Tunner — Forse noi siamo i primi turisti che hanno dopo la guerra!
Kit — Tunner, noi non siamo turisti, siamo viaggiatori
Tunner — E che differenza c’è?
Port — Un turista è quello che pensa al ritorno a casa fin dal momento che arriva, Tunner…
Kit — … Laddove un viaggiatore può anche non tornare affatto.
Il narratore — Poiché non sappiamo quando moriremo, si è portati a credere che la vita sia un pozzo inesauribile; però tutto accade solo un certo numero di volte, un numero minimo di volte. Quante volte vi ricorderete di un certo pomeriggio della vostra infanzia? – un pomeriggio che è così profondamente parte di voi che senza neanche riuscireste a concepire la vostra vita – forse altre quattro o cinque volte, forse nemmeno. Quante altre volte guarderete levarsi la Luna? – forse venti – eppure tutto sembra senza limite.
Nel Marocco dell’immediato dopoguerra, Port e Kit Moresby, una coppia di artisti newyorkesi, sbarcano a Tangeri – lui è compositore, lei scrittrice –, accompagnati dal ricco amico Tunner, progettando di attraversare insieme il Sahara. Per i Moresby, lo scopo non detto di questa lunga vacanza è di ritrovare l’ispirazione a contatto con una cultura e con dei paesaggi decisamente diversi dal modello occidentale. Via via che le condizioni del viaggio verso Sud si fanno più difficili, la relazione tra i tre degrada. Tutto precipita quando Port, che è riuscito a sbarazzarsi dell’ingombrante Tunner, si ammala di febbre tifoide, prima di morire miseramente in una remota postazione militare francese ai confini del deserto.
Rimasta sola, Kit prosegue inaspettatamente l’avventura unendosi a una carovana di cammelli condotta da un mercante tuareg, Belqassim, che fa di lei la sua amante. Giunti dall’altra parte dell’oceano di sabbia, questi la sequestra – travestita da uomo – dentro una camera isolata del palazzo di terra seccata al sole, dove continuano i loro incontri sessuali. Finché le mogli del nomade approfittano di una sua lunga assenza per buttare l’ambiguo ospite fuori di casa. Mesi dopo, Kit, ricoverata in ospedale a Tangeri e ormai afasica, sfugge un’altra volta a un ulteriore incontro con Tunner, per andare invece a ritrovare un anziano habitué del Café Français che sembra aspettarla pazientemente da tempo.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci e Mark Peploe, dall’omonimo romanzo di Paul Bowles (1949)
Fernand Moszkowicz
Mano Dayak
(Technicolor, Technovision, 35mm, 1.85:1) Vittorio Storaro; operatori Enrico Umetelli, Michele Picciaredda, Nicola Pecorini (steadicam)
Gianni Silvestri, con Andrew Sanders e la collaborazione iniziale di Ferdinando Scarfiotti; arredamento Cinzia Sleiter
James Acheson, con Frank Gardiner
(AVID) Gabriella Cristiani, con Elvio Sordoni
Ryuichi Sakamoto, Richard Horowitz (brani etnici); Midnight Sun di Lionel Hampton; canzoni Je Chante di Charles Trenet, Ceux qui sont dans la tombe di Mohammed Abdel Wahab, Dalili Ethar e Sharan Liwhahdi da Oum Kalsoum, The Sacred Koran e Han el wid da Simone Shaheen, Goulou Lemma Telqani da Chaba Zahouania, Jewal da Bachir Attar e i maestri musicisti di Jajouka, Gnawa Drums di Ibrahim Kebir, Ameur dagli Ouled-Nail, Solo vocale da Mustapha Choki
(Dolby Digital) Ivan Sharrock, con David Motta, Don Banks
Serena Canevari, Ahmed Hatimi, con Abes Abdelkader, Nicoletta Peyran, Keltoum Alaoui, Claudio Amati
Lahcen Zinoun
Suzanne Durrenberger, con Fabien Gerard
Angelo Novi, Alessia Bulgari
Maurice Binder
