Primo Spaggiari – L’unica cosa che conta è che Giovanni è tornato vivo e che sta bene… Il compito di scoprire la verità sull’enigma di questo figlio, rapito, morto e resuscitato lo lascio a voi. Io preferisco non saperla.
Dal tetto del prosciuttificio, l’industriale parmigiano Primo Spaggiari assiste, impotente, al rapimento del figlio Giovanni. Giorni dopo, mentre le ricerche della polizia sono bloccate, apprende da Adelfo, un suo impiegato prete-operaio (confessore, tra l’altro, di uno dei rapitori) che l’ostaggio avrebbe accidentalmente perso la vita nel corso dell’operazione. Sentendosi incapace di dare la terribile notizia alla moglie Barbara, Primo decide contro ogni aspettativa di andare avanti come se niente fosse: farà finta di pagare il riscatto, recuperandolo poi mediante una truffa destinata almeno a salvare la fabbrica (che all’insaputa di tutti è sull’orlo del fallimento).
Nel frattempo, viene pure fuori da un’indagine parallela condotta dai servizi dell’antiterrorismo di Milano che Giovanni, noto come “simpatizzante ideale” di certi gruppi radicali, potrebbe essere stato complice dei rapitori, al fine di colpire il proprio padre padrone… Nonostante la confusione, il piano è eseguito come previsto dall’industriale, con l’indispensabile complicità di Adelfo e Laura, quest’ultima operaia e studentessa universitaria, nonché ragazza segreta di Giovanni. La condizione imposta a Primo è che accetti la proposta dei due giovani di trasformare la Spaggiari S.p.A. in una cooperativa, della quale resterà comunque “presidente a vita”. Sistemato questo dettaglio decisivo, ecco riapparire Giovanni, letteralmente caduto dal cielo, senza la minima spiegazione, ma sano e salvo, lasciando ai soli spettatori l’arduo compito di fare luce sul “miracolo” appena avvenuto.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci
(Technicolor, 35mm, 1.85:1) Carlo Di Palma; operatori Massimo Di Venanzo, Michele Picciaredda
Gianni Silvestri; arredamento Luigi Urbani, con Beatrice Caracciolo, Amedeo Brogli
Lina Nerli Taviani
Gabriella Cristiani, con Fiorella Amico Giovanelli, Elvio Sordoni
Ennio Morricone; brani da Il trovatore, La traviata, Rigoletto e Il ballo in maschera di Giuseppe Verdi; Barcarolle dai Racconti di Hoffman di Jacques Offenbach; canzoni Rock’n Roll Is Good for the Soul di Burt Blanca (cover interpretata dai Boppers, Horror Movies di Tony Todd interpretata da Linda and The Dark
(mono) Mario Dallimonti; missaggio Fausto Ancillai
Antonio Gabrielli con Fiorella Infascelli
Suzanne Durrenberger
Angelo Novi
Ugo Tognazzi (Primo Spaggiari), Anouk Aimée (Barbara Spaggiari), Ricky Tognazzi (Giovanni Spaggiari), Laura Morante (Laura), Victor Cavallo (Adelfo), Vittorio Caprioli (maresciallo Angrisani), Renato Salvatori (colonnello Macchi), Olimpia Carlisi (veggente), Antonio Trevisi [n.a.] (direttore della banca), Margherita Chiari (domestica), Gaetano Ferrari (guardiano), Sante Bianchi [n.a.] (potatore), Giuseppe Calzolari [n.a.] (sosia di Humphrey Bogart), Piero Longari Ponzone (Barone), Angelo Novi, Gianni Migliavacca e Ennio Ferrari [n.a.] (altri strozzini), i musicisti del Concerto Cantoni di Busseto; scene eliminate dal montaggio definitivo Don Backy (ufficiale di traffico), Cosimo Cinieri (magistrato)
Giovanni Bertolucci per la Fiction cinematografica S.p.A. (Roma) / Alan Ladd Jr per The Ladd Company (Los Angeles); direttore di produzione Augusto Mirabelli; organizzatore generale Mario Di Biase
Warner
116′
Parma, dintorni di Langhirano, Torrechiara, Roma (Studi Cine International); novembre 1980-gennaio 1981
1° ottobre 1981
Ormai quarantenne, Bernardo Bertolucci passa risolutamente dalla parte dei “padri” che si confrontano con l’indecifrabilità della generazione dei figli. In tal senso, La tragedia di un uomo ridicolo appare assai speculare rispetto al non meno onirico e labirintico Strategia del ragno. La sceneggiatura, scritta da solo e interamente alla prima persona dallo stesso regista “tra mezzanotte e le cinque di mattina”, ha dato luogo a una delle opere più intime del regista; quasi un oggetto di culto per gli happy few, con un inedito Ugo Tognazzi (giustamente premiato a Cannes nel ruolo, sospeso tra dramma e commedia, di un ipotetico nipote del personaggio di Olmo in Novecento).
