Pubblichiamo un ritratto della casa di Bernardo Bertolucci in via della Lungara scritto da Alberto Anile, e un’intervista a Niccolò Ammaniti di Clotilde Veltri. Entrambi gli articoli sono usciti oggi, sabato 16 aprile, sul settimanale Robinson che ringraziamo.

PRENDERE IL TÈ NELLA CASA DEL NOVECENTO

di Alberto Anile

 

Al numero 3 di via della Lungara, a Roma, c’è un via vai di ragazzi di tutte le nazionalità. Gli studenti della John Cabot University passano veloci, strisciando il tesserino sulla macchinetta all’ingresso, quasi sempre da soli, assorti, frettolosi. Pochi fra loro sanno che quell’edificio, il palazzo Torlonia alla Lungara, per tutti gli anni Sessanta è stato utilizzato dai discendenti della principesca famiglia per ammassare centinaia di statue, busti e bassorilievi greci e romani, la più grande collezione privata d’arte antica. E che poi fu utilizzato come residenza per inquilini eccellenti di passaggio nell’Urbe: negli appartamenti dove oggi dormono e studiano i ragazzi della John Cabot, hanno alloggiato Fernanda Pivano, Gregory Corso, Giorgio Agamben, Ginevra Bompiani, Ivan Cotroneo, Gianluigi Melega, Chiara Caselli, Umberto Contarello, una sorta di piccola “comune” intellettuale intrisa di giardini e cortiletti, immersa nel silenzio malgrado si trovi a un passo dai localini di Trastevere e dal tremendo flusso automobilistico del lungotevere. L’ultimo di questi pensionanti illustri è stato Bernando Bertolucci, con sua moglie Clare Peploe. In questo piccolo borgo esotico bloccato nel tempo, il regista di Novecento ha abitato dall’inizio degli anni Settanta fino al 2018, l’anno della sua scomparsa. La moglie Clare, che lo ha seguito nel giugno scorso, amava andare a passeggiare ogni giorno nell’Orto Botanico, giusto dietro l’edificio. Entrambi vivevano appassionatamente il quartiere: un mese prima che lui morisse, mi capitò di vederli in una trattoria all’aperto a piazza Farnese, circa dieci minuti dalla loro abitazione; lei su una sedia, Bernardo sulla famosa carrozzina, incuranti di possibili ammiratori e richiedenti di selfie.

L’appartamento dei Bertolucci è, per diversi motivi, molto diverso da come ce lo si aspetterebbe. Intanto è avvolto nei colori. “La casa di Clare e Bernardo”, hanno scritto le sceneggiatrici Ilaria Bernardini e Ludovica Rampoldi, fra le ultime ad aver frequentato la coppia, “ha i colori di molto cinema di Bertolucci: senape, ruggine, gli arancioni della Cina, il deserto, il cappotto di Marlon Brando e i muri dell’appartamento di Parigi “ . Meglio non si potrebbe dire, ma andiamo in dettaglio: quello color ruggine, quasi dorato, è l’ingresso, il salone è diviso fra giallo e grigio, la camera da letto è tagliata longitudinalmente fra un rosa/ arancio e un azzurro, la cucina ha un arancione deciso, nella stanza che il regista usava per la fisioterapia predomina il verde.

Ma la cosa che soprattutto non ti aspetti è che la casa di una star internazionale, il premio Oscar che riceveva a cena Wim Wenders, Francis Ford Coppola, Roberto Benigni, Robert De Niro, Marisa Paredes e John Malkovich, sia tutt’altro che lussuosa: non ha la classica terrazza della haute capitolina, non vanta nemmeno un balcone. Al piano sottostante c’è un giardino con palme e un’amaca, che fanno venire in mente Il tè nel deserto, ma fa parte di un appartamento affittato ad altre persone. È più shabby che chic, come tante case in affitto, amministrate con la consapevolezza di muoversi dentro ambienti che non sono definitivi né tramandabili. Una casa però non trasandata ma accogliente, vivace, sorprendente, dove la collocazione dei mobili e l’accumulazione degli oggetti ha il segno felice della vitalità, dei lavori perennemente in corso, della sovrapposizione allegra di stili, epoche, umori.

