Alfredo Signorina, lo sa che siamo gemelli? Diglielo, Olmo! Facciamo sempre a metà noi due. Quel che è suo è mio, e quel che è mio… è mio anche quello!

Mezzo secolo di storia d’Italia tramite i destini paralleli di Olmo Dalcò e Alfredo Berlinghieri, da quella mattina dell’anno 1900 in cui il bastardo del clan dei mezzadri e il rampollo del padrone nascono nella stessa corte della Bassa Padana, fino al 25 aprile 1945, giorno della Liberazione.

In questo lasso di tempo, sia pure appartenenti a classi opposte, i due “fratelli di latte” crescono insieme, conoscono gli inizi della meccanizzazione del lavoro agricolo, perdono i nonni amatissimi, attraversano il lungo sciopero del 1908 e i disastri della Grande Guerra, poi prendono moglie, mentre la borghesia agraria, sentendosi sempre più minacciata dall’organizzarsi dei “dannati della terra”, sulla scia della rivoluzione russa, aiuta il fascismo nascente a conquistare il potere al fine di difendere ad ogni costo la perennità dei suoi interessi, in quanto casta dominante. È l’inizio del Ventennio nero.

Odiato dal fattore Attila, squadrista della prima ora, Olmo, che è rimasto vedovo della maestrina socialista Anita, morta di parto alla nascita della loro figlia, si ritrova costretto a fare il norcino itinerante e proseguirà clandestinamente la lotta per la giustizia sociale. Alfredo, dimostrandosi incapace di reagire con la dovuta fermezza ai soprusi dell’ordine nuovo e alla ferocia crescente dei tempi, diventerà a poco a poco l’ombra di se stesso, soprattutto dopo la partenza della bella sposa, Ada, il cui naufragio nell’alcolismo altro non è forse che il segno di un’acuta lucidità sul corso delle cose, alla vigilia di un altro spietato conflitto mondiale.

Tornano a galla sullo schermo le prime immagini della caduta del nazifascismo, nel ’45, seguite questa volta dal ritorno a casa di Olmo, insieme alle rondini, dalla rabbia vendicatrice e l’esuberanza dei contadini, e infine dall’utopistico processo popolare al padrone improvvisato nell’aia. I padroni però se la cavano sempre — lo ribadisce l’ultima battuta del film —, così come, diversi decenni dopo, fallirà anche il suicido di Alfredo, ormai vecchissimo e stanchissimo, nella vertigine temporale dell’inquadratura finale, dove ridiventa inaspettatamente bambino, sdraiato per lungo tra i binari del treno rosso di una volta. Quasi a dire, in sostanza, che l’esatta storia che abbiamo appena visto potrebbe ricominciare e ripetersi all’infinito, almeno dal 1908 in poi.

Un film “trionfalista”? Davvero?

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