Giacobbe — Arrestato una prima volta all’Hôtel du Danemark, Rue Jacob, 1959, 13 febbraio. Trasportato, in un furgone cellulare, al castello d’If. Trasferito alla prigione di Aix-en-Provence. Condannato a cinque anni. Ricevuta visita di: punto interrogativo. Sei tentate evasioni; l’ultima: riuscita. Reincarnazione di Arthur Rimbaud. Traffico di armi, oppio, hashish, kif. Arrestato dalla polizia abissina. Violentato da centosei guardie. Rimpatriato in Francia a spese della Repubblica. Liberato dopo cinque anni, per buona condotta. Assunta l’identità di un prete-operaio. Corruzione di minatori a Marcinelle, in Belgio. Rinchiuso nella camera 14, Hôtel du Nord, per mancanza di posto in prigione. Nuova fuga. Libertà…
Giacobbe, introverso — e assai nevrotico — professore in una scuola romana d’arte drammatica, s’imbatte sul Lungotevere in un altro “io” che ospita a casa sua, nascondendolo agli occhi del vecchio domestico Petrushka. Il “sosia” — questo il titolo della novella giovanile di Dostoevskij alla base del film — accetta di compiere in sua vece le azioni che il protagonista, nella vita, risulta incapace di affrontare di persona. Così comincia col sostituirlo quando si tratta di svegliare i sensi di Clara, la figlia del direttore di Giacobbe, durante una fuga notturna in una convertibile da sogno. Poi, nel corso di una lezione su Antonin Artaud, l’inquietante personaggio — che si rivelerà essere anche una specie di serial killer ostile al consumismo nascente — spiega agli allievi che il teatro va portato nelle strade allo scopo di diffondere “il veleno [della sovversione] nel corpo sociale”. E, passando dalla teoria alla pratica, non esiterà a mostrare in classe come si fabbrica una bomba a mano tipo “Maiakovskij”. Intanto diventa sempre più evidente che lo “spettacolo” urbano che tutti insieme stanno preparando altro non è che la Rivoluzione.
Purtroppo, arrivato il giorno fissato per avviare la rappresentazione, sia i ragazzi che il loro mentore sembrano aspettarsi a vicenda a un’ora sbagliata. Appuntamento mancato con la Storia.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci e Gianni Amico, liberamente ispirato a Il sosia (1846) di Fëdor Dostoevskij
(Technicolor, Techniscope, 35mm, 2.35:1) Ugo Piccone; operatore Saverio Diamanti
Jean-Robert Marquis (alias Francesco Tullio Altan)
Nicoletta Sivieri
Roberto Perpignani
Ennio Morricone; Concerto in Do maggiore per flautino di Antonio Vivaldi; Bandiera rossa; canzone Splash di Morricone & Nohra interpretata da Peter Boom
(mono, in presa diretta per la versione originale, in francese e in italiano) Manlio Magara
Gianluigi Calderone
Fabio Garriba
Marilù Parolini
Pierre Clémenti (Giacobbe e Giacobbe), Stefania Sandrelli (Clara), Sergio Tofano (Petrushka), Tina Aumont (venditrice di detersivi), Antonio Maestri (professore “gigione”), Giulio Cesare Castello, Romano Costa, Mario Venturini (altri professori), Ninetto Davoli, Salvatore Samperi, Umberto Silva, Vittorio Fanfoni, Stefano Oppedisano, Giuseppe Mangano, Giancarlo Nanni, Luigi [Antonio] Guerra, Gianpaolo Capovilla, Alessandro Cane, “Checco” Altan) [n.a.], Rochelle Barbieri [n.a.] Sibilla Sedat [n.a.], Nicole Laguigner [n.a.], (allievi), John Ohettplace [n.a.] (pianista), Rosemary Dexter [n.a.], Jed Curtis [n.a.]; nelle scene eliminate nel montaggio definitivo: Gian Vittorio Baldi (commissario), Eduardo de Gregorio
Giovanni Bertolucci per la Red Film; organizzazione generale Alberto U. Passalacqua
Italnoleggio
105′
Roma (Monteverde Vecchio, Cinecittà, Centro Sperimentale di Cinematografia, Largo di Torre Argentina, Mercati Traianei, Valle Giulia); marzo-maggio 1968
25 ottobre 1969