Le case, nei film di BB, sono sempre state decisive: l’appartamento di Ultimo tango a Parigi, ovviamente, ma anche la fattoria di Novecento. L’universo bertolucciano ha alternato giudiziosamente storie enormi e vicende intime, kolossal di amplissimo respiro e pellicole più a misura d’uomo, ma è un fatto che dopo Piccolo Buddha il regista abbia deciso di puntare soprattutto sugli interni, traslocando dalla casa colonica di Io ballo da sola alla dimora dannunziana dell’Assedio, via via chiudendosi sempre di più, dall’immobile parigino di The Dreamers fino allo scantinato dell’ultimo Io e te. Di due personaggi che si muovono in un appartamento di tre stanze avrebbe parlato The Echo Chamber, il film di cui Bertolucci aveva appena finito la sceneggiatura, e che forse un giorno vedremo in sala con la firma di un altro regista.

In questa progressiva riduzione di spazi c’entra senz’altro la malattia di Bernardo, la sua difficoltà personale a muoversi, ma doveva esserci anche un’inclinazione schiettamente domestica, una tenerezza speciale nel ritrovarsi fra mura familiari, che è forse il motivo che rende la casa di via della Lungara ancora così viva e palpitante.

Gli invitati di casa Bertolucci conoscono soprattutto il salone, trasformato all’occorrenza in una sala di proiezione per vedere insieme film e soprattutto serie tv, grande passione bertolucciana degli ultimi anni; il regista prendeva posto su una chaise longue dalla quale comandava tutto tramite computer, si oscuravano le finestre e ci si immergeva nel liquido amniotico del cinema. Il videoproiettore in realtà è alloggiato nella stanza adiacente, la cucina (forse anche per evitare che un pur minimo ronzio rompesse l’armonia dello spettacolo): il fiotto di immagini usciva da un buco nella parete, proprio come da una cabina di proiezione, per depositarsi sul muro di fronte, lasciato appositamente libero da quadri e mobilio.

In questo salone troneggia un’enorme acquaforte di Julian Schnabel, due metri d’altezza, intitolata guarda caso Le Tango, ma ogni oggetto avrebbe bisogno di un sapiente cicerone: il cuscino con i Beatles di Sgt. Pepper, le teste di Stanlio e Ollio in terracotta, due piedini scolpiti in legno di fattura probabilmente indiana. A portata di mano c’è una bella raccolta di cataloghi d’arte, con testi dedicati ad Arcimboldo, Ligabue, Escher, Bernini, Corot, Gaudí, Picasso, Bacon, El Greco, Géricault, insieme a qualche libro di cinema formato extralarge (la storia della Mgm, Buñuel, un volumone celebrativo di David O’Selznick). Dalla parte opposta della sala, una libreria tiene insieme i cd: Händel, Mozart, Schubert ma anche Caetano Veloso, Kate Bush, Talking Heads, Avion Travel, David Gilmour, Leonard Cohen, John Coltrane, Chet Baker… Poggiati davanti, ci sono i cofanetti dvd con le stagioni complete de I Soprano24.

Questo elencare potrebbe sembrare indiscreto, una mancanza di riguardo nei confronti dei padroni di casa, ma è la stessa casa di Bertolucci a offrirsi generosamente allo sguardo, a invitare a scoprire, a innescare e soddisfare curiosità, senza superbie o sopraccigli inarcati. Ed è una sorpresa ancora più commovente questo suo essere accogliente anche in assenza dei suoi anfitrioni, come se Bernardo e Clare fossero solo in un’altra stanza, a prendere una delle bottiglie di vino che sono ancora allineate nello sgabuzzino vicino al corridoio, o un libro controverso su cui conversare.

Ecco, i libri: di quelli ovviamente ce ne sono tanti, infilati un po’ ovunque. Innanzitutto all’ingresso, dove c’è stato un tentativo di costringere il caos creativo della coppia in un ordine almeno alfabetico, e dove Camilleri si ritrova quindi a fianco di Camon e Canetti, ma dove l’occhio è irresistibilmente attratto da due bizzarrie. La prima è un’opera di Dora Tass, che rappresenta un telefono d’altri tempi, costituito da una cornetta vera sospesa per aria e da un corpo centrale che è invece un verdognolo impalpabile ologramma. L’altra è la porta che dà accesso al salone, che è “a scomparsa” dentro la parete ed è interamente ricoperta da un collage del fumettista Jules Feiffer, con il disegno di un gruppo di spettatori, inondati da una serie di slogan cinematografici, che guardano adoranti verso l’alto (uno schermo?).

