Alfredo – Signorina, lo sa che siamo gemelli? Diglielo, Olmo! Facciamo sempre a metà noi due. Quel che è suo è mio, e quel che è mio… è mio anche quello!
Mezzo secolo di storia d’Italia tramite i destini paralleli di Olmo Dalcò e Alfredo Berlinghieri, da quella mattina dell’anno 1900 in cui il bastardo del clan dei mezzadri e il rampollo del padrone nascono nella stessa corte della Bassa Padana, fino al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione.
In questo lasso di tempo, sia pure appartenenti a classi opposte, i due “fratelli di latte” crescono insieme, conoscono gli inizi della meccanizzazione del lavoro agricolo, perdono i nonni amatissimi, attraversano il lungo sciopero del 1908 e i disastri della Grande Guerra, poi prendono moglie, mentre la borghesia agraria, sentendosi sempre più minacciata dall’organizzarsi dei “dannati della terra”, sulla scia della rivoluzione russa, aiuta il fascismo nascente a conquistare il potere al fine di difendere ad ogni costo la perennità dei suoi interessi, in quanto casta dominante. È l’inizio del Ventennio nero.
Odiato dal fattore Attila, squadrista della prima ora, Olmo, che è rimasto vedovo della maestrina socialista Anita, morta di parto alla nascita della loro figlia, si ritrova costretto a fare il norcino itinerante e proseguirà clandestinamente la lotta per la giustizia sociale. Alfredo, dimostrandosi incapace di reagire con la dovuta fermezza ai soprusi dell’ordine nuovo e alla ferocia crescente dei tempi, diventerà a poco a poco l’ombra di se stesso, soprattutto dopo la partenza della bella sposa, Ada, il cui naufragio nell’alcolismo altro non è forse che il segno di un’acuta lucidità sul corso delle cose, alla vigilia di un altro spietato conflitto mondiale.
Tornano a galla sullo schermo le prime immagini della caduta del nazifascismo, nel ’45, seguite questa volta dal ritorno a casa di Olmo, insieme alle rondini, dalla rabbia vendicatrice e l’esuberanza dei contadini, e infine dall’utopistico processo popolare al padrone improvvisato nell’aia. I padroni però se la cavano sempre — lo ribadisce l’ultima battuta del film —, così come, diversi decenni dopo, fallirà anche il suicido di Alfredo, ormai vecchissimo e stanchissimo, nella vertigine temporale dell’inquadratura finale, dove ridiventa inaspettatamente bambino, sdraiato per lungo tra i binari del treno rosso di una volta. Quasi a dire, in sostanza, che l’esatta storia che abbiamo appena visto potrebbe ricominciare e ripetersi all’infinito, almeno dal 1908 in poi.
Un film “trionfalista”? Davvero?
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci, Giuseppe Bertolucci e Franco Arcalli
(Technicolor, 35 mm, 1,85:1) Vittorio Storaro; operatori Enrico Umetelli, Enzo Tosi, con Mauro Marchetti, Guido Alberti
Ezio Frigerio, con Mauro Pagano, Maria Paola Maino, Gianni Quaranta; arredamento Maria Paola Maino, con Gianni Silvestri
Gitt Magrini, con Vittoria Guaita
Franco Arcalli, con Gabriella Cristiani, Elvio Sordoni, Ugo De Rossi, Rosemarie Ruddies
Ennio Morricone; canzoni Chi è più felice di me? (1937) di Cesare A. Bixio, Era de maggio (1885) di Salvatore Di Giacomo e Mario Pasquale Costa interpretata da Mirna Doris, La lega cantato nel film da Stefania Sandrelli insieme alle altre contadine ribelle della San Martino, O Gorizia (versione all’armonica), Quando “Bandiera Rossa” si cantava, Il cacciatore nel bosco eseguita dal Duo di Piadena, e altri canti popolari della Bassa Padana
(mono, in presa diretta) Giuliano Maielli, con Decio Trani; missaggio Fausto Ancillai
Gabriele Polverosi, Clare Peploe, Peter Shepherd, Giuseppe Bertolucci [n.a.], con Massimo Arcalli, Giovanni Soldati, Claudio Taddei
Suzanne Durrenberger (ufficialmente accreditata come aiuto regista)
Angelo Novi
Il Quarto Stato (1901) di Giuseppe Pelizza da Volpedo
