Bertolucci, che ha appena scritto con Dario Argento il trattamento di C’era una volta il West, accetta di partecipare, insieme a un gruppetto di autori non tipicamente cattolici, al progetto assai paradossale di una rilettura in chiave moderna dei Vangeli. Ne verrà fuori un Ufo cinematografico che nella fattispecie si rifà anche a Dante e al teatro della crudeltà di Antonin Artaud, nonché all’epigramma A un Papa di Pasolini. Il regista ne approfitta inoltre per ricorrere non solo al colore ma al CinemaScope e al suono in presa diretta, sottolineando così la dialettica tra i mezzi di un cinema ricco e la marginalità dichiarata della mitica compagnia del Living Theatre, simbolo della controcultura newyorchese. [F.G.]
Paolo Valmarana
L’esperimento dell’Italnoleggio: Amore e rabbia di cinque registi, Il Popolo, 30 maggio 1969
Bernardo Bertolucci descrive gli ultimi istanti di agonia di un importante personaggio, che risulta poi essere un alto prelato. Egli vede sfilare dinanzi a sé la sua vita, e il suo egoismo, i molti che hanno chiesto e che non hanno ottenuto da lui risposta né aiuto. Qui Bertolucci, con l’aiuto dei prestigiosi attori del Living Theatre e la scenografia di un ottimo pittore, Lorenzo Tornabuoni, conferma da un lato di essere uno dei pochi registi per cui veramente stile e linguaggio sono equivalenti, ma conferma anche la sua capacità di trascendere la realtà sensibile del fenomeno, di liberarsi dai limiti spazio-temporali per dare alle immagini colte, anche quando esse sembrano riferire la contingenza, una significazione universale. Restano, ovviamente, le perplessità sul tipo di personaggio proposto a protagonista di quella storia, sia pure nell’accezione simbolica accennata, e cioè il sospetto di un gratuito anticlericalismo.
Tullio Kezich
Amore e rabbia, Bianco e Nero, XXX, n. 8, luglio-agosto 1969
Sul Living c’è ormai tutta una letteratura, oltre che un mito di considerevole forza promozionale, e bisogna dare atto a Bertolucci di aver anticipato una moda anziché subirla. Ciò che colpisce di più in queste immagini è la raffinata eleganza della composizione, l’impaginazione perfetta che il giovane regista sa dare alle invenzioni degli attori americani.
Bertolucci sottolinea piuttosto la loro perfezione stilistica, l’aspetto estetizzante: più che la condanna dell’ignavo a lui interessa il cerimoniale dell’agonia. Solo in Prima della rivoluzione l’autore ha parlato in prima persona, mettendo la passione davanti allo stile. Qui, come del resto in Partner, l’aggressività si spegne nella bravura, il saggio di messinscena rimane un po’ fine a se stesso.
Fabio Carlini
Il fico fruttuoso, Cinema e Film, III, n. 9, estate 1969
Non è possibile pensare ad Agonia senza rifarsi continuamente a Partner, alla sua lezione prima di tutto cinematografica, alla sua stranezza demistificante e viceversa, capovolgendo i termini del confronto. Agonia come film dalla struttura tipica del genere poliziesco-giallo e/o forse fantascientifico, con all’interno tutti i discorsi che vogliamo sul teatro, la contestazione, il fascismo, ecc. La successione narrativa ricalca i passaggi obbligati di un corretto svolgersi già previsto: all’inizio ci troviamo di fronte al mistero, l’oggetto sconosciuto nei panni del moribondo senza identità alcuna; nessun indizio aiuta per l’identificazione, è il buio dell’immagine e della nostra mente nell’orrore dell’inqualificabile. La suspense ci costringe all’attesa della spiegazione tranquillizzante così che si possa ricollocare tutto in ordine nell’equilibrio ristabilito. Ma ogni successiva inquadratura è una frustrazione per la conoscenza: il dubbio e l’incertezza rimangono a caratterizzare un forte stato di tensione emotiva.
I mozziconi di frasi, qualche drammatizzazione rivelante per non scoraggiare lo spettatore e coinvolgerlo ancora nel gioco astutamente preordinato. Gli esseri misteriosi che si muovono di fronte a noi — rappresentanti chissà quale arcana metafora — rimangono impenetrati e impenetrabili senza speranza. Lo scioglimento è fuori di qualsiasi intervento da parte nostra, assumendo l’aspetto della rivelazione con cui si spiega finalmente tutto, e ogni precedente impasse acquista un senso. Con un pizzico di soddisfatta sorpresa, il “cinese” ha colpito ancora: il moribondo si trasforma in un cardinale morto.
Jacques Aumont
Berlin 69, Cahiers du Cinéma, XVIII, n. 215, settembre 1969
Tra i cinque segmenti di Amore e rabbia, Agonia è l’unico — ma splendido — successo: la perfezione dell’improvvisazione collettiva, in un notevole crescendo, dalla meditazione solitaria di Julian Beck sul suo letto funereo all’apparizione crudamente tangibile, poi al brulicare aggressivo dei suoi “fantasmi”, rimorsi e viltà, offre la visione solida e del tutto credibile di una realtà onirica; l’impressione potente di uno svolgimento “in tempo reale”: il tempo, appunto, di un’agonia.
