Sarà Stefania Sandrelli a inaugurare sabato 25 giugno alle ore 21:45 in Piazza Maggiore a Bologna la 36ª edizione del festival Il Cinema Ritrovato: in programma il nuovo restauro, realizzato dalla Cineteca di Bologna in collaborazione con Minerva Pictures e con RaroVideo Channel, del Conformista di Bernardo Bertolucci, che nel 1970 volle proprio Stefania Sandrelli assieme a Dominique Sanda e Jean-Louis Trintignant in uno dei suoi film visivamente più belli.

Per festeggiare la proiezione e il nuovo restauro del film pubblichiamo di seguito una conversazione tra Bernardo Bertolucci e Marilyn Goldin pubblicata dalla rivista Sight & Sound nella primavera del 1972.

Photo Angelo Novi / Cineteca di Bologna

OGNI RELAZIONE SESSUALE È CONDANNATA

di Marilyn Goldin

 

Il conformista è un film narrativo, ma in cui mescoli fantasia e realtà, passi dalla suspense al surrealismo alla politica. È come se tu facessi costantemente esplodere la forma per poi ricostruirla.

È perché quando giro mi concedo una certa libertà. È solo con un allestimento scenico in un determinato spazio, con un’illuminazione precisa, con la macchina da presa davanti a una particolare persona, che un regista scopre e fa il film. Nella sceneggiatura il film era meno mutevole; era più monocromatico. Ma durante le riprese molto dipende dagli attori. Per me gli attori sono importantissimi: sono loro a fare i personaggi, e i personaggi della sceneggiatura scompaiono di fronte alla realtà. Molto dipende quindi dal rapporto che ho con gli attori. Se la notte prima l’attore non ha dormito, la scena si evolverà in un certo modo, se ha bevuto troppo prenderà un’altra direzione, e così via. E questi cambiamenti fanno parte della libertà che mi concedo quando giro i miei film. Se mi piace una cosa la faccio, anche se è in contraddizione con tutto il resto. Se quella cosa funziona veramente te ne accorgi alla fine. Se alla fine non si integra con tutto il resto, con l’insieme, significa che non era un granché.

Ci sono momenti in cui gli attori assumono pose da star degli anni Trenta. Per esempio, Dominique Sanda appoggiata alla porta con una sigaretta in bocca e i pollici infilati nei tasconi larghi richiama la classica Dietrich… O Stefania Sandrelli, nella scena in cui balla sul disco americano…

Dirigere gli attori significa, soprattutto, amare le persone, amare certe cose nelle persone. Ho guardato Sanda e l’ho immaginata in quella posa, così abbiamo provato e funzionava, perché era nelle sue corde. Si tratta solo di scoprire e tirare fuori la vera natura degli attori, tutto qui. Partendo da lì si possono costruire i personaggi, partendo da quello che sono gli attori. Non chiedo mai di interpretare qualcosa che già esiste; a parte i dialoghi, ma anche quelli cambiano molto. Potremmo dire che seguo gli attori come un cameraman della tv riprende un’intervista. Anche se il risultato è diversissimo dalla televisione.

Non si direbbe, perché il film è «recitato» con stile, in modo diversissimo dal cinéma-vérité. L’impressione, per fare un esempio, è che Trintignant stia recitando al suo meglio.

Ma lui sta recitando. Al contempo penso che Trintignant sia quella persona, e che questo sia il primo film in cui è se stesso. Andrebbe su tutte le furie se leggesse quest’intervista. Ma ho scelto lui perché se penso a Trintignant mi vengono subito in mente due aggettivi: commovente e sinistro. Che sono le qualità del personaggio. Il punto di partenza è la realtà, poi l’attore la trascende. Perché c’è una macchina da presa che si muove ed è essa stessa un attore, un attore che fa sì che gli altri reagiscano. La macchina da presa è un personaggio quanto Trintignant, una presenza viva, non una macchina che registra e basta.