Per chi ricorda questa definizione del Grande sonno di Howard Hawks data in illo tempore dallo storico Georges Sadoul — “un incubo raccontato da un ubriacone” —, La tragedia di un uomo ridicolo altro non risulta che un improbabile “film noir alla parmigiana”, in cui, mutatis mutandis, si esprimono fra le righe i sensi di colpa di un uomo di successo di fama internazionale quale era diventato il nostro maestro da un bel po’ di anni. Così, il realismo magico bertolucciano sbircia un’altra volta dalle parti di Buñuel, ma anche dell’Antonioni di Blow-Up o di Zabriskie Point, anticipando per altro verso l’atmosfera strampalata di certe pellicole di Bertrand Blier e di Almodóvar, o di Mia dolce assassina di Claude Miller, o ancora di Eyes Wide Shut di Kubrick, tutti realizzati sotto il segno del travaso continuo dell’inconscio nella vera vita.
L’indisponibilità di Storaro (impegnato con Coppola sul set di Uno sogno lungo un giorno) porta Bertolucci a ripiegare su Carlo Di Palma, mentre il loro comune riferimento alla profondità di campo tipica dei quadri di Edward Hopper fa da contrappunto alla poca limpidezza della realtà vissuta negli anni di piombo. Malgrado l’apprezzamento eccezionalmente unanime (o quasi) della critica più esigente, la spericolatezza delle scelte artistiche messe qui in atto dall’autore, fallirà però nel convincere il grande pubblico. [F.G.]
Bernardo Bertolucci ha lasciato inspiegabilmente freddi tutti, critica e pubblico, nonostante il suo film sia stupendamente girato, raggiunga momenti emotivi, sia ben interpretato, ben fotografato e soprattutto disponga di una sceneggiatura non invereconda. Fa un film sul presente, come L’uomo di ferro di Wajda. Ma assolutamente irreale, a differenza di Wajda. C’è più dell’Italia di oggi però, anche nelle strette recitative di Vittorio Caprioli e della Morante, che in tutte le annate di Panorama e dell’Espresso lette e studiate sciaguratamente da Rosi per Tre fratelli. Abbiamo l’impressione di trovarci di fronte a un testo davvero importante.
Abbiamo avuto il sentimento, vedendo La tragedia di un uomo ridicolo, di passare accanto a un film al quale tanto il pubblico quanto la critica non hanno forse dato tutte le sue possibilità, come se il contesto del festival accogliesse male questo film (proiettato lo stesso giorno dell’Uomo di ferro di Wajda, i cui effetti sul pubblico stanno agli antipodi del nuovo Bertolucci) paracadutato in mezzo a una programmazione spesso obsoleta sul piano artistico. Il fatto è che La tragedia è tipicamente moderno e si aggira attraverso i meandri e i rischi di una scrittura visiva tutta sua, che si riallaccia alla vena di Partner. Se il film ha deluso in qualche modo — era attesissimo da tutti, e per quanto mi riguarda ci vorrà una seconda visione, a mente fredda, per consolidare il mio giudizio —, è perché risulta un film arido, dalla scrittura e dalla mise en scène serrate, con una prima mezzora virtuosistica nell’esposizione degli elementi della sceneggiatura, dei personaggi, del décor di questo caseificio dell’Emilia-Romagna. Fin dall’inizio l’atmosfera è soffocante, centrata sul personaggio di Tognazzi, in preda a una carenza attorno alla quale si organizza il fondo dostoevskijano del film. (Il titolo si rifà a un racconto dello scrittore che confesso di non aver letto: un uomo vive in preda al gioco – mezzo comico, mezzo tragico – con la sua “maschera”, l’alter ego che lo osserva e il cui sguardo interno/esterno un po’ paranoico gli rimanda un’immagine di se stesso, e a se stesso, ridicola).
