Bernardo Bertolucci and Clare Peploe traveling in Japan, 1982
Photo Daniel Schmid

Passo a due su Novecento

di Clare Peploe e Bernardo Bertolucci

 

Con Novecento hai fatto un film sulla campagna.

Sulla campagna e sul salame, e il salame mi fa venire in mente il maiale, o meglio, l’uccisione del maiale, un rito feroce e meraviglioso, che si celebra tra le grida tremendamente umane, e perciò ancora più inquietanti, dell’animale con il sangue che cola sulla terra. Non si può parlare di cultura contadina senza tenere conto anche di questo rito pagano. Il primo film che ho fatto, a quindici anni, descriveva proprio la morte del maiale.

 

Interessante, perché io ho sempre pensato che Novecento fosse anche un omaggio al salame, che è un simbolo fallico, e il film un po’ fallocratico lo è davvero. Inizia con il grido: «È nato un maschio», e poi racconta tutta la presa di coscienza politica del protagonista contadino, senza però accennare mai allo sfruttamento delle donne…

Così fai l’errore di molte femministe: non è fallocratico il film, è fallocratica la cultura degli anni di cui si parla. All’inizio del film siamo appena entrati nel Novecento e si stanno facendo i funerali del secolo precedente. Insieme con il nuovo secolo, nascono anche i due protagonisti del film, che sono uomini. Non sono io a essere fallocratico, lo è il momento storico. È importante ricordarlo.

 

Ho capito, però pure in quegli anni ci sono state donne che hanno lavorato, sono state socialiste, hanno partecipato ai primi scioperi. Tu invece con il film hai scelto di seguire lo sviluppo del paese attraverso la storia di due uomini. Penso che si potesse far vedere di più la presenza femminile…

Ma io non volevo fare un film femminista, sarebbe stato limitativo e paternalistico, e per quanto mi riguarda anche insincero. Per esempio, io credo che nessuno meglio di un uomo di colore possa fare un film sullo sfruttamento dei neri nell’America dell’Ottocento. Una volta sono stato invitato in Algeria per girare un film sul Festival Panafricano. Sono andato ad Algeri, non per fare il film, bensì per dire agli algerini che nessuno meglio di un cineasta africano poteva farlo. E ho quasi litigato con loro, perché gli algerini invece volevano un prodotto che fosse esportabile nel mondo, per questo avevano pensato a me. Forse avevano ragione, ma io non me la sono sentita. Allo stesso modo, non intendevo fare un film femminista perché…

 

No, non dovevi fare un film femminista, però penso che il femminismo non riguarda solo le donne, ma il rapporto fra uomini e donne, e quindi soprattutto l’uomo. E poi, perché allora fare un film sui contadini se non sei contadino?

Mio nonno era un contadino.

 

No, lui era un padrone.

Era un contadino.

 

Va bene, tuo nonno lo era, ma chi non ha nonni? Il mondo è fatto di nuvole.

Ho vissuto tutta la mia infanzia con i contadini e Novecento è un film sulla dialettica fra padroni e contadini. Se non hai capito questo, non hai capito il film.

 

Però poteva essere pure un film sulla dialettica tra uomo e donna. Ci sono delle donne nel film.

E infatti c’è una dialettica fra uomo e donna.

 

Sì, ma la donna socialista muore quasi subito.

Tu mi insegni, visto che sei femminista, che anche Rosa Luxemburg è morta giovane. Anita muore di parto, il che, in qualche modo, la rende eroica.

 

Credo che invece non sopportavi una donna intelligente nel film, che infatti si sviluppa interamente attraverso un rapporto tra uomo e uomo, un’amicizia che inizia dall’infanzia, con dei lati anche omosessuali.

Be’, se è quello che vuoi vedere nel film, allora è vero.

 

Dico solo che non è irrilevante il fatto che quella donna muoia.

Questa però non è più un’intervista, è un confronto dialettico tra due punti di vista sul film. Va benissimo anche così, ma devo saperlo perché diventa una cosa diversa, magari una discussione perfino più interessante…

 

Perdonami, non volevo contraddirti, soprattutto perché conosco il film e conosco te. Sono obiezioni naturali…

Vanno benissimo le tue obiezioni, solo che hanno toccato un tema sensibile. Anche Ultimo tango è stato attaccato da gruppi di femministe, mentre altri, in particolare negli Stati Uniti, lo hanno amato. Secondo me c’è un grande equivoco, che non riguarda l’ideologia femminista ma la lettura dei film, in questo caso Novecento, tre anni fa Ultimo tango. Troppo spesso si confondono le situazioni raccontate con la verità dell’autore. Bisogna invece leggere i film in un altro modo. Ultimo tango era un film sulla coppia e sul sadomasochismo all’interno della coppia, e non ero io che sodomizzavo Maria Schneider come molte femministe hanno creduto di vedere. Mi ricordo che all’epoca citavo sempre l’episodio di un film molto popolare, credo La sepolta viva, proiettato nell’immediato dopoguerra in un cinema di Napoli. È una specie di romanzo d’appendice con un personaggio così cattivo che a un certo punto uno spettatore si alza dal suo posto e gridando: «T’accido» spara cinque colpi di pistola contro lo schermo. Certe femministe hanno avuto la stessa reazione, identificandomi con il protagonista macho di Ultimo tango. Anche tu, quando dici che in Novecento viene fatta morire l’unica donna positiva che c’è, commetti un errore simile. Credo invece che nel film ci sia una cosa molto interessante proprio dal punto di vista femminile e che riguarda un certo sdoppiamento dei personaggi. A livello maschile, i due protagonisti, il padrone e il contadino, lo sfruttatore e lo sfruttato, sono uniti da un sentimento comune, per cui in certi momenti perdono la loro identità e finiscono per essere due poli dello stesso discorso, intercambiabili. Una cosa analoga avviene a livello femminile. All’inizio c’è un personaggio femminile, Anita, interpretato dalla Sandrelli, che è una figura molto edificante, una rivoluzionaria degli anni Venti, un po’ anarchica e libertaria, l’unica in quell’autunno del 1922, quando vede i funerali delle vittime della Casa del popolo, ad avere la percezione precisa che la libertà è finita e che ci saranno vent’anni di fascismo, mentre il suo compagno, Olmo, più trionfalista e ingenuo, non lo capisce. Quindi è la donna ad avere l’intuizione della verità. Quando Anita muore, in qualche modo si trasforma e diventa Ada, il personaggio interpretato da Dominique Sanda.