Robert De Niro (Alfredo Berlinghieri), Gérard Depardieu (Olmo Dalcò), Stefania Sandrelli (Anita), Dominique Sanda (Ada), Burt Lancaster (Alfredo Berlinghieri Sr), Sterling Hayden (Leo Dalcò), Romolo Valli (Giovanni Berlinghieri), Werner Bruhns (Ottavio Berlinghieri), Laura Betti (Regina), Donald Sutherland (Attila), Francesca Bertini (suor Desolata), Maria Monti (Rosina, madre di Olmo), Anna Maria Gherardi (Eleonora, madre di Alfredo), Ellen Schwiers (Amelia, madre di Regina), Roberto Maccanti (Olmo bambino), Paolo Pavesi (Alfredo bambino), Giacomo Rizzo (“Rigoletto”), Antonio Piovanelli (Turo Dalcò), Demesio Lusardi (Demesio Dalcò), Paolo Branco (Orso Dalcò), Odoardo Dall’Aglio (Oreste Dalcò), Liù Bosisio (Nella Dalcò), Sante Bianchi [n.a.] (“Montanaro” Dalcò), Paola Medici [n.a.] (Irma, la contadinotta che “munge il toro”), Tiziana Senatore [n.a.] (Regina bambina), Gianpiero Fraccari [n.a.] (il piccolo Patrizio), Pippo Campanini (il prete, Don Tarcisio), Alida Valli (Signora Pioppi), Piero Longari Ponzone (Signor Pioppi), José Quaglio (Avanzini), Allen Midgette [n.a.] (vagabondo), Stefania Casini (Neve, la lavandaia epilettica), Anna Henkel (Anita Jr, la figlia adulta di Olmo), Girò Lazzari [n.a.] (il partigiano “Tigre”), Gabriella Cristiani [n.a] (Stella) , Clara Colosimo (donna in pelliccia che accusa Olmo), Carlotta Barilli (donna con forcone del 25 Aprile), Fabio Garriba e Nazzareno Natale (contadini all’esecuzione di Attila), Salvatore Mureddu [n.a.] (capitano della Guardia Regia), Angelo Pellegrino (sarto), Vittorio Fanfoni, Mimmo Poli e Sergio Serafini (fascisti), Gregorio Simili [n.a.] (spacciatore in camicia nera), Piero Vida (mercante di cavalli), Katerina Kosak (“Rondine”), Irene Bianchi [n.a.] (la domestica dei Berlinghieri), Bianca Grieco [n.a.] (cameriera di Ada), Antonio Maestri [n.a.] (anziano carbonaio), Gino Mariolo [n.a.] (giovane carbonaio), Francesco D’Adda [n.a.] (soldato sul treno), Mario Meniconi (oste), Winni Riva, Edda Ferronao, Patrizia De Clara, Alessandro Bosio, e i membri del Gruppo Ocarinistico di Budrio e del Concerto Cantoni di Busseto; voci italiane Ferruccio Amendola (Alfredo), Claudio Volonté (Olmo), Rita Savagnone (Ada), Giuseppe Rinaldi (Alfredo Sr), Renato Mori (Leo Dalcò), Antonio Guidi (Attila)
Alberto Grimaldi per la PEA [Produzioni Europee Associate] S.p.A. / Les Productions Artistes Associés S.A. / Artemis Film GmbH; direttori di produzione Giuseppe Banchelli, Paolo De Andreis, Silvano Spoletini, con Augusto Mirabelli e Alessandro Mattei; organizzazione generale Mario Di Biase
PEA
317′ (Atto I: 162’, Atto II: 154’) / edizioni USA 245’ (official 1977 release) / 311’ (NTSC 1993 non color-corrected videocassette) / circa 308’ (2006 Paramount Zone 1 color-corrected DVD)
Dintorni di Parma, Reggio Emilia, Mantova e Modena, nonché Cinecittà: Corte delle Piacentine e Villa Longari Ponzone a Roncole Verdi (Busseto), Centro termale Berzieri a Salsomaggiore Terme / Santuario delle Grazie a Curtatone / Via Garibaldi e Piazza Mazzini a Guastalla / Villa Cazzaniga Donnesmondi presso Suzzara, Vecchio cimitero di Poggio Rusco / Villa San Donnino a San Donnino; luglio 1974-maggio 1975, poi luglio-settembre 1975
3 settembre 1976 (I), 20 settembre 1976 (II)
20th Century Fox, Paramount Pictures, Istituto Luce — Cinecittà e Cineteca di Bologna, con la collaborazione di Alberto Grimaldi e il sostegno di Massimo Sordella, presso il laboratorio L’Immagine Ritrovata, 2017
Con l’inatteso successo di cassetta internazionale di Ultimo tango a Parigi, tutte le porte si aprono da un giorno all’altro a Bertolucci al punto che, fatto eccezionale negli annali della 7a Arte, tre majors — Paramount, Fox e United Artists — decidono di unirsi, dandogli carta bianca per qualsiasi suo nuovo progetto. Al termine di una lavorazione durata quasi un anno verrà alla luce una specie di poema epico apertamente ideologico, sviluppato nel contesto politico italiano del “compromesso storico”. In altre parole, un kolossal d’autore costruito tutto attorno a protagonisti archetipici, che si rifà in uguale misura ai codici hollywoodiani di Victor Fleming, George Stevens o Douglas Sirk e ai pionieri della Mosfilm (Ejzenštejn, Pudovkin, Dovženko, Vertov…), memore inoltre delle lezioni di Verdi, di Shakespeare, di Brecht, nonché del cinéma-vérité. Così il regista concepisce Novecento quale un “monumento spudorato a tutte le contraddizioni del sistema” — ma non solo del sistema —, ideato già nel 1970 in dialogo con i primissimi Scritti corsari di Pasolini, cogliendo poi l’occasione per stendere il maggiore numero di bandiere rosse mai visto su grande schermo.
