Per festeggiare l’uscita del secondo volume della rivista curata da Mario Mazzetti di Pietralata, amico dei Bertolucci caro e di lunga data, Mangiare&Essere, pubblichiamo l’intervista di apertura in cui Bernardo parla del cibo nei suoi film. L’intervista è stata fatta nel 2006 da Fabien Gerard ed Elena Marco, scomparsa lo scorso dicembre e che ricordiamo con affetto.

La “camera da pranzo” di Bernardo Bertolucci

di Fabien S. Gerard e Elena Marco

 

In ricordo della Rosa Bianca che sapeva di mandorla amara

e della cugina che profumava di essenze rosse

 

Chi ha letto il volume Scene madri di Bernardo Bertolucci (a cura di Enzo Ungari & Donald Ranvaud, Ubulibri 1987), sa che il cinema del grande regista di Parma è caratterizzato da ricorrenti “scene madri” di balli e rituali sessuali, attraverso le quali i protagonisti si mettono a nudo e rivelano le proprie verità nascoste. In questa prospettiva, sia il “letto” sia la “balera” sono luoghi privilegiati dove tutti i tabù si rivelano e dove, sul piano drammaturgico, ogni cosa diventa improvvisamente possibile. Uno sguardo attento ai film di Bernardo Bertolucci ci autorizza però a individuare una funzione altrettanto significativa in quella che comunemente si definisce “camera da pranzo”. Mentre si svolgevano alla Cineteca di Bologna le manifestazioni per il trentennale di Novecento (1976), all’inizio della scorsa estate, abbiamo incontrato Bertolucci e discusso con lui sul ruolo del cibo, e sul rito del mangiare (e del digerire), nelle sue opere cinematografiche, con le valenze simboliche e metaforiche che questo tema comporta.

Uno degli elementi che più ci ha colpito rivedendo Novecento, in piazza a Bologna, è il fatto che lei non si limita a filmare solo pranzi e cene, ma anche ciò che precede l’atto del consumare il cibo (la caccia alle rane e alle anatre, o addirittura l’uccisione del maiale) fino all’ultimo atto del nutrirsi, ovvero gli escrementi. Non vengono in mente molti registi altrettanto attenti a rappresentare la catena completa del ciclo alimentare.

Mi sembra così normale… voglio dire che non c’è dietro nessun significato recondito, è semplicemente accaduto. È comunissimo al cinema che la riunione dei personaggi a tavola, oltre a definire l’ambito sociale in cui si svolge l’azione, si presenti come un’occasione ideale per mettere a confronto i vari punti di vista e rivelare le tensioni e i conflitti. Per quanto riguarda la scena dell’uccisione dei maiali in Novecento, in realtà, questa era quasi rifacimento del cortometraggio intitolato La morte del maiale (1956), che girai da ragazzo, in 16 millimetri. Fino a dodici anni sono cresciuto fuori città, in un podere che stava a qualche chilometro da Parma, e la visita del Norcino, ogni anno, nelle nebbie di novembre, era qualcosa che aspettavo in stato quasi febbrile, insieme con gli altri bambini del posto, i figli dei contadini che lavoravano per mio nonno.

Rispetto ai piccoli contadini, che erano forse più agguerriti, come viveva questo spettacolo di per sé orribile? Per i suoi compagni di gioco non era forse anche un’occasione per testare la sensibilità del nipotino del padrone, come succede spesso in Novecento?

Eravamo tutti eccitatissimi, anche perché sapevamo che, subito dopo il “sacrificio”, iniziava la festa e l’allegria. Eravamo pronti a mangiare i ciccioli, e qualcuno ci avrebbe persino fatto assaggiare un po’ di vino. Il vino che aveva lo stesso colore del sangue, mentre gli adulti avrebbero continuato a squartare quel benedetto maiale, correndo su e giù per preparare salami, zampetti, sanguinacci, lardo, cotechini, cappelli del prete. In altre parole, questa elaborata cerimonia, che si ripeteva tale e quale dalla notte dei tempi, rappresentava la vita: allontanare la fame, almeno per un anno, almeno metaforicamente.

Nel suo primo lungometraggio, La commare secca (1962), ispirato a un soggetto di Pasolini, è significativo che uno dei protagonisti vada incontro alla propria morte proprio nel tentativo di farsi un cenone.

Ecco, forse tutto comincia lì. Chissà, forse perché la pellicola della Morte del maiale è andata perduta da tempo. Nella Commare secca c’è la scena in cui due “ragazzi di vita”, Pipito e Francolicchio, gironzolano a vuoto per Monteverde Vecchio, a Villa Sciarra, finché le loro amichette tirano fuori dei panini per la merenda, e così tutti e quattro si mettono a parlare di cibo.