La tragedia di un uomo ridicolo è forse un’opera meno perfetta della Luna: è vero che il film ha degli slittamenti, che si perde, che passa senza accorgersene da un racconto “in prosa” a uno scioglimento poetico e irreale; però il film è — per me — tra i più avvincenti del festival, un film completamente bertolucciano e completamente nuovo, nel quale Tognazzi incarna uno dei personaggi più compiuti del suo regista.
I festival, lo si verifica qui per l’ennesima volta, non sono propizi alle opere disturbanti, innovatrici, che non rientrano in un quadro preciso. Come spiegare altrimenti l’incomprensione totale di cui è stato vittima Bertolucci, che rompeva con un’immagine di se stesso troppo scontata? Noi non dubitiamo che il processo celebrato alla sua Tragedia di un uomo ridicolo, opera dissonante, intrigante, sconcertante (ma che piacere essere sconcertati, quando tante pellicole sono così prevedibili!), sarà un giorno vinto in appello.
Una delle accuse ricorrenti che la critica ha mosso alla Tragedia di un uomo ridicolo è stata quella di una storia che, per essere un giallo, è molto confusa. Si tratta di un rapimento a scopo di estorsione o di un auto-rapimento connesso alla militanza nelle file del terrorismo? In effetti, il giallo legato al rapimento e alla liberazione finale del figlio dell’industrialotto caseario Primo Spaggiari rimane avvolto nel mistero. Ma queste domande, per quanto lecite, mi sembra che interroghino il film da una prospettiva molto marginale. Il film infatti non si riconosce a pieno titolo nel genere giallo, anche se da questo riprende, come dire?, alcuni tic strumentali e tematici. (E se anche vi si riconoscesse pienamente, quante domande lascia inevase, a proposito della linearità della narrazione e del movente delle azioni, un’indimenticabile giallo come Il grande sonno?) Più che di un giallo sembra si tratti di un sogno. E del sogno la storia riflette incongruenze, ellissi, ambiguità, sconnessioni, accostamenti, flussi semantici sparpagliati, dati di sapere che non configurano un quadro organico e compatto. È tutto un sogno, a tratti un incubo, ma incredibilmente reale.
La voce fuoricampo del protagonista, nel poliziesco americano, era la descrizione di incubi e meandri sconcertanti, ma anche la certezza (per lo spettatore-ascoltatore) di essere portati per mano a un sicuro scioglimento, come lungo un continuo flashback psicologico che inizia comunque dal luogo privilegiato (il fuoricampo) da cui proviene la voce che si sovrappone e che sa. Qui il fuoricampo è un commento mormorante che segue passo passo, senza alcuna presupponenza, l’azione cieca del protagonista. Non fosse per le malizie bertolucciane (e per il modo in cui l’ambiguità, oltre a esserci, viene dichiarata e enunciata) sarebbe la semplicità enigmatica delle parabole evangeliche la cifra narrativa del film. Ma La tragedia di un uomo ridicolo è tutto un continuo mescolarsi di toni in un generale disagio dolce amaro dove il punto di vista del piccolo industriale Tognazzi è talmente parziale da dover essere chiuso alla fine in un mascherino, una piccolissima parte di schermo, beffarda e tenera.
Dotato di un fecondo talento visivo, Bertolucci non dà riconferme ma una dimostrazione di maturità. V’è nella Tragedia di un uomo ridicolo la rinuncia a sfiorare la corda lirica a lui congeniale, e uno stile che è nuovo in quanto sobrio, compatto e corposo, insensibile all’adescamento dei frammenti antologici in cui l’estro artistico si leva a quote elevate ma episodicamente. In nessuna trancia del film si avverte la presenza della macchina da presa, come se il regista si fosse definitivamente disgiunto da quel “cinema di poesia”, teorizzato da Pasolini e convertito alle misure della prosa cinematografica. In verità, il film e i suoi elementi costitutivi non sono squadrati così schematicamente e La tragedia di un uomo ridicolo è il contrario del semi-fallimento che alcuni critici vi hanno ravvisato. La nostra sensazione è che Bertolucci, chiuso con La Luna il ciclo inaugurato dal Conformista, stia entrando in una terza fase della sua carriera, contraddistinta da un’ispirazione più disciplinata e da un lavoro più di cesello sui personaggi.