Ferito, per altro verso, da una parte della critica femminista per il mancato “nudo frontale” di Brando in Ultimo tango, intende pure riscattarsi mostrando qui, per la prima volta nel circuito mainstream, due attori maschi di successo (De Niro e Depardieu) in costume adamitico, a letto con una misera lavandaia. La visionarietà del film, paradosso non poco significativo, verrà respinta da parecchi dirigenti del PCI e addirittura bandito nell’URSS. Gli Stati Uniti, per canto loro, esigeranno l’amputazione di circa un terzo della pellicola, mentre la distribuzione della versione originale di cinque ore e 15 minuti verrà invece autorizzata in America solo consecutivamente al crollo definitivo del regime sovietico.
Capitale risulta tuttavia l’influenza di Novecento sui Cancelli del Cielo di Cimino e su Siberiade di Andrej Konchalovsky, ma anche su Apocalypse Now (Coppola voleva addirittura che il suo film fosse magari “un minuto più lungo” di quello dell’amico Bernardo). Per non dire della Meglio gioventù di Giordana e della saga Heimat, di Edgar Reitz, fondamentale per il revival delle “serie” già in voga ai tempi del cinema muto. [F.G.]
Novecento, se non ci inganniamo, prefigura assai bene per Bertolucci un futuro in cui il rigore ideologico non viene meno ma si stempera in un lirismo esistenzialeggiante, il concetto si fa sentimento e quel recupero della cultura nazional-popolare che gli sta a cuore agisce più da lievito poetico che politico. A Cannes qualcuno oggi dice che Bertolucci è l’unico grande erede di Luchino Visconti. Se fosse vero, per qualche aspetto lo avrebbe già superato.
Scommessa perduta? Scommessa vincente? Vincente, diremmo, se Bertolucci intendeva affermare fino all’estenuazione il proprio talento, la propria capacità di imbarcarsi in un’avventura narrativa di dimensioni insolite, la propria abilità nel muoversi tra i sentieri della psicologia e i meandri della storia, la propria determinazione a fare uno spettacolo che portasse al grande pubblico un discorso in qualche modo sostenuto da un’analisi di classe. Perduta, se Bertolucci voleva costruire una saga nazional-popolare storica e politica significativa, una dialettica radiografia della lotta di classe, un plausibile (e tipico anche se parziale) approccio di vita nazionale.
Parlando per stagioni, l’estate è nel film la più colma e felice, e la primavera dà ali al giorno della Liberazione, quando la giovane figlia di Olmo, alta sul carro di fieno, con fantasia visionaria racconta alle altre anche ciò che il suo sguardo non può vedere, o quando, uscendo da sotto la “tenda rossa” i dannati della terra celebrano la loro utopia rivoluzionaria. Invece l’opera perde quota al secondo atto, nonostante il bellissimo ritratto psicologico di Dominique Sanda; ed è quando le stagioni del fascismo si deformano in orrore espressionistico e in furore “elisabettiano”. Anche sul prologo e sull’epilogo avremmo forse delle riserve: l’uno perché anticipa con troppa chiarezza, l’altro perché chiude con troppa ambiguità.
Come faccio? Come posso parlare di Novecento? Cerco di giustificarmi con l’episodio della recensione, però anonima, che Walt Whitman scrisse su un giornale di Chicago quando uscirono le sue Foglie d’erba. Cominciava così: “Finalmente un bardo americano!” Ancora più difficile parlare di un figlio che di sé, comunque. Alla Fonoroma Bernardo non c’era, né la colonna sonora conteneva la sua voce, mentre le immagini erano piene di suoi ricordi, o di ricordi dei racconti ascoltati fra casa sua e casa dei contadini, o stalla, che l’inverno era il luogo dove i contadini stavano di più. Venne durante il lungo intervallo fra il primo e il secondo atto, e mi presentò a Donald Sutherland. Gli dissi, in un inglese un po’ incerto – non so se mi capì, ma rise nei suoi occhi chiarissimi e sinistri – che i film “sono fatti della stessa sostanza o stoffa di cui sono fatti i sogni”. Era Shakespeare, che lui pare reciti splendidamente. Cercavo di vincere l’imbarazzo, intanto avevo ingoiato di nascosto una mezza pasticca di Inderal, che, si sa, rallenta i battiti del cuore. Nel film Sutherland si chiama Attila (quasi Attilio). È terribile, ma quando muore abbiamo pietà anche di lui e di Laura Betti, sua moglie, degna compagna di misfatti orrendi. Del resto, Peccato che sia una sgualdrina [1626], dell’elisabettiano John Ford, dove si strappano cuori per infilarli su spade, non si svolge a Parma?
Bernardo spariva durante la proiezione, rimanevano l’altro mio figlio Giuseppe e Kim Arcalli che con lui hanno scritto Novecento. Quando Bernardo aveva dieci anni e captava tanto della campagna in cui vivevamo, Giuseppe ne aveva quattro e si accodava al mucchio selvaggio di ragazzi che venivano a giocare furiosamente col fratello maggiore. Un po’ lo sopportavano, un po’ no; lui comunque vedeva che avevano acchiappato delle rane nei fossi irriganti le nostre biolche e li ammirava. Erano dei grandi eroi. In Novecento Olmo ne prende tante, di rane, perché il film si svolge nella Bassa, in terra rivieresca, dove ce ne sono più che da noi, e Virgilio le ha udite “dal limo reiterare l’antico lamento”.