In Italia è risaputo che Verdi era tanto un rivoluzionario quanto un compositore, e oggi è un’istituzione culturale. In Strategia del ragno hai voluto fare riferimento alle sue idee politiche, oltre che alla sua musica?

No. Per me era importantissimo che il film fosse regionale, artigianale. Ho usato molti elementi diversi, attingendo alle arti locali, e Verdi, la musica della regione, l’Emilia, è uno di quelli. Certo, Verdi ha anche un significato politico, ma quello mi interessa meno. Inoltre, per me, e anche per il protagonista del film, il figlio di Athos Magnani, Verdi corrisponde a una dimensione mitica, e che funziona a meraviglia con la statura mitica del padre. Musica mitica per un personaggio mitico.

L’uso che fai del colore nei due film è diversissimo. In Strategia del ragno è bellissimo, quasi lirico. Nel Conformista è come se cercassi di usare il colore in modo quasi crudele… colori disturbanti come per esempio il violento neon rosso dei titoli di testa.

C’è una spiegazione tecnica. In Strategia del ragno abbiamo usato pochissime luci, mentre Il conformista è illuminato come un film in studio degli anni Trenta; anche quando non giravamo in studio, c’erano un sacco di luci ed effetti luminosi, come quel rosso, o i raggi nell’appartamento di Stefania Sandrelli, o i neri quando il professore racconta il Mito della Caverna.

In ogni caso, stavi sperimentando… Per esempio, nella sequenza in cui Trintignant va alla scuola di danza e porta Sanda nella stanza accanto, dietro le tende. La luce lì è una specie di blu-verde sinistro e la fa sembrare brutta. Non c’è erotismo quando si spoglia, perché il colore stempera il tono emotivo.

Era il tentativo di fare un film che in determinati momenti fosse più o meno impressionistico, come all’interno della scuola di danza, e in altri fosse più o meno espressionistico, come nella stanza accanto. L’intenzione era quella di violare la realtà, di ottenere una fotografia non moderna. Quando lei si spoglia sta andando al mattatoio, ed è per questo che ho usato quella luce. Di fatto, semplicemente in termini di colore, i toni sono molto più violenti in Strategia del ragno. Anche se lì sono usati in un’altra ottica.

L’illuminazione nel Conformista è molto sternberghiana.

Sì, esatto. Perché per Strategia sono stato più ispirato dalla vita, mentre per il Conformista sono stato ispirato più dai film. Si potrebbe dire che il punto di partenza sia stato il cinema, e il cinema che mi piace è quello di Sternberg, Ophüls e Welles.

E il tuo lavoro sul movimento continuo e il contrasto tra le luci all’interno di una scena? Il ballo dei ciechi, per esempio, inizia quasi totalmente al buio: poi d’improvviso è illuminato, ma a essere illuminati sono i ciechi che restano al buio. Di fatto durante una sequenza c’è sempre un cambio di luci; e il cambio spesso è radicale.

È il primo film dove ho controllato io stesso le luci nel senso classico e professionale. La maggior parte dei giovani registi rifiutano le luci, considerandole una scelta a buon mercato e kitsch; ma su questo film sono riuscito a capire seriamente cosa puoi fare con le luci. Puoi ottenere effetti incredibili che aiutano la descrizione psicologica, la narrazione, l’intero linguaggio del film. Quando Sandrelli e Marcello si vedono per la prima volta, ci sono queste finestre chiuse che rifrangono la luce, i raggi che passano. Il che aiuta moltissimo a rappresentare l’atmosfera della casa.

Dopo Prima della rivoluzione sembravi avere abbandonato il tema della borghesia. Adesso lo hai ripreso con due protagonisti borghesi…

Sì. Non si sfugge…

Ed entrambi lottano con un passato fascista. Sembra essere un tema del tuo lavoro, le colpe del padre che ricadano sempre sul figlio… Fabrizio, poi il figlio di Athos Magnani e adesso Marcello.