Francolicchio fantastica di mangiare sempre e solo gli gnocchi, sia come primo sia come secondo, mentre Pipito promette di sposare subito la donna che accetterà di preparargli tutti i giorni un bel piatto di patate in umido.

Si tratta pur sempre, però, di un loro sogno. Anche se sono disposti a rubare e a rischiare per rimediare quelle misere (duemila) lirette che serviranno per la cena con le ragazze. In realtà, un po’ come succede per i contadini di Novecento, per entrambi la fame rimane un’ossessione quotidiana, direi cronica, che fa parte del loro essere al mondo.

Viene subito da pensare a Olmo: appena nato, viene definito “un’altra bocca da sfamare”. E poi c’è la figura di “Montanaro”, quando torna alla sua capanna con l’orecchio tagliato e suona l’armonica per far passare la fame ai figli, che hanno finito anche gli ultimi piccoli avanti di polenta condita con qualche lisca di sardina. C’è chi mangia la polenta o le patate, e chi può permettersi qualcosa di più consistente o di più ricercato. E così torniamo alla funzione drammaturgica del cibo, che aiuta a definire lo stato sociale di ognuno, come nel caso di Bustelli, sempre nella Commare secca, che vediamo inghiottire un uovo crudo uscendo di casa oppure Attila (Donald Sutherland), in Novecento, quando sogna di bere “un marsala all’uovo”, e un istante dopo la sua Regina (Laura Betti) lo corregge con poche parole: “Marsala il mio culo. Io voglio champagne!”.

Il film, allo stesso tempo, si nutre di chi lo fa e nutre chi lo sta facendo. È fisiologico. Naturalmente poi, in ogni film, il mangiare assume un peso diverso. La commare secca è ambientato ai margini delle vecchie borgate romane, mentre Novecento è un omaggio alla civiltà contadina, alla terra, che è fonte di nutrimento… che è madre. Ogni pranzo è un invito alla drammaturgia: durante la prima cena a casa Berlinghieri, i padroni di Novecento, dove vengono servite fritte le rane cacciate dal piccolo Olmo, avvengono una serie di scontri tra i personaggi e si dicono tante, tante cose. Parallelamente, c’è la cena anche dai contadini, dove a mangiare nella grande cucina sono in 40. Lì, in quel luogo, tutti insieme condividono la solita polenta. Lì si scodella cibo e inferno per le generazioni a venire.

Il pranzo è, però, anche una cerimonia, un rituale.

Sì, certo, ma è più che un rituale, proprio perché in ogni film si svolge in modo diverso. In Strategia del ragno (1970), per esempio, il giovane Athos Magnani (Giulio Brogi), che è il protagonista, viene quasi costretto a mangiare, sia da Draifa (Alida Valli), sia dagli amici del padre, Gaibazzi, Rasori e Costa, e tutti gli propongono sempre lo stesso piatto: trippa, trippa e ancora trippa.

È molto buffa la scena in cui Athos arriva da Rasori, che lo invita immediatamente a mangiare, anche se lo stesso Athos si è appena alzato da tavola lasciando la casa di Draifa. E quando il poveretto tenta di spiegargli che ha già mangiato, Rasori si irrita e quasi si infuria, minacciando di offendersi davanti a quel volgare rifiuto.

Anche se Athos ha già mangiato, dovrà mangiare un’altra volta. Ecco, qui non è più un rito, diventa un’altra cosa: inconsapevolmente, gli amici di Athos padre vogliono che Athos figlio capisca la straordinaria e melodrammatica verità che c’è dietro la morte dell’eroe “vigliaccamente ucciso dal piombo fascista”. Ingozzarlo di cibo è il primo modo di rivelare al giovane il grande segreto. Si tratta di qualcosa di molto serio, così come è qualcosa di molto serio discutere a quattr’occhi attorno a un piatto di trippa; oppure mentre si controlla la maturazione dei culatelli che stanno a stagionare nella stanza rossa, come succede durante la visita che Athos fa successivamente a Gaibazzi, il grande Pippo Campanini, di Fidenza, il quale era capace, esattamente come fa in Strategia del ragno, di canticchiare in falsetto qualsiasi opera di Verdi per poi cantare senza soluzione di continuità la sublime cucina delle nostre parti.

Il ricordo di Campanini ci porta a evocare una battuta di Prima della rivoluzione (1964). La scena si svolge subito dopo la morte di Agostino.