John Malkovich (Port Moresby), Debra Winger (Kit Moresby), Campbell Scott (Tunner), Jill Bennett (Mrs Lyle), Timothy Spall (Eric Lyle), Paul Bowles (Narratore), Eric Vu-an (Belqassim), Amina Annabi (Mahrnia), Sotigui Kouyaté (Abdelkader), Philippe Morier-Genoud (capitano Broussard), Tom Novembre (doganiere), Ben Smail (magnaccia), Menouer Samiri (autista), Cheika Remiti (prostituta che fuma), Rabea Tami (danzatrice in trance), Afifi Mohamed (padrone dell’Hotel Majestic), Kamel Cherif (bigliettaio), Brahim Oubana (giovane africano), Keltoum Alaoui (padrona dell’Hotel du Ksar), Carolyn De Fonseca (Miss Ferry), Mohamed Ixa (capo carovana), Ahmed Azdum, Alghabid Kanakan, Gambo Alkabous e Sidi Kasko (giovani tuareg), Sidi Alkhadar (Piccolo Sidi), Azhara Atamout, Marhnia Mohammed e Oumou Alghabid (mogli di Belqassim), Nicoletta Braschi (ragazza nel Café Français), Veronica Lazar (suora), Zina [n.a.] (donna al forte di Sba), Antonio Etzi (gendarme francese); nelle scene eliminate dal montaggio definitivo Nicoletta Braschi (amante di Tunner), Mouss Zouheyri (impiegato all’ufficio postale)
Jeremy Thomas per la Sahara Company Ltd (Londra) / Tao Film (Roma) / The Aldrich Group (Los Angeles); produttore esecutivo William Aldrich; direttore di produzione Lucio Trentini; organizzazione generale Denise O’Dell, con John Bernard
Penta
132′
Tangeri, Tetouan • Erfoud: Zagora, Er-Rachidia, Ait Saoun • Ouarzazate: Gla-Gla, Tamnougalt (Marocco) • Beni Abbès (Algeria) • Agadès (Niger); settembre 1989-gennaio 1990
15 dicembre 1990
Bertolucci, fedele alla linea di condotta che consiste nel non ripetersi mai, dopo l’affresco storico e le migliaia di comparse dell’Ultimo imperatore, opta per l’intimismo minimalista del romanzo di culto di Paul Bowles quale seconda tappa della sua trilogia orientalista, dove il dedalo della Città Proibita cede il passo al labirinto più perfetto della Creazione, Borges dixit: il deserto. Ideale rivisitazione del Rossellini di Viaggio in Italia e dell’Antonioni dei primi anni ’60, Il tè nel deserto ci offre una intensa meditazione tanto sulla nostalgia della “barbarie” – nel senso pasoliniano della parola (“Africa! Unica mia alternativa…”, scriveva il poeta della Religione del mio tempo) – quanto sull’impermanenza dei sentimenti, della vita, ma anche di questo nostro mondo. Di fatto, sono del 1990 i primi articoli dedicati all’effetto serra, che vedevano nel deserto il futuro dell’intero pianeta nonché il segno della fragilità dell’umanità stessa).
Va notata la presenza nella troupe di Clare Peploe, moglie del regista, e del fratello, lo sceneggiatore Mark Peploe, due dei collaboratori più stretti di Antonioni, lei per Zabriskie Point e lui per Professione: reporter. Girato nei giorni della caduta del Muro di Berlino, il film uscirà poi in piena guerra del Golfo, causando qualche disagio sul mercato USA attorno alla relazione ritenuta “inappropriata” del personaggio di Kit con l’amante arabo. [F.G.]
Jean Genêt diceva che non aveva compreso i palestinesi fino al giorno che ha fatto l’amore con uno di loro. Per il suo nuovo film, è evidente che Bertolucci ha fatto l’amore con il deserto. Uno sconvolto deserto di innamorati, che non si era mai visto così: umido, glaciale, grigio, comatoso. È peggio di un’impasse, è più angoscioso di un vicolo cieco. È un labirinto invisibile, le cui pareti sembrano essersi ridotte in polvere: tutta quella sabbia! Ma l’idea del labirinto è ancora troppo ottimista, troppo pia: il labirinto presuppone un ingresso e un’uscita, la speranza che, d’altro canto, ci sia un po’ un paradiso che sfugga al suo inferno. Il tè nel deserto è un film senza esteriorità, senza appagamento, un film ateo. Allora che cosa, il nulla? Neanche, sarebbe troppo bello, un altro sollievo, una consolazione, una pietà, un po’ più mascherata delle altre, ma una pietà lo stesso. Il suo sistema è il reticolato, senza radice, senza futuro, semplicemente un brulichio, una proliferazione di metamorfosi.