Sì, Fabrizio… è vero. Mio padre era antifascista, ma ovviamente per me è come se incarnasse l’intera borghesia. E il fascismo è stato inventato dai petits bourgeoises. E non essendo riuscito a fare film sul presente, ho fatto due film sul passato. O meglio, sono due film che arrivano al presente parlando del passato. Inoltre, Il conformista è una storia che parla di me e Godard. Quando nel film ho dato al professore il vero numero di telefono e il vero indirizzo di Godard, l’ho fatto per scherzo, ma poi mi sono detto, «Be’, magari tutto questo ha un significato… sono Marcello e faccio film fascisti e voglio uccidere Godard che è un rivoluzionario, che fa film rivoluzionari e che è stato il mio maestro…»

Forse avevi un po’ la coscienza sporca per avere fatto Il conformista con i soldi di Hollywood, soldi dell’«Impero americano», per lo stesso identico motivo per cui Godard oggi li rifiuta?

No, affatto, non in quel senso. Non sto molto a mio agio nella grande contraddizione del cinema, che è difficilissima da risolvere. Il modo di Jean-Luc è il suo modo, ed è importante, ma non credo sia l’unico modo né che tutti debbano fare come lui. E credo abbia scelto di fare così proprio perché non voleva più essere un leader per nessuno. Si sentiva come se lo avessero lasciato da solo.

In tutto Il conformista viene rappresentata una connessione tra politica e sessualità, proprio come in Prima della rivoluzione. A conti fatti, l’unico atto rivoluzionario di Fabrizio è andare a letto con sua zia. E quando Gina lo lascia, lui lascia il partito comunista. Per cui la rivoluzione l’ha messa in atto su un piano emotivo. Le idee politiche di Marcello sembrano derivare dalla stessa fonte. Hai cambiato le motivazioni rispetto al romanzo di Moravia?

Sì, nel senso che nel libro la storia del conformista è una tragedia e, come nelle tragedie greche, ogni cosa è ricondotta al fato. Qui al destino ho sostituito l’inconscio di Marcello, in pratica una spiegazione psicoanalitica. Ed è anche il motivo per cui ho cambiato il finale della storia; nel romanzo Marcello e sua moglie vengono uccisi, e la cosa viene presentata come giustizia divina. Marcello è un personaggio particolarmente complesso, che cerca di conformarsi proprio a causa del suo grande e violento anticonformismo. Un vero conformista è qualcuno che non ha alcun desiderio di cambiare: desiderare di essere conformi è come dire che sia vero il contrario. Ma nel romanzo la cosa tremenda è ciò che si intuisce del personaggio di Marcello: le dimensioni tragiche della sua mostruosità. Trasformare il destino in inconscio, ovviamente, condiziona anche il rapporto tra sessualità e politica.

Quale pensi sia la connessione tra loro?

Penso che la scoperta più importante che ho fatto dopo gli eventi del maggio ‘68 era che volevo la rivoluzione non per aiutare i poveri ma per aiutare me stesso. Volevo che il mondo cambiasse per me. Ho scoperto il piano individuale della rivoluzione politica. E per me è ancora così, anche ripetendo la frase di Sartre citata in Strategia del ragno: «Un uomo è fatto di tutti gli uomini. Li vale tutti e tutti valgono lui». Sono sicuro che alcuni giovani maoisti occidentali criticheranno Il conformista perché è bello da guardare e perché mescolo cose sporche come il sesso con una cosa pura come la politica. Ma credo sia un ragionamento cattolico e moralista, e trovo che la cosa più sciocca dei giovani maoisti italiani sia il loro slogan: «Servire il popolo». Il mio slogan è «Servire me stesso», perché solo servendo me stesso sono in grado di servire il popolo… vale a dire di fare parte del popolo.

Passando al personaggio interpretato dalla Sandrelli: in tutto il film viene trattata in modo comico e poi, quando parla alla fine del crimine del marito, di colpo diventa molto sinistra, una tacita cospiratrice.