Dopo i libri, le foto: a parte quelle raccolte dentro gli album, ci sono quelle incorniciate in corridoio, poggiate sui libri, incastrate nell’angolo interno di un quadro. Nella classifica dei più ritratti vince la famiglia, a cominciare dal padre Attilio e dalla moglie Clare. Dopo, è il cinema a prevalere: degli amici e colleghi il più rappresentato è Pasolini, soprattutto dal set di Accattone, il film per il quale Bertolucci fece da aiuto regista, imparando su un campo eccezionale i primi rudimenti della professione. In corridoio, vicino a una piccola foto della nonna australiana (Evelyn Mulligan, la madre di mamma Ninetta) c’è la copertina di Time con Bertolucci “Signor Oscar” e le nove statuette dell’Ultimo imperatore (una di quelle è ancora nello studio, poggiata sulla libreria come un soprammobile qualsiasi) e, sotto, un bellissimo scatto in bianco e nero che ritrae i volti di Maria Schneider e Dominique Sanda sul set di Novecento, poco prima che la Schneider, intimidita dal robusto cast internazionale, si ritirasse lasciando il ruolo di Anita a Stefania Sandrelli.

E poi le collezioni di cappelli: quelli sbarazzini, da baseball, e quelli più spettacolari, con le tese ampie, divisi e accatastati in due ambienti diversi. Appesi alle librerie, sventolano un paio di citazioni stampate su carta: una in inglese di Henry James (traduco: “Lavoriamo nell’oscurità — facciamo quello che possiamo — diamo ciò che abbiamo… il nostro dubbio è la nostra passione e la nostra passione è il nostro lavoro. Il resto è la follia dell’arte”) e una, ancora più significativa, firmata Bernardo Bertolucci: “Il cinema lo chiamerei semplicemente vita. Non credo di aver mai avuto una vita al di fuori del cinema; e in qualche modo è stato, lo riconosco, una limitazione”.

In effetti, qui dentro la vita è talmente mescolata e intrisa di cinema da esserne indistinguibile, la vita privata e quella professionale si mescolano e sovrappongono, senza mai entrare in collisione: in sala c’è un’abat jour un po’ sghemba apparsa nell’Assedio, e alcune vedute dipinte da Matthew Spender e sua moglie Maro Gorky (figlia di Arshile), la coppia che con la sua comunità nel Chianti fornì a Bertolucci ispirazione per Io ballo da sola. In alto, è appeso il quadro che Goliardo Padova dipingeva in riva al fiume durante una scena di Novecento.

Dentro un ritratto di Attilio Bertolucci dipinto da Carlo Mattioli è stata infilata una fotografia che ritrae Bertolucci e Ryuichi Sakamoto mentre lavorano alle musiche dell’Ultimo imperatore.

La sala è l’unico ambiente a cui di solito avevano accesso gli ospiti. Il resto è quindi ancora meno noto: la camera da letto è matrimoniale a letti uniti (Bernardo e Clare hanno sempre dormito insieme), e accanto a quello di lui c’è un’altra pila di volumi. Qui, nuova sorpresa, il libro in cima è l’autobiografia francese di Adriana Asti, conosciuta in Accattone e poi diretta in Prima della Rivoluzione (disperse per le stanze ci sono almeno due bellissime foto insieme).

In fondo, sancta sanctorum, c’è lo studiolo personale di Bernardo con altre librerie cariche di libri, soprattutto di cinema, più qualche fumetto (Tex, Dylan Dog). Altre foto di cineasti, da soli o con lui: Jean Renoir, Orson Welles, ancora Adriana Asti, ancora soprattutto Pasolini. Un quadretto con una riproduzione della Hollywood Walk of Fame, quando nel 2013 fu deciso di aggiungere anche la stella di BB. Un paio di scaffali sono solo per i film del regista, edizioni italiane e non, in dvd e in vhs. Le vere meraviglie sono i dattiloscritti legati ad anelli con i copioni di film realizzati e, sullo scaffale più in alto, quelli solo sognati: ci sono diverse versioni di Heaven and Hell, il film su Gesualdo da Venosa che Bertolucci voleva girare subito dopo L’assedio, e il mitico noir Red Harvest da Hammet, al quale il regista pensò per tutti gli anni Settanta, sperando di farlo interpretare a Jack Nicholson o Robert Redford, e infine messo da parte per realizzare Tragedia di un uomo ridicolo.