“Un film malato sulla malattia”. Così Bertolucci descrive Partner, in cui appare l’inquietante nevrosi nata dall’impossibilità di concretizzare un terzo lungometraggio dopo Prima della rivoluzione. Diretto proseguimento del corto Agonia, il film risulta così una specie di imbuto in cui si ritrovano in nuce tutti gli elementi costitutivi dei maggiori successi venturi (schizofrenia, claustrofilia, confusione perpetua tra la veglia e il sogno, ecc.). In Partner, non c’è una battuta né un dettaglio visivo o sonoro che non sia un rimando alle mille e una opera del passato che hanno nutrito emozionalmente l’autore negli ultimi quattro anni. Donde il fatto di dire “teatro” per cinema e il traboccare incontrollato di questo calderone in ebollizione, prima che la psicanalisi porti finalmente più ordine nella sua ispirazione. Si tratta inoltre dell’unico film di finzione girato proprio durante il Maggio ’68 che si rifà in diretta agli eventi in corso. Pensando poi al successivo Strategia del ragno, va tenuto presente che il “sosia” di Giacobbe è anche un “padre” per Bertolucci: cioè il Godard della Cinese o di 2 o 3 cose che so di lei, nei cui riguardi il nostro regista verrà finanche accusato di plagio sull’autorevole Le Nouvel Observateur, mentre i soliti happy few saranno più attenti invece al suo più congeniale tocco romantico-espressionista. [F.G.]
Partner era il film più atteso di questo ultimo weekend. La pellicola ha sconcertato, e talvolta deluso, gli amici del giovane regista di Prima della rivoluzione. Il fatto è che Bertolucci qui abbandona qualsiasi discorso razionale per buttarsi in una serie di variazioni cattoliche sul tema dell’uomo dilacerato fra i suoi sogni e i suoi atti. Questa lacerazione, questo dualismo fondamentale, la esprime riprendendo a modo suo la storia del Sosia di Dostoevskij, e riempiendola, come un ordigno esplosivo, della sua dinamite personale. Così Partner diventa una specie di confessione-manifesto, nel corso della quale l’autore tratta in sequenze folgoranti della politica, dell’amore e del senso che può essere dato alla vita nella nostra società. Benché l’influenza di Godard sia apparente in certi dettagli della mise en scène, il romanticismo rivoluzionario di Bertolucci, tanto come ispirazione quanto come espressione, è assolutamente suo. Più “intellettuale” del suo film precedente, che invece gli veniva direttamente dal cuore, da una violenza e un’eleganza formale forse più elaborate, Partner resta tuttavia il seguito logico di Prima della rivoluzione. Bertolucci ha soltanto cambiato genere e dal racconto è passato alla poesia. Per una volta le oscurità di questa poesia non ci hanno rovinato le sue bellezze. È uno dei migliori film che abbiamo visto a Venezia. E il tour de force di Pierre Clémenti avrebbe potuto far vincere all’attore un premio per l’interpretazione maschile.
Qual è il risultato dell’aver girato l’intero Partner “in campo”? È semplice: lo spettatore perde l’illusione di essere dentro il film. Ha di fronte a sé il mondo fantastico del film, ma alle spalle ha altri spettatori. Non è partecipe ma osservatore, non è coinvolto ma testimone. Non partecipando più emotivamente alle azioni, è costretto a giudicarle. È dunque chiamato direttamente in causa, durante tutto lo svolgimento del film, come persona a cui il film è diretto. Che io sappia, una tecnica o uno stile simile, non era mai stato usato; Partner perciò non è solo un film tecnicamente e stilisticamente nuovo, ma è addirittura un nuovo modo di fare il cinema. Un cinema che non coinvolge sentimentalmente lo spettatore, ma lo obbliga ad essere giudice: un cinema privato della sua forza di attrazione, ma pieno di una misteriosa e provocatoria forza di espulsione.
E, aggiungo, il film (o meglio, tale tipo di cinema) non è per nulla “teatrale”, anche se abbondano i piani sequenza: esso instaura dunque anche un nuovo tipo di rapporto tra il cinema e il teatro. In altre parole: il cinema non assomiglierebbe più al teatro solo quando è costituito da lunghi piani sequenza: ma assomiglierebbe (e in modo più profondo) al teatro anche quando esso si svolge tutto “in campo”, senza “controcampo”.