Sensibile, per una volta, alle critiche, Bertolucci ha mutato qualcosa rispetto alla prima edizione: ha sforbiciato qua e là per alleggerire e soprattutto ha dato al protagonista una voce interiore che a mo’ di commento off non chiarisce l’oscurità del finale, ma addirittura la istituzionalizza. Dà invece maggiore spessore psicologico all’”uomo ridicolo”, che appare ora ancora più consapevole della propria ridicolaggine. È ora di spiegare che l’aggettivo non ha per Bertolucci il significato che si può trovare sui dizionari, esattamente come l’”Idiota” per Dostoevskij. Tognazzi-Spaggiari è ridicolo in quanto tragico e consapevole della propria impotenza a capire, lui che credeva di non avere più nulla da imparare dalla vita. Più che un film sul terrorismo è un film sui rapporti (impossibili?) fra vecchi e giovani, fra padri e figli: allievo ed amico di Pasolini, Bertolucci deve aver letto e riletto Affabulazione, l’ultimo e più denso testo teatrale del poeta di Casarsa.
Tutto è relativo in questa storia di rapimento e di rapporti sociali. Chi è chi? Chi guarda che cosa? Dov’è il padre? il figlio? e lo spirito? E non sta tutto in questo “uno”: un padre che dubita di se stesso, un figlio di cui dubita il regista, al punto di non mostrarcelo — in extremis — che come un’apparizione, come un sentimento di estraneità dei corpi, di incertezza? Che folle ricerca dell’impossibile, che paranoia d’artista! È qualcosa che finora solo un romanziere era stato capace di portare a buon fine (a parte Welles nella Signora di Shanghai): infilarsi nella pelle di un altro per descrivere il mondo, costruire uno spostamento obliquo del reale – pur parlando di sé. Quanto allo stile, questo film è realizzato in modo straordinario; non assomiglia a niente di già conosciuto.
È significativo che proprio nella rinuncia a “capire”, a ridurre le categorie dell’oggi entro schemi che vanno stretti, Bertolucci ritrovi la sua vena migliore: quella di fine descrittore, di narratore disincantato che si attacca alla corporalità degli uomini e delle cose scavandone nel vissuto, nella memoria, con finezza di tocco. La tragedia di un uomo ridicolo è la splendida presa di coscienza di una complessità, dell’ardua interpretazione della realtà italiana, nei modi di una scrittura che ha tutte le sconnessioni e le incongruenze di un’avventura onirica. A darle corpo, tra la trasognata incredulità e la fisicità goffa e impacciata, è un Tognazzi di rara bravura che la congenialità del ruolo non riesce a sminuire. Il perfetto ritratto del protagonista e la suggestiva resa di luoghi e di volti della sonnacchiosa provincia parmense fanno perdonare a Bertolucci l’eccessivo didascalismo e l’inverosimiglianza di alcuni personaggi. Il finale poi è un pezzo di cinema straordinario: la macchina da presa sembra per un attimo ricomporre le fila della vicenda. Ma il venir meno delle voci e la chiusura a iride su Tognazzi che torna a casa solitario ci invitano a riflettere sull’ineffabilità di un destino comune.
Alcune scene non trovano senso finché il film non è finito da un pezzo. C’è un bel momento misterioso quando l’agitato Primo torna a casa nel bel mezzo della giornata e trova le due cameriere che si dimenano al rock’n’roll sparato dalla radio, nella convinzione che la casa sia vuota. Il maresciallo, che sospetta chiunque di complicità, a un certo punto se la prende con Primo e lo chiama un “buco nero”. La sequenza in cui Primo e Barbara portano nei boschi una valigia piena di soldi, da lasciare per i rapitori, confonde del tutto. In momenti come questo, non è certo un aiuto che i sottotitoli inglesi non siano un granché: “Occulcate (sic) the bag”, dice Barbara a Primo, riferendosi alla valigia. La tragedia di un uomo ridicolo, comunque, si fissa nella memoria. Questo è il film più soddisfacente, più corroborante di Bertolucci fin da Ultimo tango.