Agostino si è annegato nel fiume ed è la prima volta che vediamo Adriana Asti, anzi Gina, la zia di Fabrizio, che è appena sbarcata da Milano, dove vive da anni. Tutta la famiglia, compresi la nonna e il fratellino, si ritrova a tavola attorno all’ospite. E finito il pranzo arriva il momento in cui Gina dice: “Ah, Parma, Parma! Prima si mangia e poi si parla di ciò che si è mangiato. È come mangiare due volte”.

Il discorso tenuto da Gina risuona anche nell’Ultimo imperatore del 1987 (scena che si può vedere solo nel DVD con la versione integrale del film, ndr), quando l’eunuco “Gobbetto” nomina una serie di pasti sofisticatissimi, che sfilano sullo schermo mentre vengono presentati all’assaggiatore dell’imperatore: zampone d’orso, bile di serpente, uova di cent’anni, e così via.

A dire il vero, questo elenco veniva, in parte, dal ricordo de La presa del potere da parte di Luigi XIV (1966), in cui Rossellini aveva messo in evidenza il rituale quotidiano, aberrante e quasi surreale, della colazione del Roi Soleil. Per il resto, noi stavamo scoprendo la Cina, e la Cina di allora, negli anni Ottanta, era ancora un altro pianeta, per lo più sconosciuto, dove i pasti, allo stesso modo dei palazzi della Città Proibita, avevano e hanno quasi sempre nomi straordinari per noi occidentali. Non si poteva, dunque, perdere l’opportunità di far vedere almeno alcune portate del pranzo imperiale, perché ognuna è un’opera d’arte sia a livello visivo, sia dell’invenzione del nome.

Per uno che è nato in una città dove si cucina fin troppo bene, una cucina considerata, tra le altre, tra le più influenzate, dal punto di vista storico, dalla Francia, non è stato un peso il mito del cibo? Lei, insomma, da bambino, mangiava volentieri oppure chiudeva ostinatamente la bocca?

Secondo le storie che si raccontavano in famiglia, non credo di aver mai avuto difficoltà particolari nei confronti del cibo, semmai una certa tendenza alla ritenzione, questo sì. Quando eravamo sfollati sull’Appennino, nel ’43, dove faceva molto freddo e il gabinetto stava fuori casa – come succede ancora oggi nelle vecchie residenze di montagna –, i miei genitori avevano trovato una carta geografica impermeabile che poteva essere lavata. La carta veniva stesa sul pavimento della vecchia cucina, nel punto più caldo, per evitare che io uscissi di casa. E quando accadeva, assai di rado, che io facessi i miei bisogni, venivo applaudito da tutti i presenti. Per colpa forse di questo ricordo infantile, nella vita, qualsiasi merda facessi, pensavo di meritare un applauso. Ho sempre creduto, comunque, che quando si parla di cibo, non ha senso far finta che non esista il processo di evacuazione. Forse sarà legato al fatto che esiste una familiarità assai diversa con ogni aspetto della natura per chi vive o è vissuto in campagna, dove uno, appena esce di casa, è circondato dal letame. E il letame non è considerato qualcosa di sporco dai contadini. Al contrario è una materia nobile, che fa parte della catena ecologica: rende ricca la terra e consente di sperare in raccolti abbondanti.

“Latte e merda” come viene detto in Novecento?

Lo dice il vecchio Alfredo Berlinghieri (Burt Lancaster), pochi minuti prima di impiccarsi nella stalla, tra le bestie. Si siede su un piccolo sgabello, si toglie le scarpe e ficca i piedi nudi nello sterco di vacca, ripetendo più volte: “Latte e merda, squisch, squasch, latte e merda nel cervello”. È l’esatta descrizione di ciò che c’è attorno a lui: la stalla, le mucche, la mungitura, e quindi il potere, il capitale, anzi “il capitale vivo” come viene definito nella scena successiva del falso testamento.

In questo caso, per di più, il padrone confonde il cibo, ovvero il latte, con gli escrementi.

È il tipo di confusione in cui, a volte, capita che vivano gli anziani. Ma non dimentichiamo che il vecchio padrone chiede alla ragazza, che nello stesso momento sta mungendo una vacca accanto a lui, di provare a “mungere il toro”, che sarebbe lui, ormai impotente e quindi incapace di produrre il proprio “latte”, vale a dire il seme, se vogliamo interpretare il tutto in termini psicanalitici.