Partner è opera presuntuosa, incoerente e ovvia nelle parti comprensibili, e non cercherò di raccontarvene la trama perché lo ritengo inutile. Tutto il film è fatto con scampoli godardiani e cimose surrealistiche, con qualche scena outré tanto per aiutare la barca. Vi si parla di rivoluzione, che sembra un po’ la mania di Bertolucci. Questi figli di papà, dalla vita comoda e dai comodi impegni, non rischierebbero mai l’unghia del mignolo ma nel predicare rivoluzioni non hanno uguali, rinfrescano ogni giorno il vecchio “armiamoci e partite”. Se almeno avessero immaginazione, vigore, invettive efficaci, ma no, eccoli lì a masticare vecchi temi; i loro ardimenti sono un orinatoio fasciato di bandiere nordvietnamite; o la voluttà del detersivo e della lavatrice, l’amore nella schiuma di Omo che oltretutto dev’essere spiacevole.
Sia ben chiaro che ognuno tiene i discorsi che preferisce e ha diritto di esprimersi come gli pare; però mi permetterei qualche osservazione. Primo, e badate bene che non si tratta di censura: perché Bernardo Bertolucci non viene messo in galera? Nel suo film c’è una lezione per dinamitardi, si spiega visivamente come va fabbricata la bomba Molotov. Dato che un’immagine è più convincente di cinquemila parole, presumo che quella lezione servirà a molti. Quindi alcuni fra i prossimi morti per violenza del nostro Paese potranno ringraziare Bertolucci per un prematuro trapasso. In un film dove tutto è confuso e inintelligibile, soltanto quella parte è chiara. Chi mette in mano a chiunque un’arma così efficace debba finire in galera, e restarci.
Susseguentemente c’è il ragionamento economico. Calcolando che i due suoi primi film sono costati un centinaio di milioni ciascuno, ecco che le velleità artistiche del Bertolucci costano a qualcuno circa centottantaquattro milioni; e va benissimo finché si trova il kamikaze che paga. Ma Partner lo paghiamo noi, attraverso l’Italnoleggio: un ente di Stato paga quella costosa baggianata. Eh no, non si chiedono soldi allo Stato per usarli insegnando a fabbricar bombe. Qui siamo arrivati all’incitamento a delinquere; forse sarà bene che il neoministro dedichi una certa attenzione a questo problema, in fondo non è escluso che una bomba Molotov sia tirata anche contro di lui.
Definiamo “saggistico” un film che sovverte le regole normali della narrazione codificata, il che, d’altronde, sta capitando nel cinema da diversi anni. In Partner capita (come ha bene descritto Pasolini in una sua puntualizzazione tecnico-stilistica) ancora qualcosa di nuovo: che per il modo in cui il film è girato, lo spettatore è privato del piacere di “entrarci dentro”, ma è invece posto di fronte a esso come a teatro: non è partecipe ma osservatore (dice Pasolini), non è coinvolto ma testimone. Dunque Partner è molto teatrale? Niente affatto. È molto cinematografico ed è fin troppo imbevuto di cinema. Bertolucci strizza l’occhio a parecchie scuole, fa il verso ai classici (c’è persino la scalinata del Potemkin, con la carrozzella che scende!), e con l’illuminazione contrastata dell’espressionismo tedesco riesce a creare attorno al suo personaggio una atmosfera “russa” in piena Roma di oggi. A differenza del Romeo e Giulietta di Zeffirelli, che con tutti i suoi movimenti rimane teatro, Partner diventa cinema con tutta la sua staticità. Si può comprendere, tuttavia, l’irritazione del pubblico normale, a cui viene tolta anche l’ultima illusione di poter partecipare a ciò che si svolge sullo schermo. Bertolucci fa di tutto per impedirglielo. Mette un diaframma e dice: niente sentimentalismi con me, niente emozioni da poco prezzo. O tu spettatore sei in grado di giudicare che ciò che io ti mostro nel mio film è anche la vita nella quale tu ed io siamo immersi fino al collo, e ne trai le tue conseguenze pratiche, eversive; oppure hai già gli occhi chiusi e foderati, e allora va’ all’inferno e continua a farti inghiottire dalla civiltà dei consumi. Per te non c’è più speranza, come non ce n’era per il mio protagonista fino al giorno in cui incontrò il proprio sosia, la propria ombra, il proprio “partner” insomma, che poi vuol dire la propria coscienza.