Sono indiscreto se rivelo che il grande sciopero agricolo del 1908 toccò direttamente la nostra famiglia, che dovette adattarsi a lavorare la terra, e toccò certo più acerbamente i nostri contadini, ridotti quasi alla fame? Neanch’io ero nato in quell’anno: dunque racconti da racconti, rimorsi da rimorsi, a non finire. Penso che deve aver lavorato nella mente degli sceneggiatori, nella fantasia del regista di Novecento, il proverbio contadino della Bassa che dice: “Dio ci salvi dai fulmini, dai tuoni, dai Rossetti e dai Cantoni”. I miei avi materni erano quei Rossetti là.
Insomma: sarebbe bastato conoscere appena le opere di Bertolucci, sarebbe stato sufficiente sapere che il suo retroterra culturale – a parte il venerato Godard – affonda molto più in Freud e Dostoevskij, in Moravia e Visconti che in Marx o Lenin per evitare di scambiare un film “privato” per un film “storico”, una confessione personale per un manifesto politico. Nodo irrisolto nella misura in cui il “cinema d’autore”, essendosi generalmente aggrappato al primo dei due corni del dilemma, ha sì dato al cinema opere importanti e significative ma non ha saputo o voluto rispondere alla questione della “popolarità” del film, al problema di come un film d’autore, un film, come usa dirsi, “difficile” e “complicato” possa comunicare con il pubblico più largo.
Il solo Godard, con la genialità e la coerenza che gli sono proprie, non avendo voluto cercare la soluzione del dilemma, ha avuto la forza di scartare le soluzioni di comodo fino a negarsi come autore e a votarsi ad uno sperimentalismo assoluto. Certo, Bertolucci ha anche dimostrato di essere un ottimista. Ma dove sta scritto che chi lotta, in qualunque campo, ha da essere pessimista? Lo dico perché questa accusa di “ottimismo” è stata da più parti avanzata a proposito del film. E non credo che, in chi la muove, essa sia generata dal film in quanto tale, dal suo senso, dal suo “messaggio”. Novecento è tutt’altro che un’opera consolatoria, manichea, trionfalista, schematica, ecc. Novecento è un film elegiaco e amaro al pari di Strategia del ragno, di Prima della rivoluzione. Non è un caso, del resto, che la sua conclusione sia per tanti versi simile a quella di Strategia: la stessa ferrovia, la stessa campagna attorno e il senso di vuoto, di imponderabilità che ne deriva.
Non sono un critico cinematografico bensì uno scrittore nato e cresciuto nel mondo contadino del Norditalia rappresentato in Novecento. Per un giudizio sul film come tale, non avrei da aggiungere o togliere nulla a quanto ha detto su questo giornale Morando Morandini. Dirò anzi che il giudizio per cui siamo di fronte a un grande film mi convince tanto più dopo che Bertolucci ha dichiarato di non aver voluto fare un film storico stricto sensu, e che insomma Novecento non va visto come compendio di storia dall’anno 1900 fino al 1945. Da questo equivoco erano sorte molte accuse: dove sono gli operai? Dov’è il socialismo, che era nato prima del comunismo? etc.
Queste domande sono inevitabili e logiche per i critici ma risultano assurde per Bertolucci. Perché volete che introduca gli operai, se sta facendo un film sui contadini? Per chi è nato e vissuto nella campagna, il mondo contadino era un mondo completo; non solo, ma era l’unico: era impossibile sospettare che ne esistessero altri. Parlo naturalmente del mondo contadino a civiltà stabilizzata, perché oggi la civiltà contadina si è dissolta e non è più ricostruibile neanche dal ricordo dei contadini anziani sopravvissuti: l’operazione stessa di Bertolucci avrebbe il sapore di una riscoperta archeologica, se non si sentisse che non si tratta tanto di scavare rovine sepolte sottoterra, quanto di lasciarli venire alla luce. La memoria mitizza tutto. E tutto nel film di Bertolucci appare alla fine mitico: Novecento non è tanto una grande storia, quanto un grandioso mito, il mito di una civiltà contadina immota in una vitalità pagana e naturale, che sembrava destinata a restare fuori-storia, cioè a durare eterna così com’era, e invece si scontra a sangue con la storia e la piega e la domina fino a creare l’Utopia.
Il senso del mito è così potente che va oltre che va oltre i tempi da cui parte e oltre ai tempi a cui il film arriva: Novecento non ha né un inizio né una fine, perché nasce da un mito (la natura) e finisce nell’utopia (la storia come felicità). Segnare un punto d’inizio nella storia contadina è impossibile; Bertolucci lo tenta fornendo dei riferimenti: la falce per tagliare il fieno che il vecchio Leo affila a colpi di martello; la pellagra; la spulciatura dei figli; da parte delle madri; i bachi da seta nutriti con foglie di gelso; il trasloco della San Martino; il pesce fritto sospeso al soffitto contro cui i poveri sbattono i bocconi di polenta per insaporirli prima di ingoiarli. Ma non sono fatti, sono simboli. Come tali, valgono per l’inizio del Novecento come per i tanti secoli che l’hanno preceduto. Non è il mondo dei contadini che produce storia: è il mondo dei padroni. Basta che i padroni introducano la rastrellatrice meccanica, e con ciò stabiliscono una data. In un certo senso, questo vale anche per ragioni estetiche: il mondo dei contadini è poesia, e la poesia è fuori dal tempo; il mondo dei padroni è prosa, e la prosa si svolge nel tempo.