Sono due figure femminili che evidentemente mi interessano molto: la popolana rivoluzionaria e la borghese decadente che non è capace di fare il salto di classe, ma trova insopportabile continuare a vivere in quel tipo di società. Non riesce però a fare nient’altro di positivo se non sognare di essere cieca per sfuggire a quella realtà. Anita e Ada sono un po’ lo stesso personaggio, e per interpretarle ho scelto le attrici di un altro film, Il conformista. In Novecento Anita non poteva sopravvivere al fascismo, come Rosa Luxemburg al nazismo: muore per ragioni storiche e si trasforma in Ada, un personaggio femminile che ha aspetti diversi ma è sempre lo stesso. In Novecento c’è anche un’altra novità e riguarda l’accettazione da parte mia delle regole narrative, e in certi momenti delle convenzioni, del romanzo ottocentesco. Nello stesso giorno nascono due bambini, e già questa cosa è abbastanza curiosa perché le case in cui nascono sono a cinquanta metri di distanza l’una dall’altra. Chi sono questi due bambini? Uno è il figlio del padrone, l’altro è il figlio del contadino, cioè la forza del destino per usare le parole di Verdi, un’atmosfera romanzesca che lega i personaggi e certi momenti della loro vita. In Novecento ho fatto vedere alcuni di questi momenti: la nascita, per esempio, e poi la morte dei due nonni. Anche loro, sopravvissuti alla fine del secolo, non potevano sopravvivere alla nuova realtà politica, alla nuova coscienza popolare che stava nascendo. Uno, il vecchio padrone, muore perché la sua classe verrà spazzata via dal socialismo; l’altro, il contadino, perché la sua visione del mondo, così prepolitica, così arcaica, non riesce a superare lo shock del primo sciopero a cui anche lui partecipa. Sono due forze del passato travolte da quella che è l’idea centrale del film: la vittoria del socialismo.

Tornando alla questione iniziale, è riduttivo utilizzare un’ottica femminista per giudicare un’opera artistica, perché si usano schemi magari giustissimi nel contingente ma che fra vent’anni saranno superati. Non si può criticare un’opera perché non è stata fatta dentro questi schemi.

 

Sono d’accordo, ma c’è sempre una ragione per cui si inventano certe cose e non altre. E poi tu eri sincero, non fai finta.

Sono sempre sincero quando mi esprimo con il cinema, senza avere il mito della sincerità che non m’interessa. A me interessa la fedeltà al proprio ritmo cardiaco, all’intermittenza del cuore.

 

Adesso vorrei parlare di Kim Arcalli, che ha montato Ultimo tango e Novecento, e ha collaborato anche alla sceneggiatura. Un modo abbastanza originale di essere all’inizio di un film e alla fine. Come è nata questa vostra collaborazione?

All’inizio Kim mi è stato imposto per Il conformista dal produttore del film, che era Giovanni Bertolucci, mio cugino; io a quel tempo avevo il mio montatore, Roberto Perpignani, con cui avevo fatto Prima della rivoluzione, Partner, l’episodio di Amore e rabbia con il Living Theatre Agonia, e Strategia del ragno. Quindi Kim non è stata una mia scelta ma un’imposizione, che alla fine si è rivelata giusta, perché quel cambio ha coinciso per me con il passaggio a un modello di cinema diverso. Fino ad allora vivevo il montaggio come un momento odiato e negativo della lavorazione del film; con Kim ho cominciato ad accettarlo e poi addirittura ad amarlo. Per il resto, aveva dei gusti molto diversi dai miei.

 

In che senso?

A me insospettiva un po’ il cinema che aveva fatto fino a quel momento, aveva collaborato con Tinto Brass, Patroni Griffi, e poi con altri film italiani commerciali, non interessanti.

 

Non gli interessava anche il cinema sperimentale degli anni Sessanta?

Sì, gli interessava, ma in modo diverso da me. Credo che in questo ci siamo influenzati l’uno con l’altro. Adesso Kim, per esempio, ama il cinema di Straub, mentre io ho cominciato ad amare un certo tipo di cinema sovietico che prima non capivo. Con Kim ho cominciato ad accettare nei miei film molti elementi che prima consideravo impuri. Negli anni Sessanta ero una specie di cinéphile guerrigliero, un po’ sadomasochista con i miei film e soprattutto nel rapporto con gli spettatori. Non ho usato a caso il termine sadomasochista, perché il pubblico da un lato subiva il sadismo di certe mie cose del tutto incomprensibili ed ermetiche, dall’altro poteva esercitare la sua vendetta, rifiutando il film, una cosa che io subivo con la sopportazione del cineasta incompreso, non accettato. Una posizione malata, appunto, masochista. E uno dei miei partiti presi più intransigenti riguardava proprio il montaggio, che per me rappresentava il momento imperialista di un film, che subentrava dopo il miracolo creativo della visione dei rushes, tutti gestuali e istintivi. Il montaggio è il lavoro che fa un giardiniere quando nel potare le siepi tagli via tutte le punte. Secondo me il montaggio ammorbidiva, banalizzava e quindi doveva essere rifiutato. Quando ho girato Partner mi sono detto: devo fare un film in cui il montaggio non conta niente, a contare devono essere solo le inquadrature, ognuna di esse un piccolo film. In Partner, che è il mio film più malato, avvenne esattamente questo. Poi c’è stato un momento di transizione, pure di notevole felicità creativa perché le contraddizioni alla fine sono sempre fertili e anche coerenti. Ho fatto Il conformista e con Kim ho scoperto il piacere del montaggio, e soprattutto ho capito che il materiale girato è una miniera inesauribile di cose inattese e preziose che io, regista, non avevo previsto. Kim mi ha dimostrato in concreto, lavorando sul corpo del film, che il materiale offre un’infinita serie di possibilità d’interpretazioni, modificazioni, manipolazioni. E che durante il montaggio è possibile, così come durante le riprese, lasciare una porta aperta sul caso e sull’azzardo. Magari interrompendo un’inquadratura che avevo girato come fosse un piano autonomo e attaccandovi brutalmente un’altra inquadratura che non era stata prevista per quel momento, Kim illuminava di colpo dei significati che perfino io ignoravo. Dopodiché ho capito che Kim era anche un uomo ricco di cose da dire, e che poteva dirle personalmente, direttamente, allora l’ho chiamato accanto a me e l’ho usato come ho usato Marlon Brando in Ultimo tango, come ho usato i contadini in Novecento, cioè ho usato Kim quasi come fosse un personaggio del film, non fuori dal film. Così è un collaboratore importante: presente nel film, ma invisibile.

 

In Novecento è stata utile anche la sua esperienza da partigiano?