I marmi della famiglia Torlonia ci sono ancora, accumulati nei sotterranei dello stabile, pronti a uscirne per operazioni di restauro o mostre d’arte antica. Casa Bertolucci invece fra qualche mese non ci sarà più, i suoi arredi smantellati, i documenti e le foto messi dentro scatoloni. Oggi l’eredità dei Bertolucci è amministrata da una cugina, Valentina Ricciardelli, designata per lascito testamentario a presiedere una Fondazione in fase di organizzazione. Alcune carte saranno scorporate, quindi riunite a Parma a quelle del padre Attilio e del fratello Giuseppe, il resto sarà riallocato in una sede romana ancora da definire.

Gli studenti della John Cabot stanno gradatamente prendendo possesso della vecchia comune intellettuale, destinata per i prossimi quarant’anni a fare da campus universitario: all’interno 41 di Palazzo Torlonia arriveranno altri ragazzi solitari e un po’ frettolosi, pronti a strisciare il tesserino all’ingresso del residence, e dormiranno ignari nel luogo in cui uno dei registi più amati e applauditi al mondo ha scritto e inventato, vissuto e amato. Forse a Bernardo Bertolucci questa invasione in fondo non sarebbe dispiaciuta e avrebbe reagito con uno dei suoi sorrisi sardonici, come il monaco tibetano del Piccolo Buddha che cancella con un solo gesto il mandala di sabbia realizzato dopo giorni di lavoro.

LA SERA ANDAVAMO DA BERNARDO

di Clotilde Veltri

 

Un salone “sempre ombreggiato e silenzioso” che la sera si animava per far sprofondare nei suoi divani colorati e comodissimi, invecchiati dallo scorrere del tempo, un universo variegato e difforme di amici e parenti, di attori e produttori, scrittori e sceneggiatori “di solito più giovani” che Bernardo “voleva intorno a sé per ascoltarne i racconti, captare sensazioni, aprire dibattiti”. Lui, il regista geniale intrappolato nella sedia a rotelle, provato nel fisico dalla lunga malattia che lo spegnerà nel 2018, meticoloso nell’orchestrare e dirigere — come fossero un ultimo film — le serate conviviali durante le quali “passava da una persona all’altra e si faceva intrattenere e ci intratteneva con aneddoti della sua vita, di quando andava da qualche parte nel mondo, raccontando improvvisamente eventi ai quali sembrava impossibile avesse partecipato vedendolo recluso in quella casa”. Lo scrittore Niccolò Ammaniti per dieci anni ha avuto “il grande privilegio” dell’amicizia di Bernardo Bertolucci e ne ha frequentato il mondo ormai quasi esclusivamente ridotto all’appartamento romano. Una sorta di “grande utero accogliente” secondo la definizione dello stesso regista.

Dunque la sera andavate in via della Lungara.

“Bernardo aveva moltissimi amici che lo venivano a trovare da ogni parte del mondo, conoscenti inglesi di Clare, il fratello Giuseppe, sua nipote, gli attori, io stesso ho trascorso serate con Richard Gere e il produttore cinematografico Jeremy Thomas, c’erano persone importanti ma anche gente del quartiere, gli sceneggiatori Francesca Marciano, Giovanni Mastrangelo, Jacopo Quadri. Un aspetto meraviglioso di Bernardo era che amava conversare dei fatti degli altri più che dei propri, era curioso, gli piaceva anche il pettegolezzo, adorava le storie di amanti e poi però non si teneva nulla e raccontava tutto a tutti diventando pericoloso (ride)”.

Erano grandi tavolate di amici…

“No, erano tavole di approccio, mai di amici. Bernardo aveva bisogno di mettere insieme persone che non si conoscevano tra loro, che potevano creare un dibattito, una chiacchiera. E poi la casa era organizzata proprio per ospitare, Bernardo e sua moglie Clare non cucinavano, ma dettavano il menu, ne avevano l’assoluto controllo, e si mangiavano cose buonissime, non particolarmente complicate o strane, per esempio ricordo dei fagiolini cotti pochissimo con la menta o il pollo marocchino, c’erano mozzarelle scelte con cura. Erano capaci di farti percepire che dietro ogni pietanza c’era un pensiero complesso che ti riguardava. E il cibo non era mai troppo, anzi andavi via sempre un po’ affamato perché la loro era un’ospitalità non eccessiva, garbata tanto che ti vergognavi di chiedere una seconda porzione. Si doveva mangiare poco, perché è così che si mangia. Prima di tutto però, quando arrivavi, si beveva: nell’ultimo periodo Bernardo aveva scoperto il Moscow mule e allora si facevano grandi Moscow mule e tutti bevevamo i Moscow mule”.