Immobile da sempre, la civiltà contadina ha uno scopo solo: restare immobile per sempre. Questa immobilità (che, non avendo né inizio né fine, diventerebbe eternità) le è impedita dal conflitto con i padroni, ossia dalla storia. Scavalcato questo arco di storia, il mondo contadino di Bertolucci viene a ricomporsi come giustizia, come uguaglianza di tutti, cioè come immobilità.
Tutto ciò non è né storico né politico; visto come compendio di storia o come saggio politico il film sarebbe sminuito, perché è di più: è una dichiarazione di passione politica. E allora si capisce come tutto ciò che gli storici e i politici (che sono sempre esperti di cose operaie, non di cose contadine) rimproverano a Bertolucci non abbia senso. Così Attila, l’uomo di basse azioni, risulta anzitutto un mostro psicologico di Bernardo mascherato da mostro storico. È vero il bracciante che si taglia un orecchio mentre tutti intorno lasciano fare, e qualcuno anzi lo aiuta, compie un rito immolatorio (secondo me, non fa tanto un sacrificio di se stesso quanto una minaccia al padrone) che non è nella cultura contadina, ma esso è certamente nella spinta riparatoria del borghese-agrario-Bertolucci: perché questo film, come tutto ciò che l’uomo fa di immortale, è un amoroso atto di espiazione e di riparazione.
La lettura di Novecento presenta una difficoltà, che deve essere sottolineata per eliminare determinati equivoci nel giudizio. Il racconto si svolge in gran parte in chiave realistica, e vi sono episodi efficacissimi. Ma a tratti questo tipo di narrazione è sostituito da un linguaggio metaforico. Se non ci si adegua a questi cambiamenti da una forma di espressione all’altra, si rischia di fraintendere tutto. A me è sembrato utile vedere due volte il film, in entrambe le sue parti, proprio per familiarizzarmi con questo cambio di registro.
Circa questo scostarsi da un’impostazione realistica, vorrei rilevare come Bertolucci si svincoli anche dal principio di identità. Dello stesso fatto dà più versioni. Questo avviene per l’uccisione di Attila, che nella anticipazione contenuta nel prologo si compie con la tremenda scena delle donne che finiscono il fascista con i forconi, e che nell’ordine cronologico obiettivo avviene invece con la già richiamata esecuzione al cimitero. Duplice è anche il trasporto, nella piazza cittadina, dei vecchi morti nell’incendio della Casa del popolo. La prima versione – piazza deserta, porte e finestre sbarrate, il suono crescente dell’Internazionale, non suonata tuttavia da alcuno – è del tutto simbolica, e dice: nessuno si leverà mai contro la violenza fascista; la paura immobilizzerà tutti; l’inno della classe operaia resterà puro suono, senza suonatori. L’altra versione è invece quella effettiva: i funerali fra i cordoni della Guarda Regia, con i fascisti riuniti dietro quei cordoni, pronti all’attacco spavaldo.
Per chiunque abbia vissuto gli ultimi due anni della guerra in prossimità della linea gotica, il finale e la morale di questo film possono apparire irreali e insensati. Anche perché, dopo la lunga Opera di Pechino del processo al padrone, le armi vengono consegnate e il padrone viene proclamato più vivo che mai, in seguito all’apparizione di un generico Comitato di Liberazione Nazionale accompagnato però da due carabinieri! Francamente sarebbero stati più probabili due legionari romani, due monaci della Forza del destino, due guerrieri Sioux. Il tutto con trovate anche fantasiose, giacché nemmeno il più atavico affetto per la campagna riesce forse a generare carri di fieno già secco alla fine di aprile – dunque con una somma di “effetti di spaesamento” che finisce per ammontare a patchwork. Anche perché la disputa sui terreni contesi fra contadini e montanari, ricavata dal Cerchio di gesso del Caucaso, funzionava finché Brecht vivo la dirigeva al Berliner Ensemble, dialettica e stilizzata come un dialogo platonico (com’era stata scritta), e con Helene Wiegel in maquillage kabuki; ma diventa una sacra rappresentazione del dopolavoro di Gubbio non appena si produce la giunzione tra l’epica e il pollaio.