Sempre in Novecento, si assiste a una scena che mostra i Dalcò impegnati a bombardare i fascisti con lo sterco dei cavalli. Nell’Ultimo imperatore non solo vediamo il pascolo “Figlio del Cielo” seduto sul vaso da notte, ma c’è persino una soggettiva sulle sue feci, quando il medico incaricato di analizzarle ogni mattina prescrive la dieta alimentare e decreta: “Più verdura, oggi, e niente carne”.

Anche la Cina è rimasta una civiltà prevalentemente agricola. D’altronde, e questa non è una mia invenzione, le mura della Città Proibita hanno lo stesso colore rosso delle “Piacentine”, la grande fattoria dove venne girato Novecento. In più va ricordato che uno dei titoli dell’imperatore cinese era d’essere “Padrone del Podere”, nel senso che ogni anno veniva chiamato a dare l’esempio a centinaia di milioni di contadini, suoi sudditi, tracciando simbolicamente il primo solco e seminando la terra appena arata. Così come, qualche mese dopo, doveva essere lui in persona il primo a iniziare la mietitura.

Un’altra ricorrenza su questo tema è la cucina. A cominciare da Partner (1968), film in cui il vecchio domestico, Petrushka (Sergio Tofano), prepara delle uova al burro per Giacobbe (Pierre Clémenti).

Direi di più, Petrushka vive letteralmente in cucina. È il suo territorio, il suo regno – e forse anche la sua prigione –, dalla quale comunica con il mondo esterno solo attraverso quella specie di ghigliottina che è il passapiatti, un riferimento, tra l’altro, al fatto che il personaggio era stato suggeritore, a teatro, prima di lavorare per Giacobbe. Un buffer atipico, insomma, capace di recitare Ibsen mentre lava i piatti o stira i pantaloni: “Madre, dammi il sole!”. Ma già in Prima della rivoluzione avevo girato una scena in cucina, in seguito eliminata al montaggio, nella quale si vedeva la cuoca dei genitori di Fabrizio – in realtà era la cuoca dei miei genitori – alle prese con un arrosto.

Come mai questo interesse per il lavoro svolto dietro le quinte della camera da pranzo?

È la stessa situazione dell’uccisione del maiale o dell’ultimo atto della digestione: se si parla di cibo che senso ha filmare solo la gente che si fa vedere a tavola? È una questione di coerenza e di realismo. E forse anche un’ottima occasione per alludere alla divisione del lavoro sulla quale funziona la società.

Nel Conformista (1971), va in scena il pranzo a casa della madre di Giulia (Stefania Sandrelli), che anticipa la visita del padre “sifilitico” in manicomio. Qui si nota la giovane domestica segretamente innamorata di Marcello (Jean-Louis Trintignant), che mangia la pasta in piedi, spiando l’amato dalla porta: sembra l’opposto di ciò che vediamo nell’Assedio.

Gli amori ancillari non devono mica seguire tutti lo stesso modello! La domestica manda bacetti a Marcello tra un boccone e l’altro di spaghetti. È risaputo che il cibo ha sempre a che fare con la sensualità, con il desiderio.

Sempre nel Conformista, la cena al ristorante cinese, dove il professor Quadri e la moglie (Dominique Sanda) mangiano con i bastoncini, è un “antipasto” di quel che fanno tutti i giorni i personaggi dell’Ultimo imperatore. Come diavolo le era venuta in mente l’idea di un ristorante cinese, che di fatto non esiste nel romanzo di Alberto Moravia?

In effetti non c’è alcun ristorante cinese nel romanzo di Moravia. Ma sono stati proprio Moravia e Dacia Maraini ad “iniziarmi” alla cucina cinese, già negli anni Sessanta. Così come è stato lo stesso Moravia a raccontarmi per primo la storia di Pu Yi, al rientro dal viaggio fatto per l’Espresso all’inizio della Rivoluzione culturale.

Curiosamente, in Ultimo tango a Parigi (1972), si ha l’impressione che nessuno si nutra mai. A parte, ci perdoni, quando Jeanne (Maria Schneider) torna improvvisamente all’appartamento di rue Jules Verne e trova Paul (Marlon Brando), buttato a terra mentre sta spalmando del burro su una baguette.