Be’, perché credo che nel mondo rappresentato nel film non si salvi nessuno. Nemmeno la Sandrelli, che è molto affascinante e sciocca, un incrocio tra un personaggio hollywoodiano e una petite bourgeoise italiana. Anche lei fa parte del mostruoso mondo del fascismo borghese. Ed è diventata così perché voglio che nessuno si salvi. E nessuno si salva. Nemmeno il professore e sua moglie. Non volevo ritrarre il professore come un eroe, come per esempio ha fatto Resnais con il suo vecchio soldato della guerra civile spagnola. Per me il professore e sua moglie erano l’altra faccia della medaglia del fascismo borghese, legati a esso da quella catena che è la decadenza. Sono solidali, sono dal lato giusto delle barricate, ma sono comunque borghesi e non si salvano.

È infatti l’unica relazione che non chiarisci del tutto è quella tra Anna e il professore.

Perché non volevo affondare ulteriormente il coltello nella piaga. Altrimenti avrei dovuto dire che il professore sapeva benissimo che la moglie era lesbica, e che gli faceva piacere vederla ballare con Stefania. Non era importante ai fini della storia. E quelli come il professore sono morti veramente, pagando con le loro vite. È un po’ spietato trattarli così.

C’è ancora una certa nostalgia in Italia per il periodo fascista, non trovi?

Sì! È per questo che Il conformista è un film sul presente. E quando dico che voglio che il pubblico esca dalla sala con una sensazione di disagio, magari portandosi addosso una sorta di presenza sinistra, è perché voglio che capisca che per quanto il mondo sia cambiato, i sentimenti sono rimasti gli stessi. Parlo dei sentimenti su ciò che è normale e ciò che non lo è… Per l’Italia è un film decisamente audace.

Ho fatto trenta interviste e nessuno mi ha mai chiesto perché ho mosso la macchina da presa in un certo modo, o perché ho usato le carrellate, o quanto fossero lunghe… Prendi la costruzione del bal populaire. Giulia balla il tango con Anna vicino alla macchina da presa, e si baciano; poi c’è un cerchio di persone intorno a loro e la macchina da presa si alza. Iniziano a fare una sorta di farandola e la gente le segue, e mentre la farandola cresce la macchina da presa scende su un dolly, inquadrando l’orchestra. Poi, nell’inquadratura successiva, vediamo Marcello e il professore che le guardano, divertiti. La gente passa davanti a loro ballando, e qualcuno prende per mano il professore. Marcello resta da solo. Dietro di lui c’è una finestra, e mentre Giulia, che guida il ballo, passa da dietro il vetro, la macchina da presa lascia Marcello per seguirla e arrivare a Manganiello, il killer professionista, che è seduto dall’altra parte della stanza. Marcello sta picchiettando con il pacchetto di sigarette sul tavolo, seguendo il ritmo della danza. Quando vede Manganiello si ferma, e Manganiello lo guarda, e poi è lui che inizia a picchiettare. Quindi in questa scena ci sono découpage, fotografia e tecnica. È solo attraverso la tecnica che si riescono a fare le cose.

Posso farti un’ultima domanda sulla struttura? Sembrerebbe che se una scena è alla luce del sole l’inquadratura successiva sarà al buio, o che se una sequenza finisce con un primo piano, quella dopo comincerà con un campo lungo. È come se rompessi costantemente l’atmosfera della scena precedente, invece di prolungarla o modificarla. Vero o falso?

Forse, ma non in modo consapevole. Ho girato Il conformista in assoluta libertà, ed è per questo che è un film più accessibile per il pubblico. Mentre giravo Partner, invece, ero ossessionato da una sorta di nevrosi dello stile, del linguaggio.

(Intervista pubblicata su Sight & Sound, vol. 40, n. 2, Londra, primavera 1972 e poi nel volume Bernardo Bertolucci. Cinema la prima volta. Convesazioni sull’arte e la vita, a cura di Tiziana Lo Porto, minimum fax 2016. La traduzione dall’inglese è di Tiziana Lo Porto)