Bertolucci ritiene che l’esperienza traumatica delle Brigate Rosse abbia cambiato il carattere italiano. La gente non è più tanto aperta, volubile e comunicativa com’era una volta. C’è più scetticismo e più sospetto. Questo non è il familiare effetto di alienazione illustrato vent’anni fa nell’Avventura di Antonioni, ma qualcosa di più insidioso, un rapido sguardo scaltro, furtivo, imperscrutabile, disimpegnato, che scivola attraverso lo schermo da un personaggio a un altro. La conclusione è miracolosa, qualcosa che viene dalla Bibbia attraverso Pasolini, ma con un lirismo più controllato, e una mondanità sorprendentemente ingentilita. La tragedia di un uomo ridicolo è il miglior film di Bertolucci che io abbia visto da molto tempo, e la miglior trattazione della barriera generazionale tra padre e figlio che io abbia visto finora.
Molti spettatori sicuramente ne saranno irritati — Ma che diavolo significa? —, però si spera che i più contemplativi di loro verranno stimolati da certe volute ambiguità a fare i conti con quella realtà della vita di un uomo che è stata loro offerta nelle due ore precedenti. Il mistero in ciascuna vita umana è infinito; pochi però sono i registi che per ritrarlo hanno il coraggio di rischiare il risentimento dello spettatore. È proprio quello che Bertolucci ha fatto qui, in una stupefacente collaborazione con Ugo Tognazzi. Si è imbarcato in un sentiero estremo ma di grande ricchezza artistica, ed è una meraviglia da vedere.
Insomma, nella terra di Guareschi l’acqua del Po si è parecchio intorbidita dall’epoca semplicistica di Peppone e don Camillo; e una sorpresa finale non basta a far luce piena sull’intrigo. Bertolucci, dopo un inizio cinematografico geniale (Spaggiari che dal tetto dello stabilimento, con un potente binocolo, è casuale e impotente testimone del rapimento), si conferma un regista spesso appesantito di zavorra culturalistica e poco adatto a muoversi con agilità e naturalezza fra le pieghe di un racconto realistico e quindi obbligato a rispettare una certa logica e verosimiglianza di comportamenti. Sotto questo profilo la sceneggiatura è seminata di incongruenze e di punti interrogativi che rendono la narrazione impacciata e faticosa, mentre il dialogo alterna cose intelligenti a banalità e a battute esecrande di sapore tardo-sessantottesco come l’impagabile “Siamo proletari in apnea sotto la superficie liquida della Storia”, meritevole di un eventuale premio Reader’s In-digest.
Nel suo primo montaggio il film durava 3 ore e 15’; poi è diventato di 2 ore e 40’; adesso è di un’ora e 55’. In una di queste versioni, seguivamo Tognazzi mentre tornava a casa per prendere lo champagne; attraversava la strada e veniva investito da un camion. L’autista si fermava, scendeva dal camion per vedere che cosa era rimasto di Ugo, ma non c’era alcun cadavere; allora l’autista, assolutamente terrorizzato, risaliva sul camion e si dava alla fuga. A questo punto ritrovavamo Ugo in ufficio, che finiva di sognare – “Aaah!“, – prima di svegliarsi del tutto! Era un altro finale. I miei film, di solito li lascio andare da soli, ma qui ho pensato che dopo la sequenza della balera, dove l’emozione era così forte con la resurrezione di Giovanni, non c’era più bisogno di proseguire.
Nella Tragedia di un uomo ridicolo, Bertolucci ha fatto degli interni/esterni che prima non faceva, anche perché non poteva farli, dato che Storaro fa una fotografia diversa. Quando andai a parlare del film con lui mi portai dietro un libro di Edward Hopper che volevo mostrargli, e lui aveva sul tavolo lo stesso libro. Da quel momento si è stabilita un’intesa fra di noi, avevo già intuito quello che cercava di trasmettermi, non c’era neanche bisogno di parlarne. Le sceneggiature di un certo livello sono dei libri, non ci sono mai indicazioni sui movimenti di macchina o sulle inquadrature… Si sente che il mezzo tecnico fa parte del racconto, ma sta a te intuire come, quale lente, quale obiettivo, che atmosfera o che stile devi usare, se deve essere tutto inciso, eccetera. Così nella Tragedia tutto ha un certo tono, abbastanza violento: la notte è incisa, il giorno pure, i colori sono tre, ma molto forti, molto carichi.