I criteri su cui si basano i giudizi contraddittori sono diversi. Certi se la prendono con l’ampiezza dell’impresa e sono sospettosi dell’opera per il fatto stesso delle sue condizioni di produzione; altri si oppongono alla forma e al progetto politico. Lo vedono come un film didattico. È il caso per esempio di Jean-Claude Guiguet, che sulle colonne della nostra rivista ha classificato il film nella categoria che chiama, con un certo disprezzo, il “cinema-dissertazione”. Altri infine, con più franchezza, condannano il contenuto e il valore ideologico di Novecento, visto che ci si è spinti fino a definirlo – suprema ingiuria! – “film staliniano”. Ma io nutro il forte sospetto, e l’ho già scritto, che tutti coloro che condannano l’opera o ne parlano con molte riserve lo facciano, consciamente o inconsciamente, come quei detrattori che ho citato per ultimi: a partire dalla loro personale posizione politica. E non è l’ultimo fra i meriti di Novecento – mi sembra anzi che forse stia lì l’interesse maggiore del film – di costringere ciascuno a smascherarsi.
Non mi sembra inutile dire qualcosa su Barry Lyndon, anche se a molti mesi dalla sua uscita. Tanto più che nessuno sembra essersene accorto. La critica cinematografica ha recitato per l’occasione giaculatorie collaudate da decenni, dove il “rigore” formale si sposa inevitabilmente a una certa “freddezza” (in senso negativo), la “raffinatezza” non può non scivolare nel “compiacimento calli- grafico”, mentre la «lentezza» tradisce “mancanza d’ispirazione” ecc. (mi riferisco alla critica di quotidiani e settimanali, a quelli che m’è capitato di leggere: non molti ma significativi. Ignoro quanto se n’è scritto su riviste specializzate; ma non mi faccio illusioni). Né mi risulta ne abbia parlato la stampa di nuova sinistra, che pure s’è sprecata per Novecento. Beninteso, del film di Bertolucci s’è detto prevalentemente male, imputandogli lacune e errori storiografici nonché d’essere funzionale all’ideologia del Pci, ma con ciò stesso riconoscendogli uno spessore politico che il film è ben lontano dal possedere. In questa logica finiscono per non aver torto quei giovani compagni che hanno protestato non essere affatto Novecento favorevole al “compromesso storico”, non trovandosi nel film cenno ad alleanze col nemico di classe. Sorprende semmai che questo basti a soddisfarli. Come se l’uso di un film (un libro, un’opera musicale…) debba essere di confermarci nei nostri schemi mentali, nella nostra «fede». Una volta, andare al cinema era soprattutto un «piacere», e uno dei massimi piaceri è sempre stato quello di imparare qualcosa di nuovo, mettere in questione le nostre certezze, i nostri modi di pensare, di vedere… Novecento è un film irrilevante non tanto perché travisi la storia o “faccia (o non faccia) il gioco del Pci”, ma perché è banale e noioso, non comunica emozioni, non stimola nessuna facoltà critica.
Anche da un punto di vista politico è invece estremamente interessante Barry Lyndon. Naturalmente chi crede che Novecento sia un film “politico” (non importa se “giusto” o “sbagliato”) non può non trovare paradossale la mia affermazione, cioè che una vicenda che si svolge prima della Rivoluzione francese, tra palazzi patrizi e clubs, parrucche, cavalli, duelli e partite a faraone, con accompagnamento di Haendel e Vivaldi, e dove non si vede un solo contadino, sia più viva e attuale di una galoppata di sei ore attraverso gli ultimi settant’anni della nostra storia, con lotta di classe dal principio alla fine, scioperi, case del popolo, fascismo, resistenza, bandiere rosse, e le note dell’Internazionale. Ma è quasi lo stesso problema se sia politicamente più produttivo cantare in coro “borghesi, ancora pochi mesi” oppure, non dico leggersi qualche pagina di Smith o Marx, Defoe o Balzac, ma cominciare semplicemente a chiedersi perché mai passino i mesi, gli anni, i decenni e i borghesi si ostinino a durare, se alla base di questo strano fenomeno non ci sia per caso un difetto di analisi… La tensione emotiva e critica che Barry Lyndon comunica è tanto maggiore quanto più è freddo lo stile, quanto più è frustrato il bisogno di identificazione dello spettatore.
Dopo aver girato Ultimo tango a Parigi nel 1972, Bernardo Bertolucci fu processato per oscenità, fu oggetto di pubblica controversia e sottoposto dalla critica a un fuoco incrociato di stroncature da un lato e panegirici dall’altro. Ma almeno riuscì a portare il suo film sugli schermi. Ora Bertolucci è saltato fuori con Novecento, uno dei film più attesi degli ultimi anni, e già i suoi problemi con Ultimo tango sembrano minuzie. Novecento è in ritardo di un anno sul mercato anglosassone, ha sforato il budget di 5 milioni di dollari, e – con una durata di 5 ore e 10 minuti – è fuori di due ore buone dal limite contrattuale. Il produttore Alberto Grimaldi lo ha tolto di forza dalle mani dell’autore. Il distributore USA, la Paramount, è recalcitrante. La disputa si è trasformata in una battaglia a tre di contese legali multimilionarie. Non fa meraviglia che Bernardo Bertolucci abbia sofferto recentemente di una serie di malanni psicosomatici che lui chiama “la sindrome di Novecento“.
Con radicale imparzialità, il presidente della Paramount Barry Diller dichiara: “Non mi piace la versione di tre ore, non mi piace la versione di quattro ore e mezza e non mi piace la versione di cinque ore. La Paramount non distribuirà mai questo film”. Grimaldi, legato all’accordo di dividere i profitti finali con Bertolucci, insiste che il film, in un modo o nell’altro, uscirà sugli schermi statunitensi entro un anno. In tal caso, Bertolucci sta cercando per via legale di fare in modo che non esca nella versione accorciata dal solo Grimaldi.