Lei era piuttosto giovane quando è entrato per la prima volta in quella casa…

“Sì, lui ti diceva: ho invitato delle persone vieni, allora sapevi che la sera ti era richiesta una performance. Bernardo si metteva a capo tavola e tutti potevano esprimersi, così sentivo di dover in qualche dire delle cose alle quali non credevo ma che fossero un po’ parossistiche per mostrare che avevo carattere. In più Bernardo aveva questa passione per la psicoanalisi e tendeva a psicoanalizzarti…”.

C’è un discreto gioco di seduzione in tutto questo.

“Lui seduceva tutti, aveva un tono molto pacato, molto divertito e tranquillo e questo aspetto faceva sì che tutti ne avvertissero la presenza, tutto durante queste cene girava intorno a lui, non ci si poteva mai dimenticare di Bernardo”.

Voi avete lavorato insieme alla sceneggiatura di Io e te, tratta da un suo racconto e che poi Bertolucci ha diretto. Come erano organizzate le giornate?

“C’era un rituale da rispettare perché i tempi li decideva Bernardo e quelli del lavoro erano totalmente separati da quelli dell’amicizia. Quando si arrivava nella casa, lui veniva avvisato e sistemato sulla carrozzina e dalle stanze private condotto nel salone. Così all’improvviso, come per magia, appariva ed era sempre molto affettuoso, come se non si aspettasse di vederti lì. Poi si sdraiava sulla chaise longue della Frau, bellissima, che gli evitava il mal di schiena e, mentre lavoravamo, sembrava che stesse dallo psicologo con la testa rivolta al soffitto e noi seduti lì accanto sui divani”.

Si narra di grandi proiezioni serali per gli intimi…

“È vero, organizzava proiezioni di film molto antichi. Una volta mi ha fatto vedere una pellicola indiana degli anni ’50 che si intitola Il salone del te. Di solito dopo un quarto d’ora si addormentava e noi ci guardavamo queste specie di bombardoni in silenzio fino a che lui si rianimava facendo finta di aver visto tutto… A un certo punto anche Bernardo è stato sedotto dalle serie tv. Ce le aveva in anteprima perché era giurato agli Oscar, ed era impazzito per Breaking Bad”.

Aveva visto anche il “suo” Miracolo, vero?

“Mi chiese una proiezione in anteprima e io gli portati il blu ray e dopo mi disse che gli era piaciuto. Ovviamente ci vedeva dentro un sacco di cose che io non sapevo ci fossero, ma questa era una sua prerogativa”.

La casa è disseminata di foto del padre Attilio di cui Bertolucci in un’intervista a Dacia Maraini diceva che aveva “un odore di mandorle amare”. Le parlava di suo padre, delle sue origini?

“Amaro è anche l’odore del cianuro che infatti ha un sentore di mandorle… Ovviamente sto interpretando. Il padre era motivo di conversazione, ricordava spesso di quando era piccolo, di Parma. La sua memoria infantile era molto accentuata”.

Altra presenza costante: i cappelli, veri e propri feticci.

“Quando usciva ne aveva sempre di bellissimi e poi nell’ultimo periodo si era appassionato alle scarpe da ginnastica, sempre moderne e coloratissime, rosse, verdi, gialle. Gli piaceva avere dei vezzi, soprattutto perché sulla sedia a rotelle non appariva nella sua grandezza e bellezza. Era come imprigionato in quel piccolo spazio”.

Cosa le rimane dell’amicizia con Bertolucci?

“Un certo modo di stare al mondo, di relazionarsi agli altri ed è l’aspetto che ha meno a che fare con la sua unicità di regista. Era talmente attento che ti sentivi non adeguato alle sue aspettative, quasi eri costretto un po’ a romanzare per poterlo interessare, anche se alla fine si trattava solo di una tua percezione. Poi c’era l’eleganza, la capacità di trattenersi, il modo in cui affrontava le cose con serietà, senza paura. Era fantastico. E per finire quello che lo rende più speciale ai miei occhi è che in tanti anni non l’ho mai sentito lamentarsi di un corpo che non funzionava più, che lo faceva soffrire moltissimo: ti chiedeva gentilmente se potevi andare via perché non si sentiva bene e lo faceva col sorriso sulle labbra, con quella gentilezza che filtrava dagli occhi e che era segno di una grande educazione interiore, di un grande rigore. E quella capacità di parlare senza mai accendersi, con pacatezza, era propria di un uomo del Novecento. E penso che con lui si sia persa per sempre”.