Falso! Converrebbe rivedere più attentamente il film. Brando sente che Maria è tornata e solo allora le chiede di portargli il burro. Per i protagonisti di Tango il cibo è essenzialmente il sesso. Almeno nel caso di Paul. La sua fame per il corpo dell’altro, nella fattispecie il corpo di Jeanne, lo aiuta a sfuggire a quell’alone di morte che lo accompagna dal giorno in cui la moglie si suicida. Quanto alla scena che fece gridare allo scandalo, all’uscita del film, vi confido che non era programmata. Come spesso succede, quella scena nacque sul set, quasi per caso, per il fatto che l’attrezzista aveva un po’ di burro insieme con il pane francese, quello sì presente nel copione. Ciò che succede subito dopo ha spinto qualcuno a commentare, invece, che sarà stata l’adolescenza contadina di Brando, per altro esplicita nel film, e la sua familiarità con certi prodotti della campagna ad avergli ispirato di usarli in un modo, direi, innocentemente trasgressivo.

Anche la relazione edipica al centro della Luna (1979) fece gridare allo scandalo. In questo caso il protagonista è un altro “tipico prodotto della campagna”, ovvero il miele con il quale Caterina (Jill Clayburgh) nutre il proprio bimbo di un anno, mettendogli il miele in bocca con le dita.

Questa scena del prologo, sul lungomare di Sabaudia, è l’episodio chiave dell’infanzia destinato a segnare la vita affettiva del figlio di Caterina, Joe, che 13 anni dopo ritroveremo drogato. Nello stesso prologo, va ricordato, compare anche il padre (Tomas Milian) che rompe questa sensuale e primitiva intimità tra madre e figlio, portando a casa i pesci appena presi. Il pasticcio, se così lo vogliamo definire, arriva poco dopo, quando sventra un pesce e comincia a ballare il twist con la sua donna, facendo finta di infilarglielo tra le gambe. Un gioco di seduzione reciproca da parte dei genitori, che, però, mette in crisi il piccolo Joe il quale, sentendosi tradito e abbandonato dalla madre, corre a rifugiarsi in lacrime nelle braccia della nonna (Alida Valli).

Se in Tango baguette e burro sono riferimenti espliciti a evocare il sesso, in questo film il cibo ha decisamente un valore erotico.

In realtà il cibo rimanda quasi sempre a qualcosa d’altro. Anche quando Joe, ormai adolescente, prova a cucinare per Caterina un soufflé che purtroppo riesce male, si allude forse a una sorta di erezione mancata. Così come c’è qualcosa di erotico nella scena in cui il ricco comunista, interpretato da Renato Salvatori, si ritrova all’osteria con Caterina, e tenta di sedurla ficcandole pezzetti di prosciutto in bocca.

In questo caso l’antipasto funziona come i preliminari dell’amore. Sembra un omaggio al Tom Jones (1963) di Tony Richardson: gli amanti che si divorano a vicenda con gli occhi, mentre gustano ostriche.

In Novecento Depardieu usa perfino il salame con simbolo sessuale quando lo tira in testa a De Niro!

Nella Luna c’è un’altra cena emblematica di Joe con Caterina: qui l’eroina viene assimilata al cibo, rinviando chiaramente alla scena del miele nel prologo. Con la sola differenza che al posto delle dita si usa una forchetta, forchetta che a Joe serve per bucarsi il braccio a mo’ di siringa.

L’eroina non è altro che il sostituto col quale Joe cerca di riempire il vuoto che sente dentro di sé, quel vuoto lasciato dalla perdita del miele con il quale la madre lo nutriva. Un cibo così dolce che già allora gli faceva male: non è un caso che nel prologo il bimbo, quando succhia il miele, rischia quasi di soffocare. E tossisce, tossisce, come a dire che l’amore di Caterina per il figlio è eccessivo.

Il cibo, dunque, può anche far parte di un processo sia distruttivo, sia autodistruttivo. E ciò ricorda forse la figura di Agostino, l’amico di Fabrizio, in Prima della rivoluzione, che non solo si ribella contro i suoi fuggendo da casa, ma cerca anche di sfuggire al proprio disagio esistenziale attraverso l’alcol. Non a caso quando cade ripetutamente dalla bici esclama: “Ah, il vino è buono!”

Erano altri tempi, ma è vero, c’era qualcosa di analogo (e la sceneggiatura di Prima della rivoluzione era meno ellittica del film su questo punto). Fatto sta che nel 1964 le droghe non andavano così di moda tra i giovani, in Italia, come lo sono diventate dopo, negli ultimi anni Settanta. Ad Agostino, così come ad Ada (Dominique Sanda) in Novecento, bastava un ottimo Lambrusco per trovare conforto nei cosiddetti paradisi artificiali. E potremmo dire la stessa cosa a proposito di “Rigoletto”, il contadino gobbo della famiglia Dalcò, che, poveraccio, tentava anche lui di dimenticare la sua difformità con qualche bottiglia, almeno in quelle rare occasioni in cui gliela regalavano.

