di Bernardo Bertolucci
Quando ho fatto il mio primo film, La Commare secca, avevo ventun anni. Alla prima intervista chiesi ai giornalisti di poterla fare in francese. Mi guardarono perplessi e mi chiesero il motivo. Risposi che il cinema parla francese. Ero follemente innamorato della nouvelle vague. Avevo trascorso l’estate del 1959, dopo gli esami di maturità, a Parigi, dove avevo visto À bout de souffle. Quando, due o tre anni dopo, ho realizzato il mio primo film sentivo di appartenere molto di più al cinema francese, che adoravo, piuttosto che al cinema italiano. Non era più il tempo eroico di Rossellini, Visconti, De Sica. C’era Antonioni che faceva dei film magnifici, ma c’era soprattutto la commedia all’italiana che, estremizzando, consideravo il degrado estremo del neorealismo. Con i suoi temi sociali, i suoi personaggi, era una specie di neorealismo rosa. Avevo scelto dunque la mia nazionalità. Dentro di me, mi consideravo un regista francese. Avevo visto i film di Godard, di Truffaut, avevo incontrato Agnès Varda e Jacques Demy, soprattutto avevo incontrato i Cahiers, una rivista che in Italia ogni tanto si trovava, ma solo in certi posti. Aveva ancora la sua divisa gialla. Era un momento di passaggio: i critici cinematografici dei Cahiers stavano diventando registi. Mi capitava spesso di leggere testi critici scritti dai miei cineasti preferiti. Il primo vero incontro è avvenuto a Cannes nel 1964, dove mi trovavo per il mio secondo film, Prima della rivoluzione, praticamente respinto quasi all’unanimità dalla critica italiana. Mi avvicinò Jean-Luc Godard che, alla fine della proiezione, si era presentato davanti al pubblico per dire quanto il film gli fosse piaciuto. Subito dopo vennero da me due o tre giovani critici dei Cahiers, Jean Narboni, Jacques Bontemps, forse anche Comolli. Mi sono sentito adottato dalla rivista. Per me, che vivevo nel mito del cinema francese, fu una sensazione indimenticabile.
Chi non ha conosciuto il cinema degli anni Settanta “non sa cosa sia la dolcezza di vivere”. Tutto era cominciato con la contestazione al “cinéma du papa”, il cinema dei padri, poi con il successo di pubblico dei primi film di Jean-Luc e François. Io ero un po’ più giovane però a Cannes, a Pesaro o in altri festival meno importanti ci si incontrava e ci si sentiva non solo della stessa generazione ma parte di un gruppo virtuale o ideale, dove c’erano dei canadesi, degli italiani, dei giovani americani, dei brasiliani come Glauber Rocha, e Gustavo Dahl o Paul César Saraceni… era un luogo di passioni, uno stato di grazia, dove ciò che ci univa era la sensazione che il cinema fosse il centro del mondo. Voglio dire che se facevo un film, questo era influenzato più dal cinema che dalla vita o, meglio, era influenzato dalla vita attraverso il cinema. Dicevo all’epoca, provocatoriamente, che avrei potuto farmi uccidere o uccidere per un piano sequenza di Godard. E Godard, che girava due o tre film all’anno, era l’autore che ci rappresentava meglio, con la sua severità un po’ calvinista e la sua capacità di tenere il mondo e quel che scorreva intorno nell’incavo delle sue mani. Certi film di Godard sono “datati”: autunno del 1964 o primavera del 1965. Sono film che galleggiano sulla superficie del presente, c’è uno scambio continuo tra il cinema di Godard e il presente. Mi ricordo che durante le riprese di Prima della rivoluzione era uscito Le mépris (Il disprezzo) a Milano, ma non a Parma dove stavamo girando. Una sera, dopo una giornata di lavoro, stanchissimo, mi sono precipitato in macchina fino a Milano per farmi travolgere dalla bellezza di Le mépris. Siamo stati tutti segnati da quel periodo, io e gli amici della mia generazione, Glauber Rocha, Gianni Amico, Jim McBride e altri. Al punto di formare quasi una setta.
[In Bernardo Bertolucci, Je me serais fait tuer pour un plan de Godard, in Cahiers du Cinéma, aprile 2001, n. 556; poi in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti 2010]