Pubblichiamo una recensione di Oliver Stone dell’Ultimo imperatore, scritta originariamente nel novembre del 1998 per il New York Times in occasione dell’uscita della versione director’s cut del film.

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LA SCHEDA
DEL FILM

L’ULTIMO IMPERATORE
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Un'epopea che allungandosi migliora

di Oliver Stone

 

Prima di guardare la versione da 3 ore e 39 minuti dell’Ultimo imperatore di Bernardo Bertolucci, nutrivo delle serie perplessità. Trovavo che forse un film già indolente in partenza, ne sarebbe venuto fuori completamente e ampiamente danneggiato.

Come mi sbagliavo. La versione director’s cut è indubbiamente un film più ricco e completo, che procede al vero ritmo di un’altra epoca e di un’altra cultura. Di sicuro in tanti hanno apprezzato la versione da 2 ore e 20 minuti dell’Ultimo imperatore quando è uscito nel 1987; e del resto si è aggiudicato l’Oscar come Miglior Film, come Miglior Regista e altre sette statuette. Ma questa nuova, coraggiosa versione, uscita il 4 dicembre, è un capolavoro — un film epico e storico a tutto tondo che ci permette di comprendere il carattere complesso di Henry Pu Yi, l’ultimo imperatore della Cina, dalla sua fiera infanzia nella prima parte di questo secolo (quando i suoi escrementi vengono annusati quotidianamente dagli intenditori reali), passando per la perdita di potere, la prigionia e la rieducazione, e arrivando infine al suo destino di umile giardiniere durante la Rivoluzione Culturale degli anni sessanta.

I più rigorosi, potranno sostenere che adesso la trama non è cambiata a sufficienza da giustificare questi 80 minuti in più, e da un punto di vista storico, avrebbero ragione. Le nuove scene espandono gli anni dell’infanzia di Pu Yi trascorsi in clausura nella Città Proibita di Pechino, prima che arrivi Peter O’Toole nei panni di un tutore inglese cambiando per sempre il modo di pensare dell’imperatore. C’è un ballo tra l’imperatrice (Joan Chen) e la consorte ufficiale (Vivian Wu), altre riunioni dell’imperatore con gli ufficiali giapponesi, e una scena particolarmente suggestiva in cui delle contadine vengono convocate per selezionare tra loro la balia del giovane imperatore.

Ma limitarsi a elencare le scene aggiunte, non restituirebbe la vera ragione di esistere di questa versione uncut, ovvero: ripristinare con il girato mancante il vero andamento della vita imperiale cinese e nel farlo rivelarci un tesoro di finezza e uno spettacolo che non vediamo da tempo nel cinema occidentale. È evidente che il signor Bertolucci ami la Cina. La guarda non solo con lo sguardo empatico di Marco Polo, che per primo scoprì i segreti dell’antico impero, ma anche con gli occhi spalancati di un bambino che guarda dentro una scatola ammuffita in cerca di una cavalletta, l’animale domestico dell’imperatore, che per tutta la vita ha vissuto nell’oscurità. In questo film vi ritroverete spesso a fluttuare, lì in Cina. Al contrario, la versione più corta, anche se ben montata e tematicamente solida, manca della pura sensualità dell’esperienza in cui la versione più lunga ci avvolge come una vecchia giacca preferita. Forse è da quando Coppola ci ha regalato la versione restaurata di Napoleone di Abel Gance del 1927, che gli spettatori non hanno avuto la possibilità di partecipare a una simile festa visiva.

Il signor Bertolucci aveva tagliato la versione iniziale senza ricevere nessuna pressione particolare. Quando al telefono gli ho chiesto perché lo avesse fatto, con un tono annoiato dal mondo, ha risposto: “Ahhh, ero passato da tutta la saga di Novecento. Durava cinque ore e avevo dovuto tagliare un’ora. Non volevo ritrovarmi di nuovo in quell’incubo. I tagli nell’Ultimo imperatore non sembravano condizionare la storia ed ero abbastanza soddisfatto della versione più breve”. Ha rivisto la versione più lunga? “Farei troppa fatica a guardarlo. I miei film non mi appartengono più”. Dieci anni dopo L’ultimo imperatore e 21 anni dopo Novecento, senza avere rivisto nessuno dei due, Bertolucci conclude, “Ho raggiunto una distanza buddhista”. Non è il modo usuale con cui un regista difende la propria versione. Ma del resto, niente nel signor Bertolucci è usuale. Da quel che so io, è la prima e l’ultima persona che, senza essere ricoperto di catrame e piume, è riuscito a fare uscire un film di 4 ore e 10 minuti (Novecento) negli Stati Uniti. È anche l’unico regista che conosco ad avere conquistato un enorme pubblico occidentale con un film finanziato con soldi occidentali che è sull’Asia ed è interpretato da attori asiatici.