È bello, è bellissimo, ma si sbadiglia spesso. Il romanzo era ambiguo, conteneva temi come il tradimento, la colpevolezza, il rimorso. Bertolucci si accontenta di portare una serie di diapositive delle sue vacanze in Nord Africa. Il film è levigato, piatto, abbastanza vuoto. Ci si attendeva un evento, ci si trova davanti al bel compito di uno scolaro diligente. John Malkovich, dai capelli trapiantati, suda e geme – la febbre tifoide – con molta buona volontà. Brevemente ogni tanto s’intravede Paul Bowles himself nel ruolo del narratore. Ha un po’ l’aria di chiedersi cosa sta facendo qui. Non è certo il solo.
Il libro sale a bizzarre altezze nella parte finale, cercando una sorta di ritmo conclusivo tra il sesso e la morte. Il film, purtroppo, si avvita su se stesso. Anziché portarci dentro la testa di Kit quando cerca nella cieca sottomissione carnale un oblìo uguale a quello del marito, Bertolucci e il direttore della fotografia Vittorio Storaro esteriorizzano la storia mediante inquadrature del deserto da opuscolo di un’agenzia di viaggi. Il Sahara in 70mm è turgido e turbinoso. Ci sono dune dorate vestite di un mobile chiffon di sabbia mossa dal vento; ci sono oasi al chiaro di luna simili a pozze di argento fuso. Restiamo a bocca aperta per la maestria visuale di Storaro, anche se perdiamo totalmente contatto con i misteri interiori di Kit. In effetti l’intero film si risolve in una lotta fra l’umanesimo filosofico di Bowles, al quale Malkovich e Winger prestano una leggiadria passionale e sudata, e il penchant di Bertolucci per lo spettacolo a qualunque costo. Questo penchant aveva a tal punto temperato L’ultimo imperatore che la mercantile Hollywood, senza riconoscere il frastuono maoista del film, gli diede nove Oscar.
Gli spettatori che credono che i film debbono essere facili e edificanti diranno di Kit e Port: che persone ordinarie. Ma quasi tutti i film di Bertolucci, da Prima della rivoluzione al Conformista, da Novecento all’Ultimo imperatore, sono grandi affreschi contenenti piccole anime sperdute. Grazie alla potenza degli interpreti, i Moresby prendono vita sullo schermo come non sono mai riusciti a fare davvero nel libro. Bertolucci guarda Malkovich, l’eminenza lucertolesca delle Relazioni pericolose, e pensa a Brando: “Sono due monoliti, invariati, assolutamente immobili – e condannati fin dal primo momento”. Winger, per troppi anni la grande attrice inutilizzata del cinema americano, è la perfetta incarnazione di una donna che deve essere un pezzo del bagaglio nel viaggio esistenziale di Port, poi una “Florence d’Arabia” che si occupa della sua malattia, poi il trofeo di una specie di principe straniero. “Uno può sempre sentire le rotelle della mente di Debra al lavoro”, dice Bertolucci con ammirazione. L’orrore del Tè nel deserto è che alla fine uno può vedere le rotelle della mente di Kit che vanno per conto loro. La bellezza del film è che esso in ultima analisi individua l’umanità di una coppia di coniugi in questo orrore.