È stata utile la sua vita. Kim è stato un partigiano famoso, lo è diventato a quindici anni e ai compagni aveva detto di averne diciotto per essere accettato e avere più autorità. A quattordici anni era già commissario politico di una Brigata Garibaldi che ha compiuto azioni indimenticabili. Più che l’esperienza in sé, al film è stato utile quello che ha capito vivendo quell’esperienza e poi gli anni dell’immediato dopoguerra fino a oggi. Kim viene da una famiglia proletaria molto composita, metà veneziana e metà modenese, con una lunga permanenza a Roma. Una famiglia storicamente comunista, fino dagli anni Trenta a casa sua si stampava l’Unità clandestina. Gli zii che lo avevano adottato sono finiti in galera per questo motivo, e visto che suo padre era morto e sua madre era fuggita in Francia, lui a dieci anni si è ritrovato a vivere da solo in casa. Ha vissuto gli anni del dopoguerra come un assoluto autodidatta culturale. Kim è un caso vivente di cultura popolare nazionale con forti contatti con la cultura borghese, una persona con il cuore sempre là, infallibilmente dalla parte della cultura proletaria, e con il cervello che ogni tanto fa dei blitz bellissimi nella cultura borghese. È una cosa piuttosto interessante che riguarda la meccanica del lavoro di scrittura nel cinema, quando si è sceneggiatori ma non scrittori. Kim non scrive una riga. Novecento, che è un copione di centinaia e centinaia di pagine, è stato scritto interamente da me e mio fratello Giuseppe. Kim ha portato solo del materiale orale, molto prezioso. Mai però del materiale che avesse la forma e lo stile dell’espressione scritta. Per lui l’attimo dello stile viene dopo, al momento del montaggio, quando dalle inquadrature riesce a tirare fuori anche quello che nascondono.

 

Nel film è stata importante la presenza di tuo fratello, Giuseppe Bertolucci.

Certamente. L’altra novità in Novecento è proprio l’entrata in scena di Giuseppe, che io considero la mia anima politica. Non conosco i sensi di inferiorità che lui ha nei miei confronti, forse saranno tanti, ma conosco bene quello che ho io nei suoi riguardi, ed è che politicamente Giuseppe è sempre stato assai più corretto, più giusto, più rigoroso di me. Ha investito nella politica una serie di esigenze molto profonde, che io ho invece investito in altre cose. Per questo è stata importante la presenza di Giuseppe nel film, perché politicamente sia io sia Kim siamo due irregolari, esattamente il suo contrario.

L’idea di Ultimo tango comunque è tutta mia, un’idea che mi perseguitava da tempo e che deriva semplicemente da una voglia di avere rapporti sessuali al di fuori di ogni connotazione sociale. Un giorno mi trovavo in un bar, a piazza del Popolo, con mio cugino Giovanni, con cui avevo appena fatto Il conformista, che mi aveva dato molte soddisfazioni ed era stato un gran successo negli Stati Uniti. Discutevamo sulla possibilità di un nuovo film. C’erano vari progetti che però non mi piacevano e allora gli ho detto: pensa a un uomo e una donna che si incontrano per caso, magari in un bar come questo, si desiderano senza sapere chi sono, si prendono, fanno l’amore, e decidono di ripetere, moltiplicare quella loro esperienza, senza sapere mai niente l’uno dell’altro, neanche il nome, neanche cosa fanno e dove vivono. Ho scritto quattro righe, praticamente ciò che ho detto adesso, e con quelle quattro righe abbiamo costruito il film. Poi sono accadute tante cose, tante vicissitudini, dovevano esserci certi attori e ce ne sono stati altri. Quando è arrivato Kim, avevo un primo trattamento ambientato a Milano, che parlava di un operaio che incontra una donna, ma c’era qualcosa che non andava. Avevano lavorato al trattamento anche altre persone, Marco Gherardi, un giovane poeta bolognese, poi Fabio Garriba, avevo chiesto di darmi una mano anche a Sergio Citti… Con Kim abbiamo buttato via tutto, perché evidentemente non era quella la cosa che cercavo, e abbiamo cominciato a parlare della storia che avevo in tasca. Ultimo tango praticamente è nato così, da questo dialogo.

 

Hai vissuto l’infanzia in campagna, ma con un’idea della campagna filtrata dalla poesia di tuo padre.

È vero. Nella vita a un certo punto vengono dei rigurgiti, come dei conati di vomito. Insomma è la madeleine di Proust, in termini più brutali. A un certo punto ti viene voglia di parlare, pensare, soprattutto ricordare certi momenti della vita. Io volevo ricordare la mia infanzia, che è trascorsa quasi interamente in campagna, come dici tu molto filtrata dal mondo poetico di mio padre, ma anche dalla poesia vista come una forma di sublime artigianato. Mio padre riusciva con la poesia a rappresentare fisicamente un mondo, una geografia, il microcosmo della sua casa e dei dintorni. Dentro quel microcosmo c’è tutto, anche la lotta di classe e il fascismo, anche se in quei versi non si parla mai di fascismo e mai di lotta di classe e comunismo. Mio padre da circa quindici anni, forse più, sta scrivendo un poema, un grande romanzo in versi, come la Gerusalemme liberata o l’Orlando furioso o l’Eugenio Onegin. È un’opera che amo molto, anche se ho letto finora solo tre o quattro canti, cioè capitoli. L’altro giorno, mentre ero in analisi, pensavo che forse alla radice di Novecento non c’è il salame, come ho detto prima scherzando, e non c’è neppure la campagna della mia infanzia che amo tanto: c’è invece una sana competitività con mio padre. Voglio dire che ho potuto provare a me stesso che quello che lui fa con la poesia, io posso farlo con il cinema. D’altra parte da bambino scrivevo poesie come lui, e ho continuato a farlo fino a vent’anni. Fino a quando cioè mi sono reso conto di questo meccanismo e ho avuto bisogno di una mia identità…

 

Come lo hai capito?

Non lo so. Ho smesso di scrivere poesie il giorno prima di cominciare La Commare secca. Da allora non ho più scritto un verso. Il cinema aveva preso il posto della poesia, per sempre.

 

Come è stato l’inizio della tua carriera?

Credo di costituire un caso abbastanza raro perché finora ho avuto la fortuna di fare solo i film che desideravo. Ed è un grande privilegio perché il cinema è un mestiere duro. Glauber Rocha dà una definizione molto bella e brutale del mestiere di regista: «Il regista è colui che riesce a trovare i soldi per fare il suo film». Io sono un privilegiato perché i miei film sono come le tappe di un romanziere, che è libero di scrivere ciò che vuole e quando vuole. Qualche tempo fa ho ricevuto una lettera di due giovani studiosi francesi, credo studenti di semiologia, in ogni caso strutturalisti, che in tre o quattro pagine molto fitte parlavano del mio cinema in una maniera che mi ha colpito, dimostrandomi a livello teorico delle cose che sapevo solo a livello inconscio. Il mio cinema è intriso di cultura – letteratura, pittura, musica – in un modo piuttosto misterioso, mai esplicito. I miei film sono figli della nostra cultura, dei nostri tempi. In questo penso a Renoir, che è forse l’autore da me più amato. Lui è figlio della pittura di Auguste Renoir, suo padre, delle poesie di Baudelaire, della cultura francese, ed è straordinario che tutto questo nei suoi film non risulti mai in modo diretto. Nel suo cinema ci sono invece le emozioni, la sua visione del mondo, il suo rapporto dialettico con la realtà. Ecco, nei miei film avviene un po’ questo… e vorrei non scandalizzare nessuno per aver citato Renoir, perché il mio non è un discorso qualitativo ma di affinità culturali.