Louis Marcorelles
La Contestation, Le Monde, 9 giugno 1970
Atteso con grande impazienza, Agonia rappresentava, nel 1967, cioè prima di Partner, il primo lavoro importante del regista di Prima della rivoluzione, dopo tre anni di inattività forzata. Julian Beck e il Living Theatre interpretano una fiaba dove si vede un alto personaggio in punto di morte, improvvisamente assediato da una comunità scimmiesca, in trance, immagine, forse, del dolore dell’umanità. Col passaggio del tempo e l’esperienza concreta vissuta dal Living dal Maggio ’68, dinanzi a questo racconto biblico, a questi attori identici eppure diversi, uno strano malessere s’impadronisce dello spettatore.
Jean-Louis Bory
La Contestation, Le Nouvel Observateur, 22 giugno 1970
Bertolucci continua, ahimè!, sulla traccia di Partner. Traumatizzato da Julian Beck e dalla sua tribù, inscena, con una pietà poco proporzionata all’interesse dello spettacolo, un balletto-mimica, dandoci a vedere gli estremi rimorsi di un principe della Chiesa, Cristo a rovescio coperto dai sudori dell’agonia. Amen. Julian Beck è come Lagardère: se non vai a lui, è lui che, grazie a Bertolucci, verrà a te. Gli aficionados di Beck saranno incantati. Quelli di Bertolucci, molto meno.
Bernard Eisenschitz
La vie au travail, Cahiers du Cinéma, XIX, n. 222, luglio 1970
Volontà di superare i fantasmi dell’impotenza e della morte, di ridurli a semplici fantasmi, Agonia è una transizione indispensabile per distruggere Prima della rivoluzione e arrivare a Partner. Per filmare dei fantasmi, degli spiriti, ci vogliono delle persone vere, per delle allucinazioni ci vogliono dei suoni veri, in presa diretta (qui per la prima volta nel cinema italiano), per la morte, ci vuole un teatro vivente. Destinato a scioccare il pubblico, a costringerlo con la violenza a scoprire se stesso in quanto pubblico. Ben tre anni dopo essere stato girato, Agonia non può essere ricevuto oggi che con l’interesse smussato che può ancora suscitare il Living, al punto che ci si è interrogati su una possibile divergenza tra il lavoro della troupe e quello del film. Un lavoro effettivamente inconcepibile in un momento che non sia il 1967, quando l’Italia non aveva ancora avvertito la realtà di tali fantasmi, poiché questo accecamento testimonia dell’agonia della vecchia Europa cattolica (accecamento e agonia già presenti alla fine della Via del petrolio, nella capitale basso-germanica della Controriforma). La funzione del film, nell’Italia di allora, era di constatare la loro realtà, quando i chierici Castello e Aprà li scavalcano con precauzione, così come la gente, giù in strada, griderà tra poco a Giacobbe di saltare nel vuoto, dalla finestra.
Bernardo Bertolucci
Tutto il mondo in una stanza, L’Espresso, 30 luglio 1967; ora in La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti 2010
Il concime di cui parla l’evangelista Luca sarà concime umano, la realtà, quella che l’uomo ha sfuggito per tutta la sua vita. La realtà invaderà la camera da letto, trentacinque metri quadrati di aria, pavimento, muri, tende, letto e il corpo dell’agonizzante, quasi a soffocarlo. L’uomo dunque è una di quelle anime tristi che “visser sanza ’nfamia e sanza lodo”, uno degli Angeli che “non furon ribelli né fur fideli a Dio”, un di coloro che “caccian li i cieli né lo profondo inferno li riceve”, insomma un ignavo del Canto III dell’Inferno dantesco. Ignudi, tormentati da mosconi e da vespe, corrono senza posa. Il sangue che riga loro il volto si mischia di lagrime e “a’ loro piedi da fastidiosi vermi era ricolto”. Naturalmente ciò che mi ha impressionato, come un segnale misterioso, è la tortura così profeticamente artaudiana inflitta agli ignavi. Ecco, molto semplicemente, perché ho pensato al Living Theatre.
Julian Beck
Tourner avec Bertolucci, Cahiers du Cinéma, XVI, n. 194, ottobre 1967
La prima impressione che ho avuto, lavorando sia con Bertolucci che, su Edipo Re, con Pasolini, è quella della particolare bellezza dei due uomini.
Come attore, ho avuto con Pasolini la netta impressione che avesse in testa tutta una struttura pre-concepita del film. Con Bernardo, è un meccanismo molto diverso, perché esteriorizza tutto, è aperto, la sua onestà è allo stesso tempo splendida e disarmante. I giorni del “fico infruttuoso” furono per noi un’esperienza straordinaria. Il suo obiettivo era di realizzare anche una specie di documentario su ciò che facevamo noi del Living mediante lunghe inquadrature monolitiche. Voleva realizzare un film che affrontasse un po’ un luogo comune del cinema — i fantasmi — e farlo con una luce forte, una macchina da presa essenzialmente fissa. È così che sono andate le cose, finché non è divenuto necessario, per ragioni di tempo, lavorare in modo diverso, nel senso che un’inquadratura nella quale c’è molto movimento ma la macchina da presa resta immobile richiede per forza una faticosa preparazione.