Il tè nel deserto è un lungo e splendidamente modulato grido di disperazione. È quel genere di film romantico e cupo che solo Bertolucci poteva realizzare senza lasciare che il pubblico si ponga domande, nemmeno per un attimo, circa il ripiegamento dei personaggi su se stessi. Il fatto che essi non sembrino mai sciocchi o eccessivi si deve all’intensità del film stesso, tratto da Mark Peploe e Bertolucci dal romanzo di Paul Bowles. Se la pellicola avrà lo stesso impatto su chi non ha letto il romanzo, oppure no, è difficile a dirsi. Tutto sommato, è impossibile dimenticarsi di un romanzo vivido come Il tè nel deserto dopo averlo letto. Tuttavia, il film in qualche modo riesce a trovare degli equivalenti cinematografici della prosa di Bowles, nella quale paesaggi esteriori ed interiori sono evocati con la stessa elegante chiarezza espressiva. Il romanzo, per così dire, si aggira per le menti di Port, Kit e Tunner, e anche per quelle di alcuni degli anonimi e pragmatici africani che i tre incontrano nel loro viaggio verso l’interno. Il romanzo di per sé fa molto “immediato dopoguerra”, quando le storie di alienazione erano sul punto di diventare altrettanto di moda che il new look con cui Christian Dior ficcava le donne dentro gonne che virtualmente negavano l’esistenza delle gambe. Il vocabolario di Bowles evoca un altro genere di apocalisse chic. Il film di Bertolucci è stupefacente alla vista ma non è mai semplicemente pittoresco. È ipnotico. A un certo punto del romanzo, Bowles scrive a proposito di Port: “Ci vuole energia per affrontare la vita senza un significato, e al momento quell’energia mancava”. È una delle contraddizioni intrinseche a una simile invenzione che ci vogliano anche tremenda energia e capacità per scrivere un romanzo o girare un film su un così profondo tipo di isolamento. L’energia e la capacità di Bertolucci eguagliano quelle di Bowles.
Narrativamente più asciutto rispetto al romanzo di Bowles, Il tè nel deserto ripercorre le tracce segrete di Viaggio in Italia di Rossellini in una atmosfera onirica addormentata, quasi il viaggio nel treno, del sogno raccontato da Port, continuasse in un subconscio che occupa tutto l’arco del film. Lo stesso Bowles, testimone silenzioso, che parla solo attraverso il pensiero, nelle due sequenze all’inizio e alla fine, appare lo specchio segreto di una lettura ipnotica, una sorta di presentimento delle cose che accadono e di ciò che accadrà. Come in Viaggio in Italia , i personaggi si inscrivono in un paesaggio che riflette, in più punti di vista, il silenzio e il vuoto di situazioni incrociate, di parole non dette, di atti tenuti nascosti in un estraniante universo, soffocato da rumori, da nenie lontane. E dalla continua scoperta di una realtà esterna, violentemente turbata dai vari stati d’animo, che riflette una alienazione evidente.
Ci sono due anime di Bertolucci, due anime non discordi ma di segno diverso. Quella dell’autore di grandi affreschi evocativi di storia, Il conformista, Novecento, L’ultimo imperatore; e quella di un sensibilissimo poeta della crisi dell’io, Partner, Ultimo tango a Parigi, Il tè nel deserto.
Queste due anime si esprimono poi in un unico stile, una fluida movenza narrativa, talvolta trepida, esitante di fronte ai propri oggetti, così trepida da farci avvertiti del rischio di osservarli; talvolta rapinosa, e di tale evidenza da spingerci verso i paesaggi liberi dell’epica. Bertolucci ama Verdi, lo sappiamo; ma, se c’è un musicista cui la sua sensibilità, il suo stile mi fanno pensare, è Richard Strauss, le vaste campiture coloristiche, lo spazio sprofondato dei suoni, e insieme la sinuosità, la delicatezza dei dettagli che irrompono in primo piano così da determinare l’andamento di un ricchissimo e articolato strumentale.
Il tè nel deserto prende le mosse da un romanzo di Paul Bowles. C’è l’America di questo secondo dopoguerra, con la sua crisi latente ma crudele. Kit e Port, sposi da dieci anni, lasciano New York (magnifica la New York in bianco e nero che scorre sotto i titoli di testa) per il Marocco; con loro è un amico, Tunner, innamorato di Kit; insieme partiranno per il Sahara, in cerca di qualcosa che via via sfugge loro, e forse è lo stesso rimorso d’essere vivi, se Port si lascia morire di tifo, e Kit, disperata, si abbandona al nulla che il deserto le suggerisce. Kit si perde per una volontà tanto accanita quanto addolcita dalla malìa lieve, impalpabile, delle malattie dell’anima. Tunner la cercherà: lei gli sfuggirà con una mossa caparbia, suicida.