Che cos’ha di così bello L’ultimo imperatore? È una vera epopea che rappresenta il fato della collettività — in questo caso l’impero cinese — intrecciato al destino di un singolo individuo. “Un viaggio dal buio alla luce”, lo descrive il signor Bertolucci. “Il dragone diventa uomo. L’imperatore diventa cittadino”. Cita Confucio, “Gli uomini nascono buoni, poi la società li rende cattivi”.

In questa purezza, l’imperatore interpretato da John Lone è il classico eroe romantico confuso del canone di Bertolucci, un erede di Jean-Louis Trintignant nel Conformista, di Marlon Brando in Ultimo tango a Parigi e del sottovalutato Robert De Niro in Novecento — il bambino-uomo che non sa nemmeno allacciarsi le scarpe. Un innocente, vende la Manciuria al Giappone imperialistico, convincendosi che sia un atto di grande patriottismo. Il risultato è che non verrà mai perdonato dai cinesi e, dopo essere stato catturato dai russi alla fine della seconda guerra mondiale, verrà spedito in un campo di rieducazione, dopo si svolgono alcune delle scene più umanitarie del film. Lì gli viene insegnato a essere una persona da un inquisitore interpretato dall’attore cinese Ruocheng Ying (che il signor Bertolucci chiama il “Paul Scofield d’Asia”). “Confessa di non essere migliore di chiunque altro”, dice l’inquisitore. Come in tutti i film di Bertolucci, l’ironia compie il suo giro quando lo stesso inquisitore viene interrogato e bastonato dai giovani ignoranti della Rivoluzione Culturale. Alla fine, sembra che il signor Bertolucci stia dicendo, tutto il mondo cade a pezzi e ogni significato viene deriso dal tempo.

Supportato dalla sua santissima trinità di geni creativi, Vittorio Storaro (fotografia), Nando Scarfiotti (scenografia) e James Acheson (costumi), e spalleggiato da una grandiosa colonna sonora internazionale di Ryuichi Sakamoto, David Byrne, Brian Eno e altri, il signor Bertolucci crea un mondo immaginario e perduto per il giovane imperatore. Il bambino, che non ha amici all’infuori del suo topolino e della sua cavalletta, brama ardentemente come il giovane Buddha di sbirciare da sopra le mura del suo regno privato nella “città del suono” che c’è fuori. È un mondo a cui può accedere solo cedendo il potere della sua sacra persona per diventare il sovrano playboy della Manciuria. Passando dai gialli caldi dell’infanzia agli azzurri più freddi e ai bianchi rigidi della Manciuria fino alla grazia color terra d’ombra della vecchiaia durante la Rivoluzione Culturale, il signor Bertolucci ci stupisce con acrobatiche immagini di sensualità: il signor Lone che canta Am I Blue come un elegante libertino; che gioca a tennis in giardino prima di essere destituito da Chang-Kai Chek nel 1919; che fa l’amore con la sua giovane imperatrice, mentre le mani della servitù, di cui non vediamo i volti, li svestono. Nelle cavernose sale della sua casa in Manciuria, circondato da sodali giapponesi e cinesi, il giovane imperatore domanda ad alta voce, “Chi sei?” Una faccia maliziosa risponde, “Il suo ministro della difesa, sua maestà”. Questo imperatore è impotente, e il finto omicidio del figliastro appena nato (procreato dal suo autista) nel letto dove ha partorito l’imperatrice è una delle scene più orripilanti in un film spesso infuso di tenerezza. In tutto questo immaginario si avverte la sofisticata sensibilità del romanzo di André Malraux La condizione umana, che il signor Bertolucci per molti anni ha cercato di portare sullo schermo prima di girare L’ultimo imperatore.

La signora Chen, come imperatrice moderna e virile che deve pagare il prezzo dell’ingenuità del marito, non è mai stata interpretata in modo migliore. Nella mia mente quasi si fonde nell’eroina quintissenziale del signor Bertolucci, la pura ed elegante Dominque Sanda, che appare nel Conformista e in Novecento. Una delle mie scene preferite nell’Ultimo imperatore è avanti nel film, quando il compositore, il signor Sakamoto, che interpreta un ufficiale dell’esercito giapponese con un braccio solo e che appare freddo come Godard in persona, fa delle riprese con una 35 millimetri mentre la signora Chen si alza, ignorandolo a suo rischio e pericolo, per percorrere il perimetro di una festa di scambisti sontuosamente illuminata. Basta solo guardare l’espressione che ha mentre si muove.

