Lama Norbu – È una cosa molto rara, ma è già accaduta altre volte: una manifestazione separata del corpo, della parola e della mente. Nessuno di questi tre esiste senza gli altri. Ognuno di noi è collegato agli altri, come lo è il mondo all’universo. Ma ricordatevi questo: la cosa più importante di tutte è provare compassione per tutti gli esseri, donare se stessi e soprattutto trasmettere la conoscenza, come il Buddha.
Un bambino di Seattle, Jesse Conrad, viene individuato da un gruppetto di religiosi tibetani quale possibile reincarnazione del Venerabile Lama Dorje, deceduto otto anni prima in esilio negli Stati Uniti. Benché inizialmente reticente, il padre di Jesse finisce per accettare l’invito dell’anziano Lama Norbu di accompagnare suo figlio nell’Himalaya, dove risulta che li aspettano altri due giovanissimi “candidati” locali. Intanto continua a svolgersi parallelamente, attraverso una serie di coloritissimi flashback ispirati all’iconografia indiana, l’antica leggenda del principe Siddhartha – divenuto poi il Buddha –, così come Norbu la racconta ai suoi tre protetti: dalla nascita miracolosa dell’erede del trono dei Shakya all’episodio dell’”Illuminazione”, dopo la scoperta della povertà, della malattia e della morte, la fuga dal palazzo e gli anni di meditazione nella foresta…
I viaggiatori, una volta giunti a destinazione, in un monastero in fondo a una valle dimenticata dal tempo nel piccolo regno del Bhutan, si cimentano subito con le varie prove, tra cui l’oracolo che deve stabilire quale dei tre bambini andrà considerato la vera e propria reincarnazione del defunto Lama Dorje. Più che l’esito finale di questa imprevedibile gara importerà il fatto che Jesse, reduce dal suo viaggio iniziatico sul Tetto del Mondo, si dimostri ugualmente portatore di valori che a priori non erano suoi.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci, Rudy Wurlitzer e Mark Peploe, da un soggetto di Bernardo Bertolucci con Fabien Gerard e Giovanni Mastrangelo
Ven. Jamyang Khyentse Rinpoché [Khyentse Norbu], Matthieu Ricard [n.a.], Nicky Vreeland [n.a.], George Churinoff [n.a.]
(Technicolor, Technovision/Todd-AO, 35mm/ 65mm, 2.35:1 / 2.20:1 (copie 70mm) Vittorio Storaro; operatori Enrico Umetelli, Fabio Zamarion, Nicola Pecorini (steadicam)
James Acheson, con Gianni Giovagnoni, Andrew Sanders, Steve Simmonds; arredamento Bruno Cesari, Manohar Shrestha
James Acheson, con Frank Gardiner
Pietro Scalia, con Fabrizio Palmisano, Elvio Sordoni, Chisako Yokoyama
Ryuichi Sakamoto; Chandranandan di Ali Akbar Khan, Raga jog di Shiv Kumar Sharma (santur), Zakir Hussain (tabla), Sarah Was Ninety Years Old di Arvo Pårt, Stanley Ducal; canzone Let the Mystery Be di Iris DeMent
Richard Conway, con Val Wardlaw (CGI)
(Dolby Digital) Ivan Sharrock, con David Motta, Don Banks
Giuseppe Bertolucci [n.a.], Nicola Pecorini
Serena Canevari, Fabrizio Castellani, con Marco Guidone, Leonardo Celi, Metka Kosak; Lynn Wegenka, John Leonetti, Elisa Sansalone (Seattle)
Suzanne Durrenberger, con Fabien Gerard
Angelo Novi, Alessia Bulgari, Basil Pao, Peter Riches (Seattle)
Randall Balsmeyer, Sue Ausner e Pauline Hume
Alex Wiesendanger (Jesse Conrad), Bridget Fonda (Lisa Conrad), Chris Isaak (Dean Conrad), Ying Ruocheng (Lama Norbu), Jo Champa (Maria), Sogyal Rinpoché (Kempo Tenzin), Ven. Khyongla Rato Rinpoché (abbate), Ven. Geshe Tsultim Gyelsen (Lama Dorje), Jigme Kunsang (Champa), Thubtem Jampa (Punzo), Raju Lal (Raju), Greishma Makar Singh (Gita), T.K. Lama (Sanjay), Surehka Sikri (madre di Gita), Doma Tshomo (monaca), Ven. Dzongsar Khyentse Rinpoché (giovane monaco), Mantu Lal (Mantu); scena eliminata dal montaggio definitivo Orgyen Tobgyal Rinpoché