In altre parole, Partner è, a modo suo, un film di contestazione e sulla contestazione. La preparazione didattica (ma con la vodka al posto della benzina!) della bottiglia Molotov è una scena emblematica, in cui si dice appunto che la bomba esplode una volta su cinque, il che per un film può valere in una proporzione ancor più sconfortante. Per la sua tematica scottante, per il suo linguaggio provocatorio (mutuato in parte da Godard ma in parte anche, come s’è detto, completamento inedito), e vorremmo aggiungere anche per i suoi cedimenti e le sue oscurità, Partner è il film più “attuale” che sia stato immaginato e girato in Italia in questi anni un film di grande importanza e sincerità anche laddove è fallito.
In Partner prende forza e si sviluppa un discorso irritante, poco lusinghevole, sconfortante, a forte polarizzazione politica, aggressivo (non tralasciando di fare della aggressività il suo proposito), un discorso che interroga ogni volta più precisamente la possibilità di rapporti nuovi entro l’ambito filmico e teatrale. Teatro qui non più come genere, dal quale il cinema talvolta attinge le tecniche, ma teatro quale Mallarmé e Artaud l’hanno teorizzato, pratico, globale, sintetico, assoluto, che forza il luogo che lo contiene, che abolisce le antinomie classiche interno-esterno, scena-sala, spettatore-attore, messaggio-azione, teatro responsabilizzante e pericoloso, “festa della crudeltà” che reclama da ognuno di noi, per ognuno dei nostri atti, la corrosione implacabile degli ordini costituiti, in vista di provocare una teatralizzazione rivoluzionaria della città.
Quale trompe-l’oeil più ingannatore, e di quale carica esplosiva sarebbe dotato questo trompe-l’oeil che, mediante il cinema, rivelasse una vera profondità, delle prospettive da esplorare a lunghi passi, uno “spazio da scorrere”? Partner, interamente centrato su tali ricerche, pratica un modo di continui inglobamento e sfigurazione dei discorsi cinematografici contemporanei o precedenti. I termini di influenza, di prestito (Godard, Cocteau, Murnau, Donen, Lewis…), non hanno più corso là dove il lavoro effettuato consiste in citazioni d’altri testi immediatamente corretti, sviati, stornati, travasati nel linguaggio proprio dell’autore. Tale attitudine porta Bertolucci a una intransigenza non meno grande (qui è il suo coraggio: avere lavorato contro l’idea che ci si faceva di lui) verso le proprie trovate, invenzioni, ogni volta spezzate, interrotte nel momento in cui l’effetto fascinoso avrebbe rischiato di imporsi troppo.
Parecchie preoccupazioni inconfessate, ossessioni e turbamenti, ancora dissimulati in Prima della rivoluzione dalla profusione di metafore e di rime, sono qui esposti, denudati, con una disinvoltura e una “indecenza” subito accusate di compiacimento, quando questo, al contrario, consiste nel continuare a ricamarvi intorno. Nonostante la sua plasticità sontuosa, nonostante la determinazione di Bertolucci a condurlo perentoriamente a termine, Partner è un film dubitoso, gonfio, strapieno di umori e di sostanze, saturo di odori — sporcizia, saliva, sangue, merda, sperma, sudore — e traumatizzante, come prima di lui hanno scioccato Renoir con Nanà, Vigo con L’Atalante, Bergman con Il silenzio, Godard con tutto.