Bowles aveva raccontato la crisi dei rapporti amorosi, filtrandone la disfatta attraverso echi non dissimulati del Fitzgerald di Tenera è la notte. Il rapporto amoroso, per Bowles (che Bertolucci ha chiamato sullo schermo come testimone sapienziale dell’agire dei propri personaggi), non ha alcuna soluzione: è un confronto luttuoso, insensato. Bertolucci a suo modo va più in là, e sullo schermo proietta l’immagine di uno spavento cui non c’è rimedio, lo spavento che proviamo di fronte allo svelarsi di quella parte di noi che si fa arbitra del nostro stesso destino, e poi ci divora, ci annienta, ci distrugge.
C’è un momento in cui Kit e Port fanno l’amore su una rupe spalancata davanti al deserto, sono come sull’orlo dell’infinito: c’è lo spazio e non c’è il cielo, quel cielo che dovrebbe proteggerli, salvarli. L’amplesso stesso si arresta: è come se l’ombra del loro cuore dilagasse nella natura. L’amore che dovrebbe legarli non supera il limite dell’io di ciascuno di loro. Il viaggio in Africa è forse un naufragio dell’esotismo? Se Kit, Port e Tunner erano partiti da New York per sfuggire alle proprie angosce, accertano che il Sahara le mette a nudo ancora più ferocemente, fino a lasciar svanire la concretezza della loro persona. Mai, forse, in un film, un paesaggio è stato visto con altrettanta trainante foga interiore.
Ci sono film memorabili per il loro stile. Altri lo sono per la pienezza del sentimento di cui lo stile si anima. Il tè nel deserto è uno di questi. Non solo è per me — ripeto: per me — il più bel film di Bertolucci, ma anche uno dei più commossi e struggenti di tutta la storia del cinema. L’emozione si incarna in John Malkovich, un Port nobilissimo nei tratti, il corpo pieno di una forza compressa e straziata: c’è in lui la violenza di un Dioniso che fa oltraggio a se stesso. Debra Winger, i mutamenti fisici con cui ha reso romanzesca la sua Kit, è l’Arianna che patisce la folgore da cui il suo mito è cancellato, e quindi iscritto nei segni dolori, difficili dell’esistenza.
Allo stesso modo di Novecento, Il tè nel deserto è un altro film di Bertolucci il cui tempo in America è arrivato in ritardo. Fu solo un successo minore, e non piacque a molti critici che lo trovarono noioso e lo presero erroneamente per apolitico, come scrisse tra gli altri Claretta Micheletti Tonetti. Quanto a Pauline Kael, si lamentò del casting sbagliato e parlò a titolo di molti quando disse scherzando che i personaggi si avventuravano “in profondità nella monotonia”. La distribuzione in DVD Warner Home Video del tè nel deserto è del 2002, il che suggerisce una fiducia in migliori possibilità commerciali per il film dodici anni dopo. Perché potrebbero avere ragione e perché dovremmo prendere nuovamente in considerazione questo film? In primo luogo, dovremmo riconsiderarlo alla luce dell’opera completa e delle tecniche cinematografiche caratteristiche del suo autore. Il tè nel deserto comincia a sembrare più bertolucciano, per esempio, se ci concentriamo sul tema della reminiscenza come mezzo per commentare in realtà il presente. I suoi film successivi hanno anche posto sempre più delle domande circa il ruolo dell’arte nella società. In secondo luogo, il clima attuale è più ricettivo per altre questioni che Il tè nel deserto solleva. Alcune di queste erano in incubazione fin dalla pubblicazione del romanzo (nel 1990, Bertolucci disse, in una lunga intervista di Renato Leys, che il romanzo era “più avanti del suo tempo”), ma tali questioni oggi sembrano più urgenti e più comprensibili a livello di massa in un mondo post-11 settembre.