La speranza numero uno del regista sembra essere il suo montaggio di compromesso, non ancora terminato, di quatto ore e 25 minuti – sempre che esista. Grimaldi controbatte che l’unico negativo utilizzabile per questo lavoro è stato distrutto ma Bertolucci non è d’accordo. Se le cose non vanno a posto, dice, “può essere che io debba fare irruzione nello studio dove Grimaldi lo ha messo sotto chiave, rubarlo e farlo circolare underground”.
Forse nessuna delle invenzioni cruciali di Novecento è legata alla poesia di Attilio in maniera più stupefacente (tanto più inconscia, come Bernardo ha rivelato) del gioco – ripetuto tre volte da Olmo e Alfredo nel corso del film, dalla loro infanzia fino alla vecchiaia estrema – di sdraiarsi in mezzo a dei binari lasciando sfilare sopra di sé un treno in corsa. La prima “fonte” di questo gioco è un episodio dei Fratelli Karamazov: la scommessa che il piccolo Kolja Krapotkin fa con gli amici. È proprio ispirandosi a questo episodio che Attilio (come mi confessò un giorno) compose “Ottobre”, una delle sue liriche giovanili raccolte in Fuochi in novembre. Qui il protagonista “fanciullo”, fluttuante a letto tra la veglia e i sogni, arriva a immaginare di giacere sotto il treno che passa, fischiando, nella pianura accanto a casa: “… Io gli giacevo sotto, sen pensieri, / con il fragore nelle orecchie / finché era passato tutto…”
La schizofrenia viene fuori come i funghi nei miei film. Come la maggior parte degli intellettuali comunisti europei, sono condannato a essere diviso. Ho una personalità scissa e la vera contraddizione dentro di me è che non riesco a sincronizzare il mio cuore e il mio cervello. Fra l’uno e l’altro vi è sempre uno scarto.
Nel mondo dell’infanzia Olmo e Alfredo si identificano uno con l’altro. Le differenze si manifestano man mano che i bambini crescono e la loro identità finisce per diventare un’identità di classe, consapevole o no. A quel punto la mia identificazione è più forte con Alfredo che non con Olmo (per Alfredo, Olmo è “quello che vorrei essere e non sono”), quindi nel personaggio di Olmo c’è il peso di un certo volontarismo.
L’idea iniziale di Novecento – ancora una volta schzofrenica – fu questa : lo stesso giorno dell’anno 1900 nascono nella casa contadina e nella casa padronale due bambini, andranno avanti insieme camminando attraverso il secolo. All’inizio sono la stessa cosa, poi le due classi li riassorbono e li mettono uno di fronte all’altro. Si trovano così a vivere insieme i momenti storici più importanti del secolo, dalla nascita della coscienza di classe nei contadini all’avvento del fascismo fino alla guerra e alla Liberazione. I due personaggi diventano i poli di una dialettica che percorre tutto il film. Novecento si muove su una dinamica schizofrenica, che non mi è nuova.
Non volevo raccontare il fascismo così come era stato raccontato finora, all’italiana, non m’interessava fare una ricostruzione con pretese storiche. Così ho cercato di sintetizzare il fascismo in una figura in progress. Attila in partenza è un piccolo borghese, strumentalizzato dalla classe dei padroni e che strumentalizza a sua volta la classe dei padroni. Attila è un arrampicatore sociale. Creando questo personaggio volevo mettere insieme il fascismo cremonese, duro, picchiatore (gli uomini di Farinacci passavano il Po per venire in Emilia a pestare socialisti e comunisti), con il “male” inteso alla maniera del teatro elisabettiano, e senza economizzare : spreco di sangue, animali uccisi a testate, bambini sodomizzati e poi sfracellati contro il muro… Non a caso, per interpretare questa figura molto esasperata ho scelto un attore come Sutherland, con questa testa così fallica. (Infatti Fellini lo prenderà poi per il suo Casanova.) Mah… io lo difenderei questo personaggio. Non a caso la sua compagna (Laura Betti) è una sonnambula con le mani insanguinate, una Lady Macbeth della Bassa. Il riferimento non è difensivo, inventato all’ultimo momento: è parte fondamentale del personaggio.
Alcuni mi hanno anche accusato di stalinismo. Secondo me, invece, se il film fosse stato stalinista, non avrei mostrato, come lo si vede all’inizio e alla fine del film, la ferocia, la crudeltà dei contadini che esplode quando si vendicano della coppia dei fascisti.
Dopo il successo di Ultimo tango, riprendendo il soggetto di Novecento si è subito pensato a una cosa non più televisiva, e si cominciò ad allungarlo, a modificarlo. La prima parte era già scritta, ed è rimasta abbastanza la stessa che poi si è vista. Il finale è stato scritto dopo che il film era già cominciato. Ci sono voluti due anni e mezzo per scrivere Novecento, un lavoro interminabile, perché bisognava discutere tonnellate di cose, problemi di ogni genere. Scrivevamo in tre, e io ero un po’ a mezzo tra Kim e Bernardo, facevo un po’ da mediatore tra le due anime del film, quella lirico-melodica e quella politica e storica, un po’ romantico-anarchica che era di Kim, anche se queste definizioni sono approssimative.