Dopo La luna è tempo della Tragedia di un uomo ridicolo, del 1981.

Nella Tragedia, il protagonista è il padre, Primo Spaggiari (Ugo Tognazzi), che in realtà è, allo stesso tempo, un po’ padre e un po’ madre, perché produce il latte, dal quale si ricava il formaggio, e quindi il denaro. È un industriale, un casaro, e noi vendiamo migliaia di forme di grana che maturano nel cuore segreto dell’azienda, come se fossero lingotti d’oro dentro Fort Knox.

Non c’è solo il formaggio, Spaggiari produce anche il prosciutto, e possiede i maiali. La scena in cui Barbara (Anouk Aimée), sua moglie, assiste all’uccisione dei maiali è molto diversa rispetto a quanto si era visto in Novecento. Che cosa è cambiato?

Tra il finale di Novecento, il 25 aprile del ’45, e l’azione della Tragedia, sul finire degli anni di piombo, c’è un gap storico di una trentina d’anni. Il mondo è cambiato parecchio soprattutto con l’avvento del consumismo. E anche il modo in cui funziona il settore agroalimentare in quegli anni ha subito una notevole evoluzione. Barbara entra per sbaglio nella parte del prosciuttificio dove funziona il mattatoio dei maiali che chiamavo allora la “catena di smontaggio”. Non si vede quasi nessuno in giro e i porci vengono spostati, puliti, sezionati e smembrati da sole macchine. Certo, si producono più prosciutti, ma fatalmente con l’industrializzazione si è perso il senso di qualcosa che riuniva tutti i contadini, addio a quell’atmosfera di sagra che avevo conosciuto anch’io da bambino.

All’inizio dello stesso film si vede Spaggiari che si sta svegliando in mezzo ai resti del pranzo per il suo compleanno. Sta uscendo dal pisolo che ha fatto dopo aver gozzovigliato. Anche il cibo è sonnifero, allo stesso modo dell’amore?

È ancor più sonnifero di quanto si possa pensare. Il primo finale che scrissi per La tragedia era un po’ diverso rispetto alla scena con la quale si chiude il film: dopo il ritorno di Giovanni, il figlio rapito, Spaggiari si allontana dalla balera per andare a cercare dello champagne e mentre attraversa la strada che sta davanti a casa viene investito da un camion (“Esattamente come morì il nostro cane Flush, sotto le ruote dell’ultimo camion tedesco in fuga, nel ‘45”, ricorda sottovoce Bernardo, ndr). L’autista del camion scende immediatamente per portargli soccorso, ma non c’è la minima traccia del corpo. Un’altra versione del finale, invece, ci fa tornare alla prima immagine del film, con Spaggiari che si risveglia dopo la festa, in modo da far capire che tutto quanto è accaduto dal primo istante all’ultimo è solo il sogno dell’uomo ridicolo. Più sonnifero di così…

Un punto che era rimasto in sospeso a proposito dell’Ultimo imperatore riguarda il rapporto di Pu Yi con la sua balia, che vediamo impegnata ad allattarlo fino a un’età piuttosto avanzata.

Credo che lo svezzamento di Pu Yi sia realmente avvenuto verso i sei o sette anni. Questo nuovo dettaglio, forse atipico, ma rivelatore dei legami che si intrecciano nell’inconscio tra cibo e sesso, non poteva certo essere ignorato nel film.

Si dice che anche la madre di Pu Yi si sarebbe suicidata inghiottendo una palla di oppio. Le risulta?

Così come l’eroina sostituiva il mille nella Luna, qui capita che il cibo si trasformi in veleno. Quella palla di oppia, però, mi fa venire in mente un’altra immagine: la grande perla nera che viene messa nella bocca della vecchia imperatrice Tzu Hsi, appena ha dato il suo ultimo sospiro e ha gli occhi ancora aperti. Pochi istanti prima, uno dei medici imperiali la nutre con un po’ di brodo di tartaruga, animale considerato dai cinesi quale simbolo di longevità.

Dalla Cina di Pu Yi all’Africa di Paul Bowles nel Tè nel deserto (1991), seconda tappa della sua “Trilogia dell’altrove”. Man mano che Port (John Malkovish) e Kit (Debra Winger) proseguono la loro via crucis verso Sud, si dimenticano delle cene a lume di candele del Grand Hotel di Tangeri per nutrirsi in posti via via sempre più squallidi. Al punto che il DDT di Tunner (Campbell Scott) viene usato come condimento contro gli insetti, una forma rara sahariana di coleotteri, che galleggiano nella minestra. E guarda caso, dopo la morte di Port, Kit raggiunge la carovana che attraversa il Sahara e si adatta al modo di vivere dei Tuareg. Come mai al bivacco lei ha filmato i nomadi che infornano le loro pizze nella sabbia rovente?