Molte recensioni dopo la prima del Tè nel deserto erano incerte e contraddittorie. A volte ciò celava un amore per il romanzo di Bowles che creava una barriera contro qualsiasi adattamento cinematografico. Il film è politico proprio nelle implicazioni della sua estetica. Così la discussione di Edward Said a proposito dell’orientalismo offre ancora una via per sposare cinematograficamente Oriente e Occidente nell’opera di Bertolucci. Il vocabolario filmico del regista italiano è basato sul pensiero occidentale. Fin dal Conformista, il mito della caverna di Platone, con le sue ombre illusorie, è stato la metafora visiva di base per Bertolucci. Ma le tecniche che egli ha usato per esprimere ciò si accordano meravigliosamente anche con la descrizione fatta da Said di come l’Oriente è servito da specchio all’Occidente sul piano estetico. Il tè nel deserto offre un linguaggio visivo comune di specchi, ombre e riflessi, persiane alla veneziana, riprese attraverso vetri o veli, e immagini tanto di cattura quanto di separazione mediante riprese attraverso sbarre, gabbie e reti.
Roger Ebert poi paragonò il film a Picnic a Hanging Rock (1975), dell’australiano Peter Weir, nel quale le donne bianche semplicemente scompaiono dentro il paesaggio. Il film di Weir è estremamente disturbante perché – quanto meno contro le convenzioni narrative dell’epoca – non viene mai data alcuna soluzione per la scomparsa delle studentesse dalla severa formazione rocciosa che stanno visitando. Questo vedere da vicino l’irrisolto inconoscibile fa sorgere il terrore. Per noi americani, l’11 settembre ha reso questo terrore esplicito e apocalittico, e ha fornito una motivazione per districare le nostre illusioni e il nostro “orientalismo”. Così, Il tè nel deserto può oggi interessare e appassionare in un modo nuovo il pubblico americano, che può essere disposto a sopportare un certo grado di difficoltà senza tanta “noia”, o senza l’atteggiamento difensivo sotteso a essa.
Port e Kit si amano, ma sanno che non riusciranno più ad essere felici insieme. Amarsi senza felicità… L’amore come ricatto che unisce due persone per sempre, nella consapevole assenza della felicità. Due persone si amano, si adorano, ma sono infelici. Non riescono a vivere l’amore in quanto amore, ma soltanto come qualcosa di orribilmente conflittuale e di molto molto triste. Il loro viaggio attraverso il deserto, per cercare di ricostruire un rapporto che si è frantumato in mille pezzi, è parallelo al viaggio che fanno dentro se stessi per ricostruire le proprie identità perse nella osmosi coniugale, nel continuo rispecchiarsi uno nell’altro. Oggi, se mi guardo intorno, vedo molte, tante persone così…
Quando mi resi conto che mi stavano riprendendo nella stessa scena con i miei due protagonisti Port e Kit pensai: “Che faccio qui? Non ho alcun diritto di essere qui. Io non esisto. Sto rovinando la scena con la mia presenza”. Il film comincia. I personaggi che stanno per comparire e le azioni che stanno per seguire esistevano già nella mente di quest’uomo da parecchi anni. Ora egli osserva queste idee incarnarsi in veri esseri umani, con delle facce e dei corpi, e li osserva intraprendere il loro viaggio predestinato, quasi nel vago desiderio di poterli in qualche modo avvisare. Ma per fare ciò egli dovrebbe prima esistere. Se ciò fosse possibile, ed egli esistesse veramente, l’avvertimento non avrebbe effetto; il viaggio deve essere fatto perché egli all’inizio aveva deciso che loro dovevano farlo. Essi sono programmati per farlo: questa programmazione costituisce la loro essenza. Non è consolante per lui sapere che non esistono; ha programmato la loro sofferenza e ora essi esistono: è lui che non esiste. Una volta comprese le ragioni del mio essere lì, ho capito quanto fosse brillante l’idea del mio regista: mostrare l’autore mentre osserva i suoi protagonisti compiere i gesti che lui aveva studiato per loro. A uno scrittore non capita spesso questo privilegio.