 

Prima, parlando di Partner, hai detto che è un film malato e che adesso invece hai un rapporto più sano con il lavoro. Forse dovresti spiegare meglio. Per esempio, che vuoi dire quando parli di rapporto sadomasochista con il pubblico?

Voglio dire che al tempo di Partner io temevo molto il pubblico, e che per il mio inconscio esso rappresentava il simbolo di qualcosa che oggi nemmeno ricordo, ma che all’epoca avevo ben presente e mi spaventava. Allora rifiutavo il pubblico e mi rifugiavo fatalmente in film piuttosto ermetici. Un film come un monologo è qualcosa che si fa soprattutto per sé stessi, che gli altri possono ascoltare o rifiutare, ma questo è irrilevante, l’importante è parlare a sé stessi. In questi casi il monologo è come la masturbazione, il monologo è…

 

Narcisistico…

Totalmente narcisistico, anche se certe volte riesce ugualmente a coinvolgere gli altri. Prima della rivoluzione, per esempio, ha coinvolto molta gente, ed era un monologo.

 

Perché dici che Prima della rivoluzione era un monologo, quando invece…

Hai ragione, Prima della rivoluzione non lo era. Partner invece era solo un monologo. Quando ho fatto quel film vivevo un tremendo trip di frustrazioni, non facevo film da quattro anni e in tutto quel periodo mi ero riempito la testa di teorie malate, magari anche utilissime, storicamente necessarie. Erano teorie cinefile che confondevano la politica con il cinema, senza che in realtà ci fossero idee precise né sull’una né sull’altro. L’idea del linguaggio cinematografico, per esempio, quella meravigliosa intuizione degli anni Sessanta c’è un po’ in tutti i film di quegli anni, nei più belli come nei meno riusciti. In tutti tornava la domanda di Bazin: «Che cosa è il cinema?», e il tentativo di risposta era: cerchiamo di capire che cosa è il cinema facendolo, in modo che i nostri film raccontino non solo la storia di un personaggio, di un ambiente, di una società, ma anche la storia del cinema, del suo linguaggio.

 

Certi argomenti hanno affascinato molta gente di grande cultura. Vuol dire che quel cinema non era poi tanto malato…

Nel 1968 era malato. Dopo quattro anni di attesa e di silenzio, quel film, per me, era malato. I bei film sono dei fiori che crescono su un letamaio. Voglio dire che possono nascere anche nella più bieca speculazione imperialistico-hollywoodiana. Nascono da tutte le parti, in riva ai fossi ma, ripeto, soprattutto sopra i letamai. A quel tempo dirlo era una bestemmia. Comunque dopo quattro anni di inattività ho fatto un film che era soltanto un grido di vendetta contro i produttori e contro il pubblico. Di vendetta e insieme di paura. Contro i produttori che mi avrebbero impedito per sempre di fare altri film. Contro il pubblico, chissà perché, forse per non averlo potuto avere per quattro anni. Insomma, posso dire che io nasco come regista che vuole avere un dialogo con il pubblico, mi ammalo, divento un regista del monologo e poi, lentamente, faticosamente, guarisco e torno al dialogo.

 

Il tuo dialogo avviene con Strategia del ragno.

Con Strategia del ragno, Il conformista, Ultimo tango fino ad arrivare alla celebrazione del dialogo con il pubblico di Novecento, che è addirittura la teoria, la festa del dialogo con il pubblico. È un po’ buffo dirlo adesso, quando Novecento deve ancora incontrare il pubblico. E se il film va male? Se andrà male è stata un’illusione, se va bene sarà la verità. Quindi la mia è solo un’ipotesi azzardata, magari un esorcismo. Di sicuro so che il prossimo film sarà contro il pubblico, cioè sarà il contrario di Novecento. Lo sento. Un film contro il mercato e contro un certo modo di fare cinema.

 

Come mai questa scelta? Se era una sfida voler comunicare con un pubblico così grande, che, come dici tu, è un modo più sano di fare cinema, perché adesso vuoi fare il contrario? Vuoi dire che il prossimo film sarà meno sano?

No, voglio dire che è sano fare il contrario di quanto già si è fatto, soprattutto se quello che hai fatto ti ha dato delle soddisfazioni. Se ti ha soddisfatto pienamente allora bisogna fare il contrario, altrimenti è come mangiare un dolce dopo averne mangiati altri dieci.

 

È la prima volta che dici di voler fare il prossimo film contro il pubblico. Come mai?

Come tutti, tendo a ideologizzare ciò che penso…

 

Devi spiegarti meglio.

In questo momento, con Novecento, siamo quasi alla fine del doppiaggio, dobbiamo fare ancora le musiche e il missaggio, poi mancano gli ultimi aggiustamenti. Ma il film in un certo senso per me è finito, dopo tanto tempo in cui praticamente non ho pensato ad altro, lo considero un’esperienza conclusa. È la solita storia del serpente che si mangia la coda: per potere andare avanti bisogna mangiare cannibalisticamente ciò che si è fatto. Penso che fare un film contro il pubblico, magari un film che vada anche male commercialmente, riuscendo però a fare davvero quello che si vuole, significa collegarsi a un certo tipo di esperimenti e di scoperte che sono stati necessari al cinema negli anni Sessanta, e a cui ho partecipato anch’io. Voglio dire che, individualmente, ho bisogno di rivoluzioni interne come quelle. Capisci?

 

Oh, bella! Perché allora tutte quelle discussioni con te che difendevi la linea del cinema popolare, che dicevi di essere ormai dall’altra parte del ciclo, che il periodo sperimentale degli anni Sessanta lo avevi già vissuto e ora lo rifiutavi. Adesso ti contraddici.

Tu hai appena ripetuto in modo più chiaro quello che avevo detto, forse, in modo oscuro. Il fatto è che quando parlo mi vengono sempre in mente un’infinità di elementi che allargano il discorso, ogni idea ne richiama un’altra e così via. La stessa cosa mi succede quando giro un film, le inquadrature che nascono per dire una cosa pian piano si affollano di altre presenze, altri significati. È per questo che amo Bresson, perché è il contrario di Renoir, che adoro, perché un’inquadratura di Bresson vuol dire una cosa sola e non crea equivoci. Renoir e Bresson rappresentano le due anime della cultura francese: Renoir è come Baudelaire, come Proust, fluviale, incontenibile. Bresson è come la cultura cartesiana. In pittura, Renoir può essere Renoir o Ingres, mentre Bresson è esattamente il contrario. Adesso però viene il bello: chi è, dove sta Godard? Tra questi due esempi, da una parte Bresson, in cui l’inquadratura vuol dire una cosa altissima, quasi metafisica, ma solo quella, e dall’altra Renoir, in cui l’inquadratura significa tante cose insieme, tante emozioni, tanti significati, con una stratificazione e una ricchezza straordinarie, Godard, il mostro del trasformismo e dell’ambiguità, dove si pone? Godard può essere Bresson, ma anche Renoir; in realtà non è né l’uno né l’altro perché, come dice lo strutturalismo, la somma aritmetica di Renoir più Bresson non è uguale a «Brenoir», ma è uguale a Godard, a una terza struttura, del tutto nuova.