Uno dei privilegi del cinematografo, a partire dai fratelli Lumière, riguarda la possibilità di registrare culture e modi di vivere che stanno scomparendo. In fondo lo avevo già fatto girando Novecento. Mi è sempre sembrata una sfida affascinante tentare di accostare i generi e i punti di vista estetici più diversi nello stesso film. In questo caso la spettacolarità hollywoodiana e il documentario etnografico, ovvero la fiction e il cinema-verità, o il realismo e l’onirismo, la commedia sofisticata e il melodramma, e via dicendo.

Verso la fine del Tè nel deserto, dopo essere stata cacciata dalla moglie di Belqassim, Kit, travestita da Tuareg, vagabonda nel grande mercato africano, e a noi, un’altra volta, arrivano le immagini di carni esposte sulle bancarelle dei macellai.

Anche questa scena era molto rosselliniana, con una star hollywoodiana in mezzo alla folla così barbaricamente elegante di Agadès, che probabilmente non aveva mai sentito nominare prima la parola “cinema”. Era l’ultimo giorno di lavorazione, eravamo tutti stanchi e ricordo che quella carne era quasi nera tanto era coperta di mosche, sotto la violenza, per dirlo con Pasolini, dello “stupendo e impuro sole dell’Africa”.

Come mai la figura quasi ossessiva del macellaio è spesso presente nei suoi film?

Per rispondere vi racconto un aneddoto: mentre mi informavo sul fenomeno della reincarnazione, durante la preparazione del film su Buddha, Susanne Durramberger volle assolutamente fare un test. Fece vedere una mia fotografia e un veggente di sua conoscenza, ma senza fare il mio nome. Lui si concentrò sulle foto ed ebbe – così mi è stato detto – una sorta di visione: la figura di un uomo intento a tagliare la carne. Il veggente disse con tono deciso che quell’uomo, cioè io, in una delle sue vite precedenti aveva fatto il macellaio. Se lo dice lui…

In apertura di Piccolo Buddha viene illustrata la favola del prete-macellaio che giura di non uccidere mai più una capra. È cambiato, dopo l’esperienza di questo film, il suo atteggiamento nei confronti del cibo?

Forse sono diventato più attento a non eccedere in una direzione o in un’altra, anche se in verità ho sempre mangiato di tutto. Come rispose un giorno il Dalai Lama al giornalista Paolo Brunatto che si stupiva di vederlo assaggiare anche la carne in qualche ricevimento ufficiale: “Lo so, lo so, un buon buddhista non dovrebbe… Purtroppo a me capita ogni tanto”. La saggezza e il senso di armonia universale che sembrano scaturire dalla tolleranza coltivata dai buddhisti sta proprio in questa loro attitudine ad adattarsi alle circostanze, diffidando di qualsiasi forma di dogmatismo anche sul piano gastronomico. Esistono delle regole, ed è giusto che ci siano, così come è giusto saperlo infrangere.

Piccolo Buddha mostra esempi anche di astinenza e di digiuno. Durante il lunghissimo ritiro di Siddhartha (Keanu Reeves) con gli asceti, la voce fuori campo di Lama Norbu, che racconta a Jesse la storia di Buddha, narra che egli beveva soltanto l’acqua del cielo, quando arrivava la stagione delle piogge, e si nutriva, semmai, mangiando “gli escrementi di qualche uccello di passaggio”.

Questo dettaglio non l’ho inventato io: lo potete trovare nei testi del Canone buddhista. Comunque, nella scena successiva, dopo la rivelazione della Via di Mezzo, sulla riva del fiume, Siddhartha accetta di mangiare la  scodella di riso che gli viene offerta da una pastorella e capisce finalmente che l’ascetismo è un vicolo cieco, una strada sbagliata.

Dopo il ritorno in Italia lei gira Io ballo da sola (1996), con una giovanissima Liv Tyler. Lì c’è la pergola in mezzo alle vigne, dove mangiano tutti gli ospiti di “Casa Grayson”, che torna ad essere il luogo dove si parla, discute e dove si spettegola. Come nella Luna qui c’è il miele.