Non essendo questa una recensione, mi accordo eccezionalmente il diritto di adoperare la prima persona. Ho detestato Partner alla prima visione, come mi era raramente accaduto di detestare un film. Ci ho visto una sorta di immonda regressione nel compiacimento rispetto a Prima — il che d’altronde, come contraccolpo, mi rendeva Prima violentemente sospetto con le sue viltà color violetta di Parma e i suoi rinnegamenti deliziosamente dolorosi con coro verdiano sullo sfondo — e questo pesante brodo di cultura artaudiano-livinghiano, e quel Jekyll decisamente più attraente di Hyde, e quelle strizzatine d’occhio a Cocteau dipinte sulle palpebre, tutto questo mi sembra profondamente sudicio. All’uscita della proiezione, Jean-Marie Straub mi confessa allora che il film l’ha commosso fino alle lacrime, poi altre persone di cui stimo moltissimo il giudizio mi dicono anche loro che era magnifico. Un pochino sconvolta, torno a vederlo, sia pure non convinta, dico a me stessa che apprezzo la forma ma non il contenuto, non mi piace quello che dice ma amo il modo in cui lo dice. Cogliendo me stessa in flagrante delitto di stupidità, sono sicura che loro abbiano ragione e io torto, e non vorrei che scambiassero la mia posizione per civetteria. Ora penso che ciò che è bello in Partner (lo dice Narboni nella sua nota) è proprio che si tratta di un film che ha il coraggio di non essere pulito. In questo senso, trovo che va anche molto più in là di Renoir o Vigo, perché qui si parla della sporcizia reale, che odora peggio della pellicola: la sporcizia che c’è nell’essere borghese nel 1968. E questa, ci vorrebbero tonnellate di “liquidi ammoniacali” per eliminarla. Questo fa paura. Bisogna vedere Partner assolutamente, perché questa paura è salubre.
Il clou della Settimana dei Cahiers è indubbiamente Partner, il nuovo film di Bernardo Bertolucci, del quale non si è dimenticato l’ammirevole Prima della rivoluzione. Presentato all’ultima Mostra veneziana, Partner rappresenta, rispetto a Prima, insieme una totale rottura, sul piano stilistico e un singolare prolungamento, per quanto riguarda invece l’argomento, ispirato assai liberamente a un romanzo giovanile di Dostoevskij. Durante quasi due ore siamo testimoni di una esplosione. Esplosione della personalità e della soggettività, della quale è preda un giovane insegnante (il prodigioso Pierre Clémenti) nella sua lotta con l’angelo (non a caso il nome del protagonista è Giacobbe), anzi il demonio che lo possiede altro non è che lui stesso. Soliloquio a colori che sono i colori della lacerazione, del rifiuto di sé e del mondo (il film è sistematicamente punteggiato del blu e del rosso dei combattenti vietcong), i colori di un sogno in eruzione e di un delirante happening che si rifà, con una insistenza a volte eccessiva, ad Antonin Artaud, al Living Theatre e soprattutto al Godard più recente, quello del Bandito delle 11 o di Made in USA, col quale, per la natura delle sue invenzioni visive e per la sintassi, Partner offre curiose affinità ed evidenti parallelismi. Tuttavia, questo film di totale e violenta contestazione mi pare un film di compromesso nel suo anarchismo stesso, dove non mancano le civetterie estetiche, nei suoi compiacimenti da bambino capriccioso che gioca a fare a pezzi le porcellane. Non è in causa il talento di Bertolucci, però questo film — in cui manipola da virtuoso l’intera gamma di un linguaggio polifonico per dimostrare per via negativa ciò che nel linguaggio contraddice la realtà — può suscitare tanto esasperazione quanto ammirazione.
Partner inizia come un sogno e termina con un risveglio. La sua durata è quella di un lungo sogno agitato. La sua memoria si confonde con la nostra: ci troviamo a ricordare e a re-inventare vecchie sequenze dimenticate, innumerevoli tracce di sogni trascorsi. In compagnia di Giacobbe sogniamo e usciamo dal sogno continuamente. Ma ogni risveglio, lo sappiamo, registra un nuovo smacco e una nuova evidenza. La realtà non è cambiata, non si è piegata ai progetti che splendidamente ce la hanno ri-creata ventiquattro volte al secondo. Allora, senza voler rinunciare al vero, splendido privilegio del cinema, come poter mostrare il falso, qui e ora, prima della rivoluzione? Forse che fare un cinema autenticamente al servizio della rivoluzione significa rinunciare a quei temi che alla rivoluzione sono più vicini? Questa ipotesi paradossale sembra essere parzialmente verificata dal fatto che il cinema politicamente più avanzato, oggi, non è quasi mai un cinema sulla politica. E questa regola viene sconvolta dai Pâtres du désordre, viscerale conato fantastico di Nikos Papatakis; dal Partner di Bertolucci, atto a favore del potere dell’immaginazione rivoluzionaria; da The Edge di Robert Kramer, commento corale sull’azione rivoluzionaria e sulla sua (im)possibilità; da Deus e o Diabo na terra do sol, melodramma del sottosviluppo di Glauber Rocha, e presumibilmente dai troppi film brasiliani che non ho visto. Quello che Partner ci propone è una metodologia. Non arretra di fronte alla frustrazione, all’incertezza e all’irrazionalità perché questi dati che sono in noi, il nostro sgradito patrimonio storico, possono in potenza rovesciarsi contro chi li crea, li esclude e li rifiuta. Giacobbe può salvarsi senza più dover scivolare nel sogno. In Bertolucci il buio e la luce hanno tentato un incoraggiante scambio delle parti. Nell’oscurità e nell’abisso della nostra violenza irrazionale sta una piccola parte di salvezza. Partner risarcisce Murnau e proclama la vittoria di Nosferatu.