 

Tornando a Novecento, sapevi già che sarebbe stato così lungo e girato in inglese?

All’inizio sapevo solo che dovevo girarlo in inglese, perché c’erano attori che parlavano inglese.

 

Questo lo so, ma quando lo scrivevi, e prima ancora che il film fosse finanziato, avevi già un’idea delle dimensioni che avrebbe avuto?

No, non lo sapevo. Mi facevo delle illusioni, credevo fosse un film da un miliardo. Invece poi sono passati gli anni, il costo della vita è cresciuto molto ed è diventato un film da quattro miliardi. Ma il cinema è così, come la vita, qualsiasi forma di espressione artistica cresce con il ritmo economico della vita.

 

Sei stato obbligato a prendere degli attori americani?

Perché dici questo? Non sono stato obbligato, nessuno mi ha detto che dovevo prendere degli attori americani, ma è nella logica del cinema. Sono stato io stesso a volerli perché sapevo che il film sarebbe costato molto e che per avere i soldi dagli americani bisogna girare i film in inglese e possibilmente con attori americani. All’interno di questo ragionamento sono stato attento nella scelta degli interpreti. Sterling Hayden è un sublime poeta del cinema degli anni Quaranta e Cinquanta. Burt Lancaster è invece un prosatore di un cinema più commerciale, ma un grande prosatore. Robert De Niro è un maudit, nel senso che è un attore completamente nuovo. Gérard Depardieu è invece una forza della natura, fa del cinema ma se fossimo nel Cinquecento sarebbe stato di sicuro un capitano di ventura. E Donald Sutherland è una specie di outsider, perché ha come una maledizione che si porta dietro, è un grande attore che si crea ogni volta delle situazioni complicate a livello professionale.

 

Queste imposizioni erano anche delle limitazioni. Ne sei stato felice?

Certo, perché quelle limitazioni esprimevano esattamente un tipo di cinema che era il coronamento di tutta la mia teoria del dialogo con il pubblico. Erano in armonia con il cinema che avevo costruito pian piano, film dopo film. Un tipo di cinema che contiene e accetta dentro di sé anche dei compromessi commerciali giustificabili e necessari. Ricordo che in Una donna sposata Godard dice che il compromesso è un’altra forma di intelligenza.

 

Sì?

In due parole, è arte popolare. Se vuoi fare arte popolare devi pagarla in termini di purezza bressoniana, non puoi fare il cinema splendidamente rigoroso di Jean-Marie Straub. Perché la purezza non è roba mia, anche se è sublime in quanto purezza.

 

In questo momento un certo cinema non ti interessa…

Non ho detto che il mio prossimo film sarà sperimentale e difficile come quelli di Straub. Però non sarà un film del tutto puro, perché io non potrò mai essere tale, la purezza la potrei trovare solo calandomi completamente nel suo contrario, nell’impurità, e allora forse quel giorno…

 

Vuol dire tornare a fare un cinema rigoroso…

No, perché trovo che i miei film sono rigorosi. Voglio che nei miei film ci sia la possibilità del rigore e la possibilità del suo contrario. Voglio che ci sia tutto, perché ogni film è per me come se fosse l’ultimo. Quando giravo Partner sembrava l’ultimo film, non solo mio, ma della storia del cinema. Mi sembrava che con quel film finisse il cinema, perché sentivo che era malato. Ai tempi di Strategia del ragno, e poi ogni volta che ho girato un film, ho sempre avuto l’impressione che fosse l’ultimo. Invece ogni volta si va avanti.

 

Sento che hai una specie di conflitto interiore: da un lato pensi al cinema puro, come dici tu, quello di Bresson, come a qualcosa di ormai lontano…

Quando dico cinema puro faccio evidentemente una semplificazione…

 

… comunque un tipo di cinema non facile per il pubblico. Dall’altro sento una certa tua voglia di tornare a farlo. Perché hai passato un periodo della tua vita in cui quel tipo di cinema lo hai vissuto…

Sì, e ho odiato quella poetica come si può odiare una persona. Perché è una poetica che incarna tutta una serie di idee che adesso rifiuto.

 

Lavorare con dei grandi attori americani è stato un bel passo nell’altra direzione.

È stata la materializzazione di un sogno, l’American dream che è sempre stato presente nel mio cinema. Gli attori incarnano con i loro volti, i loro corpi, tutto quello che amo del cinema americano: i film di Hawks, Ford, Welles. Non mi vergogno nel dire queste cose, anche se sono molto intime, e forse infantili, che riguardano una specie di identificazione con i registi. Perché i registi? Perché loro sono il cinema, i film non esistono, esiste solo un unico grande film che è la storia del cinema, fatta da tanti film che formano un’immensa struttura dove c’è spazio per tutti, da Lang e Renoir fino a Lelouch, fino a quei film che neppure andiamo a vedere perché sappiamo che sono mediocri. Invece c’è spazio per tutti, ed è cinema anche quello più infimo.

 

È stato diverso lavorare con un attore come Sterling Hayden, che appartiene al mito del cinema americano, e lavorare con Robert De Niro, che invece viene da una scuola diversa?

Lavorare con Bob mi faceva sentire come un giovane regista americano, con la consapevolezza però di fare una cosa diversa, partendo dalla finzione per arrivare in qualche modo al documentario. Tutti i miei film sono dei documentari più o meno travestiti da finzione. Il documentario e la finzione sono due linee che convergono e che alla fine non sai più distinguere l’una dall’altra. E questo è vero soprattutto nel lavoro con gli attori, qualsiasi cosa si faccia. Penso alla famosa frase di Jean Cocteau: «Le cinéma, c’est la mort au travail», il cinema è la morte al lavoro. Cinema vuol dire filmare qualcuno che in trenta secondi o un minuto o due ha in sé la morte che lavora, che gli toglie trenta secondi o un minuto o due della sua vita. Ecco, il cinema filma tutto questo, quindi filma anche l’assenza del cinema. Forse queste sono delle teorie un po’ intellettualistiche, ma per me sono inevitabili, perché alla fine ha significato poter filmare due esseri umani che sono americani, travestendoli da contadino e da padrone padani.

 

Ti ricordi come Sterling è arrivato da Roma in motocicletta?