Conviene non perdere di vista che quella casa, dove ospitano la bella Lucy, era un’antica casa contadina andata in rovina, e in seguito comprata per pochi soldi da una coppia di artisti inglesi, ex sessantottini, innamorati della Toscana. Come viene detto nel film, quella casa l’hanno restaurata tutta con le loro mani e facendo la scelta di viverci in regime di autonomia. Hanno gli alveari per produrre il miele e il forno a legna per fare il pane. Il senso del loro ritiro era comunque questa volontà di vivere al riparo dal consumismo esploso in quegli anni.

E così arriviamo all’Assedio (1998), in cui l’unica scena che interessa direttamente il nostro discorso è quando Shandurai (Thandie Newton) si compera un mango. Che cosa significa?

Per Shandurai questo mango ha un po’ la stessa funzione che hanno le canzoni di Salif Keita o di Papa Wemba che lei ascolta nella sua cameretta. Quella cameretta era la vecchia cucina del palazzo dove abita Mr Kinsky, situata esattamente sotto la sala da pranzo del primo piano dove, usando il montacarichi, arrivavano i piatti. Il mango è una sorta di montacarichi metaforico che la ricollega con il paese da dove viene, con la sua Africa.

Lo stesso discorso vale anche, ci pare, per lei, cui è successo più volte di paragonare il culatello alla mitica “madeleine” di Proust. Filmare certi cibi, così come scriverne, è un altro modo di andare alla ricerca del tempo perduto?

Più del culatello, che mi sembra fin troppo ovvio, preferirei dire due parole sui tortelli di zucca, che tornano a galla in alcuni film. Rivedendo anch’io Novecento, a Bologna, mi sono accorto che nella scena delle nozze, prima che venga ritrovato il bambino assassinato, Ada informava Olmo – rimasto fuori a cacciare gli uccelli – che c’erano perfino i tortelli di zucca a pranzo! E mesi fa ho ritrovato un vecchio trattamento della Luna dove ne fornivo l’intera ricetta. Quei tortelli sono sempre stati il “cavallo di battaglia” di mia madre che ogni anno, in occasione del cenone di Natale, li faceva a mano. Conoscendo solo lei l’esatta proporzione di mandorla amara necessaria a rendere il ripieno straordinario.

Gli spettatori di The Dreamers (2003) ricorderanno un’altra ricetta: la “ratatouille à la Isabelle”.

Questa è infinitamente più semplice: basta sbagliare i tempi, come lo fa appunto Isabelle (Eva Green), come già l’aveva fatto Joe con il soufflé nella Luna, o come potrei farlo io. I protagonisti di The Dreamers sono tipici “enfants gâté” del ’68, convinti di sapere tutto e di poter fare a meno dell’esperienza degli adulti. Eppure dietro a loro c’è sempre la mammina. La stessa che prepara perfino i panini che condividono tanto generosamente con Matthew, dopo lo scontro con i poliziotti alla Cinémathèque française. Non solo: quando i gemelli invitano poi Matthew a cena dai loro genitori, senza avvertirli, non sono certo loro a cucinare. Dal momento in cui si ritrovano tutti e tre da soli nell’appartamento, vivono l’illusione di rifare il mondo, mentre è l’impatto con il principio della realtà che sta “rifacendo” loro. Appena sono finiti gli assegni del padre cominciano le cose serie. Isabelle si butta sul Talismano di casa, però le manca la cosa più importante: la pratica. Quando poi cominciano a scarseggiare le ultime riserve e il frigorifero resta vuoto, Théo (Louis Garrel) per puro spirito di sopravvivenza finisce col frugare nei bidoni della spazzatura del palazzo, come fanno i clochard.

È una fortuna che tra le immondizie ci trovi almeno una banana da dividere in tre.

Nel copione si parlava di una mela o di un’arancia, non ricordo. La banana è stata un’idea di Michael, il giovane attore americano che interpretava la parte di Matthew. Ci ha fatto vedere un suo numero da prestigiatore per ottenere tre spicchi uguali. Allora gli ho suggerito di rifarlo davanti alla macchina da presa. Tutto lì.

Visto che siamo giunti esattamente dove volevamo, ovvero al dessert, non ci resta che ringraziarla per questa lunga e accattivante carrellata attraverso le cucine e le camere da pranzo del suo cinema.

Spero non provochi l’indigestione dei lettori. Per quanto mi riguarda, ora comincio a sentire il bisogno di una piccola dieta, sperando che finalmente questo trasformi il mio cinema.

 

[in Mangiare & Essere 2, a cura di Mario Mazzetti di Pietralata, 2021]