Alla fine, quando Pu Yi capisce qual è il prezzo che ha dovuto pagare per la sua primogenitura, la prospettiva distaccata del signor Bertolucci è magnificamente servita: Pu Yi sembra non preoccuparsi più di nient’altro che del suo giardino. Un uomo dal cuore semplice torna all’innocenza in una splendida scena di una folla di ciclisti che aspettano che il semaforo cambi nella Pechino del 1965; mentre le bici avanzano in massa, la camera cerca languidamente il giardiniere solitario nella calca dell’umanità.

E allora che dire della lunghezza del film? Ci sono bottiglie di vino che invecchiano in modo diverso rispetto ad altre. Dove sarebbe la nostra cultura senza Via col vento (222 minuti, senza contare gli intervalli), Spartaco (184 minuti), Ben Hur (212 minuti), Lawrence d’Arabia (221 minuti), Titanic (194 minuti), Il paziente inglese (162 minuti), La lista di Schindler (195 minuti) e Il dottor Zivago (197 minuti), tutti film di successo al botteghino e per la critica?

Eppure sembra che nel mondo del multiplex e dei media che si lamentano di qualsiasi film superi le due ore, il “film evento” della nostra giovinezza sia scomparso — e insieme a lui l’estro promozionale di chi lo distribuisce. Inondati dagli enormi costi di marketing e da una sterminata campagna pubblicitaria, gli studi di produzione e i proprietari dei cinema forse hanno perso fiducia nel fatto che i film possano e debbano essere qualcosa di glorioso, importante e sacro.

A occhio direi che quattro su cinque spettatori si spazientiscono con i film lunghi e se interrogati dicono sempre, “Era troppo lento”. Ma a volte, mi domando, lo spettatore è svelto abbastanza da capire veramente cosa viene detto sullo schermo? A volte essere del tutto coscienti mentre si guarda un film ci porta al di fuori del tempo reale e in una dimensione onirica. Parlando della durata controversa del Padrino Parte II (200 minuti), Al Pacino una volta mi ha detto che il film gli era sempre sembrato più lungo dopo che era stato tagliato, e che quando era più lungo gli sembrava molto più corto — questo per dire che devi lasciare che una cosa respiri in modo proporzionale perché abbia l’autenticità che permette al tempo di scorrere in modo fluido e non interrompersi; se modifichi quella sensazione di fluidità, le conseguenze potrebbero non essere capite e potrebbero irritare e annoiare lo spettatore senza che si renda conto del perché.

Interrogato sulla lunghezza dei suoi film, il signor Bertolucci dice di avere appena ultimato L’assedio, un film di un’ora per la televisione italiana, che alla fine è diventato un lungometraggio e uscirà il prossimo anno per la Fine Line Features (e che a me ricorda Intervista di Fellini e Fanny and Alexander di Bergman, entrambi film commissionati per la tv e diventati lungometraggi). “Il cinema in questo momento sta attraversando una trasformazione estrema e fantastica”, dice. “È giunto alla fine del suo primo secolo di vita, è très fatigué. Deve essere alimentato di cose nuove: nuovi approcci al personaggio, alla psicologia, alla struttura. Cosa mi fa venire voglia di andare avanti? Dal 1962 a oggi — sono 36 anni — mi sarei annoiato. La cosa più importante è l’invenzione del cinema, cercare di scoprirne ancora il segreto”.

L’uomo che ha raggiunto una “distanza buddhista” è il primo a sapere che il montaggio è un enigma fondamentale. “Montare un film significa andare in una miniera sotterranea dove trovi metalli preziosi e incredibili che non avevi visto mentre giravi. Vedi delle cose per la prima volta. È magico”. Chiunque ti dica di entrare in quel labirinto per starci dai sei mesi a un anno senza una sorta di filo simile a quello di Teseo, o è un idiota o è un pazzo.

“Ars longa, vita brevis”, “L’arte è lunga, la vita è breve”. L’essenza, ci dicono i filosofi, è la cosa — e la difficoltà maggiore nel montaggio sta nel trovare quella “cosa”, nel vedere “la cosa all’interno della cosa”. L’occhio ha bisogno di tempo e raffinatezza per capire cosa vede realmente. La pellicola è simile a un mondo che si specchia perché ciò che funziona sulla carta non funziona necessariamente sulla pellicola, e viceversa. La pellicola è estremamente duttile; può essere montata in dozzine di modi differenti per mostrare qualcosa. Come la musica o la pittura, la pellicola è in definitiva al di fuori della logica della parte sinistra del cervello, più vicina all’ipercurvatura dei sensi di Einstein, descritta molto tempo fa dagli induisti come un paesaggio onirico. Alla fine il montaggio non è una questione di lunghezza, né di tempo, ma di verità. Come si fa a montare un sogno? E alla fine, chi è in grado di giudicare un sogno?

 

[in The New York Times, 29 novembre 1998]