Bernardo Bertolucci aveva solo 28 anni e due film alle spalle quando diede vita a questo audace e sovversivo petardo sessantottino, che traspone Il sosia di Dostoevskij all’epoca della contestazione studentesca in Italia, dove l’instancabile e vampiresco Pierre Clémenti impersona un romantico ribelle senza causa, la cui coscienza radicale si risveglia il giorno in cui appare il suo doppio per spronarlo e per incitare al caos. Partner non è solo un energetico sberleffo, un fossile della frammentazione degli anni ’60, uno sconvolgimento cinematografico e una serie di ululati sub-marxisti, ma anche un “doppio”, edipicamente ossessionato dai pioneristici precedenti, della fase “cinese” di Godard, come pure dell’attualità contemporanea in Francia. (In uno dei numerosi extra del DVD, Bertolucci racconta che Clémenti tornava a Parigi ogni weekend e riportava il lunedì mattina sul set gli slogan contestatori inventati nei giorni precedenti). Opera presagio sia di Fight Club che del Doppelgänger di Kiyoshi Kurosawa, adornata di una colonna sonora di Morricone tanto deliberatamente disgiuntiva quanto lo è la narrazione, Partner chiaramente realizza l’unione aggiornata di Freud e Marx, e potrebbe proprio essere la prima opera consapevolmente lacaniana della storia del cinema.
Nei miei sogni hanno sempre molta importanza gli arredamenti e gli oggetti. Ecco perché i luoghi di Partner sono molto onirici, il luogo ideale essendo la camera di Giacobbe; un luogo dove tutto può accadere. Amo molto il caso. Degli scienziati hanno dimostrato che se si impedisce a qualcuno di sognare per una settimana, l’uomo impazzisce. I colori sono stati trattati nello stesso spirito dei décor. Mentre Prima della rivoluzione, film naturalista, aveva una luce bianca, impressionista, Partner, film onirico, diabolico, ha i colori della sua oscurità: blu e nero. Abbiamo girato tutto [in francese], in presa diretta; anzi credo sia uno dei primissimi film fatti da noi in presa diretta.
C’è una parte morale ed etica. Il mio sentimento è che non si può chiedere al mondo di cambiare se non si è chiesto per primo a se stessi di fare lo stesso sforzo. Bisogna contraddirsi, andare contro la propria natura. A mio avviso, Partner è un film più maturo, meno pessimista di Prima. Se l’uscita tardiva di Prima in Francia in fin dei conti ha giovato al film, penso invece che sia ancora troppo presto fare uscire Partner, che è un film liberatorio per gente libera. Di tutti i miei film, in ogni modo, è quello che preferisco.
Bertolucci era all’inizio della carriera, aveva 20 anni. Era spregiudicato, come tutti i giovani, e un po’ impertinente. Abituata con Germi, io contestavo i registi come lui. Poi invece sul set di Partner ho apprezzato subito la sua sensibilità e il suo istinto. Sono le due qualità che lo aiutano a realizzare i suoi film: da un momento all’altro cambia tutto, scena, personaggio, situazione. Il copione per lui è solo una traccia. Sarebbe quindi il tipo di regista da cui solitamente rifuggo, perché non so mai, se non quando mi trovo davanti al ciak, che espressione assumere. Eppure, con Bernardo non ho problemi: so che ci pensa lui a calarmi nel personaggio.