Qual è il rapporto tra cinema e storia, tra cinema e memoria?

Spero, a Bologna, di accorgermi di essere riuscito a raccontare un po’ come se nel tempo non esistessero il prima e il dopo, come se ci fosse un costante presente. Ho sempre pensato che il cinema conosce soltanto una coniugazione, il presente, perché la macchina da presa filma il presente che ha davanti. Anche se vesti i personaggi da antichi romani o da contadini e padroni del secolo che muore e del secolo che nasce e, quindi, cerchi di dare una connotazione temporale, poi in realtà la prospettiva dello spettatore che guarda il film è di contemporaneità. Il cinema è sempre in diretta. In Novecento c’è una giornata che contiene cinquant’anni, tutta la prima metà del secolo: è il 25 aprile.


Lei è nato nel 1941. Ha qualche ricordo personale della guerra?

Ho il ricordo di un episodio molto nitido. Credo di avere avuto tre anni, non so se è un ricordo o un sogno. Eravamo sfollati a Casarola. Un giorno si sentono delle voci nei campi. Mio padre mi prende per una mano e ci sediamo sulla soglia della casa di Casarola, io seduto per terra e mio padre sullo scalino e incominciamo a giocare con dei sassolini. Dopo un attimo sbucano dei giovanissimi soldati, probabilmente della Hitler Jugend, con dei rami infilati nell’elmetto, mimetici, cantavano. È molto nitido. In seguito mio padre me l’ha raccontato tante volte. Lui diceva sempre di essere pauroso, ma che nei momenti di emergenza diventava coraggiosissimo. Avrebbe potuto essere arrestato. Cosa faceva un uomo di trentadue, trentatré anni in un paese di montagna senza essere soldato? Invece capì che mettersi lì e farsi vedere significava che non aveva nulla da nascondere. Eravamo sfollati perché mio nonno Bernardo aveva sentito dire in città che i fascisti sarebbero venuti a cercare mio papà perché a scuola faceva lezione di antifascismo. Era molto fiero e anche, però, addoloratissimo che due condannati a morte della Resistenza erano stati suoi studenti. Era un conflitto duro: i suoi insegnamenti finirono per diventare la ragione per cui due suoi studenti erano morti giovanissimi.

 

Il film resta anche come documentario. Le facce di quei contadini oggi in Emilia non esistono più…

Di questo devo dare atto a Gabriele Polverosi che per mesi andò a battere le campagne tra Parma, Mantova e Cremona a cercare proprio i visi più antichi che c’erano in giro. È stato un lavoro molto meticoloso e anche entusiasmante perché avevamo la sensazione di avere davanti l’essenza dei contadini che io ricordavo da bambino, che avevo mitizzato e che temevo non ci fossero più. Era l’epoca in cui Pasolini scriveva i suoi editoriali profetici e tragici sull’omologazione e sul genocidio culturale e io avevo paura di andare a fare un film in un’Emilia dove questo massacro culturale era già avvenuto. Invece mi resi conto che, proprio grazie agli strumenti dati dal socialismo e dal comunismo tra gli anni Venti e Quaranta, i contadini emiliani erano consapevoli del tesoro che costituiva la loro cultura. Nascevano i primi musei contadini come quello di Ettore Guatelli a Ozzano Taro. Era come se, grazie a quell’elaborazione politica, una parte dell’Italia vedesse ciò che accadeva, vedesse lo spazio che prendeva il consumismo, vedesse che la televisione unificava anche la lingua. Non oserei più entrare in un campo di pomodori oggi…

 

A quei tempi l’idea della cultura come strumento di emancipazione era ancora forte.

Infatti per me è stato molto frustrante in campagna elettorale cercare e non trovare mai, dove avrei voluto trovarla, la parola cultura. Le grandi affermazioni di Berlusconi sono la prova che la gente non riesce a elaborare ciò che le accade. Perciò la cultura è la cosa più importante. Anche perché la destra disprezza la cultura. I fascisti parlavano di «discorsi intellettualoidi». È sempre stata questa la loro terminologia.

La lotta di classe che è il motore del film è ancora uno strumento per interpretare e leggere la storia e la contemporaneità?

Certo, però è come se la parola lotta e la parola classe avessero cambiato significato. Si tratta di due parole che ci sono ancora, ma si sono trasformate. Ci sono ancora le classi? Girando in Toscana poco tempo fa una domenica, continuavamo a vedere case del popolo. Uno dice: «Sono tutte chiuse, il popolo dov’è?» E un altro, cinico, dice: «Il popolo è in weekend». Io credo che anche se di questo strumento di lettura si sente la mancanza, bisogna essere capaci di buttarsi a corpo morto dentro le cose, di abbandonarsi davanti alla realtà, davanti alla macchina da presa. È per questo che Novecento è insieme un film di finzione, un melò, e un documentario soprattutto sui contadini. Trovarsi davanti alla macchina da presa quelle facce e quei corpi…

In un articolo sul Corriere nel 1976 ha scritto che l’ottimismo di Novecento era quello della classe dalla cui prospettiva la storia era vista. Era un tentativo di presa di distanza?

No. Mi distacco da quell’ottimismo solo oggi, forse. Era l’ottimismo della metà degli anni Settanta che oggi non esiste più, anche se lo cerchi in giro per tutta l’Italia. È questa la ragione per cui non sono mai riuscito a chiudere il capitolo Novecento con un Atto III. Non c’è più il contesto nazionale collettivo. E la parola utopia ha cambiato significato. Uno dei miei primi film si chiama Prima della rivoluzione ed è come se fossi condannato a vivere sempre «prima della rivoluzione».

© mininimum fax, 2016
Foto del Fondo Angelo Novi (Fondazione Cineteca di Bologna)