La prima idea dei bambini aveva sviluppi diversi, perché i due, crescendo, restavano degli emarginati, dei poeti, non erano il mondo dei contadini. Kim portava anche il contributo di una memoria storica, poetica; il processo finale al padrone era molto suo, diceva che nella Resistenza c’era quest’anima che era stata poi trascurata, perduta. Ci raccontò per esempio di un’azione in una caserma, con un partigiano che aveva preso la bandiera tricolore e ne aveva strappato via il verde e il bianco, ma questa scena nel film non l’abbiamo lasciata.
Bernardo Bertolucci è fortissimo. È un grande poeta, alla maniera di Victor Hugo. Fa parte di quei registi, tipo Pasolini, che hanno un rapporto sociale e politico con il cinema. Novecento è proprio un’opera popolare, come I Miserabili può esserlo a livello della letteratura. La storia che racconta il film non racconta forse la sua storia personale, però la conosce meglio di tutti, perché si svolge nella campagna emiliana, dov’è nato, dov’è cresciuto. Egli è un nuovo poeta. Dico “nuovo” nel senso che la poesia di oggi è diversa di quella di ieri; non è fatta soltanto di parole.
Nel film c’è la dimostrazione della sua padronanza di una certa tecnica cinematografica, e si può essere poeta usando anche altri mezzi. Il punto è il suo modo di usare la macchina da presa per esprimere le sensazioni, l’emozione, mettendosi pure in pericolo.
Mi ero lanciata da sola [come montatrice], poi sono tornata a fare l’assistente a Kim Arcalli perché c’era in cantiere Novecento, una cosa da non perdere. Era una cosa fenomenale: un esempio di come si fa il cinema. Un’esperienza emozionante. La prima proiezione di Novecento, che nessuno ha mai visto e nessuno vedrà mai, durava sei ore e venti. Era di una bellezza straordinaria: si scioglieva dall’inizio alla fine, con grande naturalezza. Faceva un caldo da morire ed eravamo tutti molto stanchi, soprattutto Bernardo, che veniva da un anno di riprese. Così, il produttore Grimaldi ci prese una villa a Fregene, dove portammo la moviola e montammo il film. Abbiamo montato sei ore di film in tre mesi. Era come vivere in collegio. Siamo rimasti chiusi lì dentro da giugno a settembre. Non vedevamo nessuno: per me è stata una specie di clausura.
È stata una cosa incredibile girare Novecento, difficile da spiegare, come aver vissuto un’intera vita, una esperienza di coinvolgimento totale, praticamente unica. Non abbiamo lavorato ma vissuto insieme, c’è gente che è stata male, familiari che sono morti, amicizie nate o finite, luoghi sconosciuti divenuti famigliari come la propria casa. Ancora adesso sogno di essere a Parma, anzi di volare sopra Parma.
Bernardo non è un regista nel senso comune della parola, non dirige gli attori, li coinvolge in una situazione, va dentro di loro a prendere, a scavare, gioca con l’anima non con l’esteriorità. A lui piacciono le cose da scoprire, non quelle prefabbricate.
Su Novecento stanno piovendo critiche, denunce e biasimi, ma a me non sembra un film sconcio, noioso, retorico. Non è neppure filocomunista. Io sono la prima a non credere nelle bandiere, tanto meno a quelle che si fanno sventolare per ostentare l’appartenenza a un’ideologia di moda. Novecento è un affresco genuino di questo secolo, ma potrebbe esserlo di qualsiasi altro secolo. È la vicenda della povera gente sempre travolta dalla Storia: ognuno di noi crede di esserne protagonista, ma in realtà non siamo che vittime impotenti di situazioni più grandi di noi che qualcuno ha provocato, ma che poi non è riuscito a controllare. E sono povera gente anche i prevaricatori e gli opportunisti. Bernardo Bertolucci non è solamente un comunista: è un uomo che crede in qualcosa.
L’unico difetto di Novecento è che è stato diviso in due film. Sempre la solita storia del denaro. I produttori debbono incassare il più possibile. Secondo me, avrebbe ottenuto un successo più strepitoso se proiettato in un’unica soluzione, perché gli spettatori lo avrebbero gustato e capito meglio. Il film non è nato come un’operazione commerciale, anche se poi è divenuta tale. Bertolucci, dopo il successo di Ultimo tango a Parigi, aveva due possibilità: arricchirsi girando tutti i film che voleva e sfruttando i capitali di tanti produttori che lo corteggiavano; oppure realizzare un’opera che diventasse una pietra miliare del cinema, come Via col vento. Non si può inveire, quindi, contro un regista che con Novecento non ha guadagnato un soldo e ha speso tre anni della propria vita. È riuscito a trovare decine di attori famosi che hanno rinunciato al denaro e accettato di firmare un contratto quasi gratuitamente pur di contribuire alla creazione di un film che a qualcuno non è piaciuto ma che nessuno dimenticherà.