
Posso dire d’esserci rimasto impigliato in quella ragnatela tessuta con i fili della poesia, dell’amore, della passione, dell’impegno che alimentavano la speranza in un mondo meno becero.
Nostalgia? Eh beh!
Amo questo film.
Me lo giro e me lo rigiro di continuo nel set della memoria.
È un fatto che i protagonisti, due attori che più diversi era difficile metterli insieme (Alida Valli, grande diva d’antan, e Giulio Brogi, icona del cinema “impegnato” di quegli anni) duettano meravigliosamente, con un’intesa perfetta. Che Tino Scotti, da sempre attore comico, spesso farsesco, recita in modo strepitoso il suo unico (e ultimo) ruolo drammatico. Che due amici di Bernardo, che non hanno mai visto un set cinematografico, scritturati in ruoli minori ma importanti danno vita a due stupefacenti interpretazioni. Che questo giovane e sconosciuto operatore, Vittorio Storaro, osa una fotografia rivoluzionaria (le notti azzurre e chiare, come in un quadro di Magritte, girate al crepuscolo, la luce proveniente solo dalle fonti reali senza la tradizionale illuminazione “diffusa”). Che nei flashback, sempre per ragioni di budget, i personaggi hanno sempre la stessa età, con uno straordinario effetto, straniante e commovente insieme. Sotto i nostri occhi, insomma, si andava compiendo una specie di miracolo: l’“operina” si ribellava con forza al suo destino “minore” e, quasi contro il suo stesso autore, diventava, piano piano, un capolavoro.
Il giorno in cui si girava la scena dove Athos padre convince i suoi compagni a mascherare la sua esecuzione da attentato fascista, salimmo in cima al campanile, con tutta la città in vista, e l’unico strumento che potevo portare lassù era una sun gun per illuminare gli attori. Ero convinto che qualunque cosa io facessi, la scena sarebbe risultata terribile. Così mi sono chiesto: “ma perché dovremmo vedere quest’uomo? Sta diventando un simbolo: perché non trasformarlo in una silhouette?” Ora, sinceramente, se cercai di convincere Bernardo di girarla così era in parte perché c’era pochissima luce! Quindi dissi a Bernardo che si sarebbe potuto girare l’inizio della scena in modo normale, illuminando gli attori con la sun gun; poi, quando Athos si muoveva, avremmo visto solo la sua sagoma contro lo sfondo della città bagnata di sole, rendendo la nostra intenzione perfettamente chiara allo spettatore. Filmando così ero in grado di rappresentare simbolicamente l’inconscio del personaggio, e allo stesso tempo di visualizzare l’approccio alla storia di Bertolucci, cioè dal lato inconscio.