Sì, è arrivato sul set come un cowboy, come un ultimo cowboy che arriva a cavallo, ma lui era in moto e dietro c’era la famiglia su una cadillac.

 

Era amato da tutti.

Sì, perché Sterling ha in sé una tale forza poetica che non è possibile giudicarlo, lo si ama e basta, anzi credo che questo sia il suo problema. Lui dice che si fa talmente amare che alla fine per la gente non diventa più interessante scoprirlo. La sua identità più profonda è come nascosta da questo strato d’amore e poesia. Bisognerebbe fare un film solo con lui, sulla psicoanalisi, e lui dovrebbe fare lo psicoanalista. A proposito, oggi ero dal mio analista e parlavamo di depressione come perdita dell’oggetto interiore. A quel punto ho pensato alla perdita della mammella materna e lui mi ha detto che quando il bambino perde la mammella della madre vive una grande depressione. E la depressione è sempre la ripetizione, l’iterazione di quel momento del passato, però è anche necessaria, perché rivivendolo si soffre e si va avanti. La depressione è come una stazione della Via Crucis della guarigione.

 

Io non ci credo, altrimenti dovrei essere molto avanti.

Ma tu sei avanti. Solo che la depressione deve essere gestita, e l’analisi ti aiuta a fare proprio questo. Poi l’analista mi ha parlato di un quadro del Correggio che ha come soggetto la Madonna e il bambino. Il bambino sta facendo i primi passi, si allontana da lei, e la Madonna ha un braccio teso in avanti, quasi per richiamarlo, e un altro portato al seno. La Madonna è al tempo stesso felice e fiera perché il bambino muove i primi passi, ma ha già in sé la tristezza della madre che perde il figlio. Il bambino ha voglia di andare avanti, ma anche paura e nostalgia della madre. La citazione del quadro del Correggio mi ha dato un brivido profondo e mi ha fatto capire ancora meglio l’analisi, che è soprattutto rivivere emotivamente i momenti fondamentali della vita, attraverso le emozioni e non attraverso la ragione. Questa viene dopo a sistemare le cose. Allora oggi mi sono complimentato con il mio analista per la citazione e per ciò che mi aveva provocato: una grande gioia, una specie di orgasmo analitico se si può chiamare così. Mi complimentavo e lui a quel punto mi ha detto, o meglio ha detto la sua voce, perché stava seduto dietro di me: «Sa, anche noi analisti abbiamo l’inconscio». Voleva dire: è stato bello anche per me, perché l’analisi è sempre un rapporto di coppia.

 

Tornando agli attori, cosa ne pensi di Dominique Sanda, con cui avevi già lavorato per Il conformista? È cambiata molto dall’ultima volta?

Quando l’ho scelta per Il conformista Dominique era molto giovane, aveva diciannove anni, ma sembrava già una donna di venticinque, ventisei anni. Adesso mi pare che ne abbia appunto ventitré, ventiquattro ed è rimasta una donna di quell’età. Cioè è come se per lei la maturità fosse intervenuta molto presto, dopodiché il tempo si è fermato.

 

Per il personaggio di Attila, il fascista, so che hai avuto molte difficoltà a trovare un attore disposto a interpretarlo.

Sembrava un personaggio maledetto. Tutti gli attori a cui l’ho proposto e che mi sembravano essere giusti fisicamente, sono rimasti affascinati dal personaggio ma alla fine hanno rifiutato, anche se con molti conflitti interiori. Poi è arrivato Donald ed era perfetto.

 

Quando hai scelto i nomi di Attila e di Alfredo Berlinghieri, eri cosciente del fatto che assomigliavano uno al nome di tuo padre e l’altro al cognome dell’altro tuo padre, quello politico?

Dunque, Attila e Regina, che formano la coppia che io chiamo «animal killers», sono il fascismo. Attila è molto simile ad Attilio, il nome di mio padre, e quando ho pensato ad Attila non ero consapevole di questa assonanza; ho pensato invece a una cosa più banale, ad Attila il re dei barbari, che dove passava non cresceva più l’erba. Regina invece è il nome della Madonna, il nome della madre, quindi Attila e Regina, i due fascisti, hanno dei nomi che in qualche modo fanno ricordare il padre e la madre. Berlinghieri, è vero, assomiglia a Berlinguer, anche se ci sono molti Berlinghieri nella zona. In questo caso mi sono posto il problema. Oddio, mi sono detto, forse potrà essere letta come un’insinuazione. A me però non sembrava possibile, tali sono l’ammirazione e il rispetto per Berlinguer che mi sembrava offensivo solo pormi il problema, come se fosse una mancanza di rispetto. Adesso che il film sta per uscire mi pongo, però, di nuovo la domanda: forse ci sarà della gente che penserà a un doppio senso. Ovviamente non c’è niente. O meglio, a livello inconscio forse ci sarà qualcosa, ma A e B sono anche le iniziali di mio padre, Attilio Bertolucci. Vedremo come andrà a finire.

 

Di Gérard Depardieu, invece, sei stato un po’ innamorato.

Io mi innamoro di tutti gli attori dei miei film.

 

Parliamo di Ultimo tango condannato al rogo. Una cosa incredibile, una caccia alle streghe.

Malgrado sia morto da trent’anni, in Italia Mussolini continua a governare attraverso il codice penale che è stato fatto, appunto, sotto il fascismo. Tale codice prevede il reato di offesa al buon costume, definito «comune senso del pudore». In questo articolo del codice si dice che c’è oscenità quando non c’è arte. Ultimo tango, malgrado avessimo portato in tribunale volumi di recensioni positive pubblicate in tutto il mondo, è stato considerato dai giudici italiani un film privo di qualsiasi contenuto artistico e quindi osceno. La persecuzione è cominciata quando il film è uscito nelle sale, tre o quattro anni fa, poi è andata avanti con vari processi. Alla fine il film è stato sequestrato e poi imprigionato per anni. All’ultimo grado dell’iter giudiziario, la Corte di Cassazione ha condannato il film alla distruzione totale e cioè al rogo. Non era mai successo prima, mai si era giunti a una forma di repressione così totale e violenta. Naturalmente la cosa ha creato uno scandalo nazionale, c’è stata grande solidarietà nei confronti del film, anche perché si trattava di difendere la libertà di espressione e tutte le opere del pensiero.

 

Ho letto sui giornali dichiarazioni di persone che dicevano di vergognarsi di essere italiani. C’è stato anche il caso di un giornalista licenziato.

Sì, un giornalista che aveva scritto un articolo molto violento contro la sentenza. L’editore del giornale lo ha licenziato in tronco, ma è stato costretto a riassumerlo dopo una settimana perché mancava la «giusta causa».