Sul set, Bernardo si mostra animato, caloroso, eccitato, entusiasta. Quando qualcosa lo disturba, è anche capace di rabbia – una “rabbia fredda” però –, ma per la maggior parte del tempo sembra felice. Eppure non ha mai un entusiasmo da cheerleader, è una persona troppo cupa per questo. Ricordo la scena in cui il mio personaggio, ormai alle soglie della morte, riceve un’iniezione di morfina per alleviare le sue sofferenze. Anche se diventa sempre più difficile oggi far sentire qualunque cosa a chiunque, credo che questa scena sia molto forte. Subito dopo averla girata, stranamente Bernardo stava malissimo. Una reazione di quasi disperazione. La scena l’aveva proprio sconvolto. Pensò addirittura di tagliarla al montaggio, a causa del dolore che gli comunicava. Il mio punto di vista era ovviamente all’opposto.
Lessi Il tè nel deserto nel 1964 e riconobbi immediatamente il mondo che descriveva. Cinque anni dopo, quando smisi di girare documentari e decisi di scrivere una sceneggiatura, questo era il romanzo che volevo adattare. Ma Robert Aldrich ne possedeva i diritti e non se ne voleva separare; così scrissi un’altra storia intitolata Professione reporter, che inizia con un uomo che muore nel deserto e un altro che ne assume l’identità e ne eredita il viaggio. La vita è un road movie, un film sulla strada.
Il problema di adattare il romanzo di Bowles in una sceneggiatura per Bertolucci, di essere una specie di intermediario filmico per due artisti così particolari (così come tra loro e la Warner Bros) si rivelò altrettanto difficile quanto l’avevo immaginato; frustrante e affascinante al tempo stesso. Certi compiti possono essere impossibili, ma noi viviamo per provarci. Nella sceneggiatura cercai di seguire alcune semplici idee. Il 1947; l’ultimo mese di un matrimonio dodecennale; un pesante senso di “suspense” alla Hitchcock: tre personaggi, poi due, poi solo uno…
Per Il tè nel deserto sono stato influenzato da Mahler, in modo particolare dalla Quinta sinfonia (quarto movimento), la più famosa. Anche se, pur in misura minore, faccio riferimento a Verdi, a Wagner, ecc. Ma il mio background è costituito essenzialmente dalla musica impressionista francese. Tuttavia, non credo di avere dei modelli veri e propri: quando scrivo una colonna sonora cerco soltanto di seguire il film. In questo caso è stato Bertolucci a invitarmi a riprodurre la sonorità degli archi, in particolare dei violini, impegnati in note acutissime e prolungati crescendo.
Il tè nel deserto arrivò a suggerirmi una nuova e più approfondita indagine figurativa sui due elementi fondamentali della vita: l’Uomo e la Donna, attraverso i vari stati luminosi e cromatici guidati dal percorso del Sole e della Luna. La prima parte del film, solare, dai colori rosso-arancio-giallo, seguiva l’evolversi della storia personale di Port, dall’alba al tramonto della sua vita. Invece la seconda, lunare, dai colori azzurro-indaco-violetto, seguiva l’evolversi della storia di Kit, dal primo quarto al plenilunio.
Quello con Paul Bowles è stato un incontro profondo. Credo abbia visto in me qualcosa di sua moglie, Jane, che gli ha ispirato la Kit del romanzo. C’era sul set chi diceva che si era innamorato di me. Nonostante la forte differenza d’età. Può darsi. L’importante non è il nome, l’età o il sesso. Ciò che conta è quello che si sente. Le nostre vere “lettere d’amore” sono cominciate alla fine delle riprese, quando ho lasciato Tangeri. Paul scrive come un uomo che si è arreso alla vita, ma che ha il dono di giocare con ogni secondo che passa: a volte usa frasi piene di humour, gioca a confondermi con Jane… Mi ha anche fatto avere delle poesie e dei racconti inediti suoi e di Jane. Paul è un ladro… tra i racconti mai pubblicati di lei, uno è l’esatta storia di ciò che accade ai protagonisti del Tè nel deserto. Lei aveva già scritto in quattro pagine il romanzo di Paul. Lui però non me l’ha nascosto.