 

Hai scritto anche una lettera al Presidente della Repubblica…

A un certo punto, non sapendo più cosa fare – dopo il terzo grado di giudizio non c’era più possibilità d’appello –, ho fatto come se Ultimo tango fosse una persona condannata a morte e quindi ho scritto una lettera al Presidente della Repubblica per chiedergli la concessione della grazia. Naturalmente era una lettera molto informale, cioè non ho seguito il normale iter giudiziario, ma ho indirizzato la lettera attraverso i giornali. Tra l’altro, sapevo che il Presidente aveva visto Ultimo tango nella saletta di proiezione del Quirinale. Devo dire che la lettera non è rimasta inascoltata. Anche se il Presidente formalmente non poteva intervenire, ha voluto in qualche modo dissociarsi dalla sentenza della Cassazione, e, da avvocato qual è, è riuscito a trovare in un articolo del codice di procedura penale la strada per salvare il film. Infatti il codice dice che, nel caso si tratti di un’opera scientifica o comunque di interesse artistico, invece di essere distrutta l’opera può essere conservata. L’articolo parla di un museo criminale, e dunque sarebbe stata la prima volta che un film veniva considerato vicino a dei pugnali con cui erano state sventrate delle persone o a delle corde con cui erano state eseguite delle impiccagioni. Il Presidente voleva dire che al posto del museo criminale si poteva usare la Cineteca Nazionale, e così al posto della distruzione, della morte, c’è stata la prigione a vita, l’ergastolo.

 

Nella circostanza il Pci ha fatto delle dichiarazioni importanti contro la censura.

Ho chiesto pubblicamente, su un giornale, l’impegno del Partito comunista in questa lotta. Cioè ho chiesto al Partito di farsi leader della lotta per la libertà di espressione, e il Partito, che, a volte, si dimostra forse eccessivamente prudente, ha risposto positivamente. Il Pci ha un atteggiamento prudente perché tiene conto della sua base enorme e composita, dove ci sono cattolici e laici, persone di diversa estrazione sociale e culturale. Però in questo caso ha dimostrato una grande apertura e un grande coraggio, perché ha accolto il mio appello non solo per quanto riguarda la lotta contro la censura, per la riforma del codice, per la libertà di pornografia, ma anche per la battaglia contro una forma di censura molto più segreta, meno éclatante, però ancora più negativa della censura ufficiale. Sto parlando della censura dei mercanti, cioè la censura che fanno produttori, distributori ed esercenti, una forma di censura veramente più insidiosa, perché se i magistrati fermano i film quando almeno sono stati girati, i produttori li fermano prima ancora che esistano.

 

Tornando a Novecento, puoi dirci qualcosa sulla struttura narrativa?

Fino a oggi è il mio film più lavorato in fase di scrittura. Il lavoro di sceneggiatura è durato più di due anni e il copione è stato scritto e riscritto, discusso e ridiscusso. Ed è stato proprio questo grande lavoro di base che mi ha poi permesso una notevole libertà al momento delle riprese. In tutti i miei film ho sempre lasciato molto spazio all’improvvisazione, ma in Novecento questo margine è stato ancora più ampio, perché la libertà di improvvisazione è direttamente proporzionale a quanto è stato programmato. Sembra un paradosso, eppure è così.

Novecento è un film che nasce soprattutto dal bisogno di un ritorno alla terra in cui ho vissuto, quasi in sogno, l’infanzia e l’adolescenza. Il bisogno che sento di ritornare in quelle zone è curioso. C’ero già tornato altre due volte, ma evidentemente è una necessità periodica che mi prende. La prima volta ci sono tornato per Prima della rivoluzione, dove però il film era ambientato quasi interamente in città. Poi sono ritornato per Strategia del ragno, e in quel caso la campagna era invece molto presente. Ho sentito il bisogno di tornarci nuovamente con Novecento, come se Strategia fosse stato, in fondo, una specie di lungo sopralluogo filmato.

Quando ho cominciato a scrivere il film ho immediatamente pensato alla forma di un grande romanzo, e mi sono chiesto come articolarlo. Qual è il ritmo della campagna? È quello delle stagioni, e il film si articola secondo i ritmi delle stagioni, che nel racconto assumono però una dimensione dilatata rispetto ai quattro mesi naturali. Infatti il film comincia con una lunga estate, cioè la stagione dell’infanzia e della tarda adolescenza, che va dall’inizio del secolo fino alla prima guerra mondiale. Dopo di che cominciano un autunno e un inverno che accompagnano i vent’anni del fascismo, e poi c’è la primavera, che è la fine della Seconda guerra mondiale e il giorno della Liberazione, il 25 aprile. Tutto il racconto, che va dagli inizi del secolo alla Liberazione del 1945, si articola attorno a due personaggi nati nello stesso giorno dell’anno 1900 e a cui vengono dati i nomi di Alfredo, il padrone, e Olmo, il contadino. I due attraverseranno insieme, come amici di infanzia e adolescenza, la prima parte del secolo, vivendo poi separatamente i momenti storici e politici del paese: la lotta di classe, cioè la nascita della coscienza di classe nei contadini delle campagne emiliane, poi l’avvento del fascismo e la Liberazione. Questi due personaggi sono anche gli elementi della dialettica che sostiene tutto il film. Infatti Novecento è un vero film politico, un film sulla dialettica di classe tra la borghesia agraria e i lavoratori della terra, e dunque tra Alfredo e Olmo. È un film in cui io ho usato, addirittura brutalmente, gli stilemi e i codici del romanzo ottocentesco, però in modo diverso. Nel romanzo la finalità è sempre psicologica, mentre in Novecento è solo ideologica. Per esempio, scrivendo la sceneggiatura immaginavo che tutta la parte dell’infanzia di Alfredo nella villa padronale avrebbe avuto un carattere fatalmente proustiano; questo non è accaduto perché alla base del film c’era l’idea della dialettica di classe. Una dialettica che ha sconvolto tutte le mie idee preconcette sul film e ha disperso tutti quelli che potevano essere dei modelli letterari.

 

È rimasto il modello del melodramma italiano.

È un modello presente in tutti i miei film e, naturalmente, anche in Novecento. Io faccio un cinema che chiamerei della generosità piuttosto che dell’avarizia, cioè un cinema in cui sono presenti tutti i modelli espressivi possibili, che mi prendo il lusso di usare quando e come voglio. In questi modelli c’è il melodramma, e non è un caso se la terra in cui abbiamo girato Novecento è anche quella del melodramma. Abbiamo girato gran parte del film a pochi chilometri dalla casa dove è nato e vissuto Giuseppe Verdi, quindi nel luogo in cui Verdi ha scritto la sua musica guardando la stessa campagna di Novecento, le stesse facce di contadini, le stesse luci. Verdi, secondo me, è un grandissimo autore non solo di musica ma anche di teatro. Per me Verdi è un po’ come Shakespeare, e girando il film ho sentito, e verificato, il rapporto stretto tra la creatività verdiana e la realtà di quella terra. È impossibile filmare questa terra senza il melodramma.

 

Prima di cominciare a girare ci sono stati dei film che hai tenuto presente? Una volta mi hai parlato della Terra di Dovženko.

Nei miei film ci sono sempre dei punti di riferimento, perché credo molto nella continuità della cultura. Per Novecento, come hai detto tu, ho pensato certamente a Dovženko, ma anche a Renoir, cioè a quei registi che, secondo me, hanno filmato la terra con più amore e con uno sguardo più profondo.

 

È stato importante anche il tuo viaggio in Nepal.

È vero, perché Katmandu, come l’abbiamo vista insieme nel 1973, era davvero quasi un sogno, rappresentava tutta l’innocenza di un mondo arcaico che resiste. Sono stato enormemente suggestionato, sebbene in quel momento Novecento fosse per me ancora un’idea di film da fare. In Nepal potevi vedere, toccare con mano la realtà di una civiltà contadina arcaica, non soltanto per le sue architetture, per il modo di lavorare la terra, per la luce, i colori, ma anche per i volti dei contadini, per quella specie di sublime innocenza che hanno i nepalesi. Katmandu mi ha dato il sapore di una grande civiltà agraria, come forse è sempre stata nel mondo, come forse era in Italia all’inizio del secolo scorso: un mondo contadino consapevole e geloso della propria cultura. Questa è un po’ l’idea di Novecento, una specie di grido di protesta contro la civiltà del consumismo, il cosiddetto benessere, contro la forma di capitalismo che cerca di soffocare le culture locali più preziose. I contadini emiliani hanno però resistito, hanno capito l’importanza della cultura originaria e con il socialismo sono riusciti a difenderla. Visitare Katmandu è stato per me come fare un viaggio nel passato, visitare quasi in sogno una realtà abbastanza comparabile a quella che era la realtà contadina nell’Emilia della fine dell’Ottocento e degli inizi del nuovo secolo.

 

Novecento è anche un film nostalgico, perché sebbene in Emilia esista il senso di questa cultura contadina, è pure vero che dalla fine della Seconda guerra mondiale molto è andato perduto. Non è un caso se hai fatto finire Novecento nel 1945, non hai voluto affrontare i problemi di oggi.

Forse un giorno li affronterò. Però non è vero che quella cultura è stata distrutta, anzi, se avessi filmato la storia dal 1945 a oggi, avrei raccontato il conflitto tra il consumismo e la cultura contadina del tempo, cioè avrei filmato l’aggressione spaventosa che è stata fatta con i beni di consumo e con l’industrializzazione. Fermandomi nel 1945 ho cercato invece di dare il senso di ciò che era allora la cultura contadina. Secondo me l’aggressione consumistica non ha vinto del tutto. Un momento però. Quando parlo di rifiuto del consumismo da parte dei contadini emiliani, non voglio dire che sono dei reazionari, anzi: ormai la campagna è totalmente industrializzata, ma i contadini sono riusciti a servirsi del progresso portato dalle macchine senza accettare passivamente la mistificazione delle macchine, cioè sono riusciti a farle coesistere con l’uomo, con la sua cultura, le sue abitudini.

 

Infatti in Novecento, a un certo punto, si vede l’arrivo di una macchina agricola e la protesta dei contadini, che capiscono che quella macchina porterà via del lavoro. Questo fenomeno è successo in tutte le campagne del mondo, certamente in Italia, ed è per questo che poi la gente ha cominciato a emigrare nelle città. In Emilia resiste ancora una cultura contadina, però è minoritaria, eccezionale, ma anche l’unica.

Sicuramente è l’unica. Ma siccome l’Emilia è la regione da cui proviene la maggior parte dei prodotti agricoli, allora non si tratta più di una minoranza, si può dire invece che l’agricoltura in Italia è rappresentata soprattutto dall’Emilia. Non è rappresentata invece dal Sud, proprio perché tutta l’emigrazione nelle grandi città è arrivata in particolare dal Meridione. Quello che però volevo dire è che nessuno, neppure Pier Paolo Pasolini che lanciava continue invettive contro il pericolo rappresentato dal consumismo, poteva immaginare la resistenza espressa dalla cultura contadina emiliana. La prova è proprio Novecento, cioè i contadini di oggi, che vedevamo arrivare sul set con delle macchine enormi, poi scendevano dalle auto e diventavano attori del film, ritrovando tranquillamente la continuità con le loro tradizioni culturali. La vera industrializzazione ha portato un minore bisogno di manodopera nelle campagne, questo è un fatto incontestabile, ma sono sicuro che se il comunismo andasse al potere nel nostro paese si riuscirebbero a trovare i modi giusti per armonizzare città e campagna. Mi pare che sia quello che hanno cercato di fare in Cina, e in parte mi sembra che ci siano riusciti; mi pare che sia stato quello che in maniera violenta e drammatica, e dunque sbagliando, è accaduto nella Cambogia appena liberata, quando i khmer rossi hanno costretto la popolazione che viveva nelle cinture delle città, in modo degradato e parassitario, a tornare nelle campagne che durante la guerra erano state abbandonate. Lo hanno fatto in una maniera deprecabile, anche se forse l’intenzione originaria era giusta.

 

È una soluzione drastica e violenta che in Italia non potrebbe mai essere applicata. Non è possibile far ritornare la gente nelle campagne, perché ci sono ormai un benessere diffuso, dei nuovi modelli di vita acquisiti.

Un benessere che si è dimostrato illusorio, non solo in Italia, ma in tutto il mondo capitalistico.

 

Non si potrà tornare comunque indietro. Forse si può cercare di ricordare, mantenere la memoria…

Però non bisogna mantenere in vita dei piccoli templi, dei santuari della memoria dove alcune vestali, in questo caso i contadini, continuano a conservare le tradizioni. Bisogna invece che tutti possano partecipare, aiutare a tenere vivo il ricordo. Perché la nostra è una cultura essenzialmente contadina. La civiltà industriale esiste da cento, centocinquant’anni e ha aggredito l’uomo con una tale violenza da generare una specie di grande amnesia collettiva. Novecento vuole aiutare gli uomini a ricordare il loro passato e a ritrovare, se c’è, e io credo ci sia, una continuità culturale con esso. Tutto questo in chiave marxista. Dunque a fare un miracolo.

 

[Regista, moglie di Bernardo Bertolucci e suo aiuto regista in Novecento, Clare People ha registrato questa conversazione nel 1975, al termine delle riprese del film. La conversazione è stata utilizzata per i materiali promozionali del film, poi pubblicata dalla rivista Bananas, n. 4, Londra, primavera 1976, nel volume di scritti di Bertolucci La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti, 2010,  e nel volume di interviste a Bernardo Bertolucci Cinema la prima volta. Conversazioni sull’arte e la vita, a cura di Tiziana Lo Porto, Minimum fax 2016]