Keanu Reeves (Siddhartha), Rudraprasad Sengupta (Re Suddhodana), Kanika Pandey (Regina Maya), Madhu Mathur (Prajapathi), Rajeshwaree (Yasodhara), Bhisham Sahni (Asita), Santosh Bangera (Channa), Vijay Kashyap (Vizir), Anupam Shyam (Mara), Anu Chettri, Kavita Hahat, Tarana Ramakrishnan, Sadiya Siddiqui, Anita Takhur (figlie di Mara), Rashid Mastaan (mendicante), Nagabab Shyam, Chitra Mandal, Mahana Amar, Narmadapuree Kumar Lingeshewer (asceti), Nirmala (contadinella)
Jeremy Thomas per la Sahara Ltd Co. (Londra) / Ciby 2000 (Parigi); produttore esecutivo Chris Auty; direttori di produzione Attilio Viti, John Bernard, Feroze Alameer; organizzazione generale Mario Cotone
Penta
135′; edizione USA: 117′
Katmandu, Bhaktapur, Gokarna Forest Park, Chitwan National Park-Terai (Nepal), monastero di Paro (Bhutan), Seattle (USA); settembre 1992-febbraio 1993
10 dicembre 1993
Poche ore dopo la consacrazione a Hollywood dell’Ultimo imperatore era stato proposto a Bertolucci un nuovo biopic di grande respiro dedicato, questa volta, alla figura di Buddha. Benché il regista fosse rimasto affascinato dall’idea, un “disaccordo artistico” col produttore in questione doveva convincerlo a ritirarsi dal progetto, appena compiuto Il tè nel deserto, per focalizzare invece la sua attenzione sulla notizia di un bimbo spagnolo ritenuto la reincarnazione di un Lama tibetano… Donde la scommessa, assai imprevedibile da parte dell’autore di Ultimo tango a Parigi, di immaginare la “favola moderna” di Piccolo Buddha, indirizzata anzitutto al pubblico giovane.
Mescolando, tra l’altro, i ricordi di Francesco giullare di Dio con quelli della Cleopatra di Mankiewicz, e l’occhio renoiriano di Satyajit Ray con lo spirito fanciullesco di un Zoltan Korda o di uno Spielberg, il capitolo conclusivo della trilogia bertolucciana sarà il bersaglio di numerosi critici per il suo tono dichiaratamente didattico e naïf, e soprattutto per i “buoni sentimenti” in esso contenuti. Se i “pasoliniani” avranno riconosciuto in Piccolo Buddha alcune precise location di Katmandu già viste nel Fiore delle mille e una notte, i fan di Scorsese o di Jean-Jacques Annaud sanno quanto Kundun e Sette anni in Tibet debbano alla strada aperta dal loro collega italiano. Nel frattempo, il consulente buddhista del film, il Venerabile Jamyang Kyentse Rinpoché, è diventato egli stesso il primissimo regista bhutanese con titoli quali La coppa (1999), Maghi e viaggiatori (2004), o ancora Looking for a Lady with Fangs and a Moustache (2019). [F.G.]
Piccolo Buddha sorprenderà non pochi ammiratori di Bertolucci perché rompe radicalmente con l’immagine consacrata che si attacca al suo cinema. In effetti, fino al Tè nel deserto, due anni fa, l’autore dell’Ultimo imperatore ci aveva abituati a vederlo penetrare nelle viscere dell’animo umano, esprimere l’incredibile complessità del suo funzionamento. Questo suo nuovo film ha tanto più peso che Bertolucci nega di essere un proselito del buddhismo. Piccolo Buddha è piuttosto un’opportunità per colmare l’ignoranza del pubblico occidentale a proposito di una figura che, da 25 secoli, rappresenta il maestro del pensiero, il fondamento etico di una gran parte dell’umanità. E anche se è un po’ umiliante per noi spettatori ritrovarci qui nella posizione del “bambino”, è possibile avvicinarsi alla fiaba contemporanea di Piccolo Buddha secondo varie angolazioni. Dietro l’affresco storico e la sua dimensione culturale, il film si inserisce, come Fiorile dei Taviani o Piovono pietre di Ken Loach, in un’ondata alla ricerca di un’altra sponda. Le ideologie sono andate in fallimento, il consumismo non fa la felicità, qualsiasi conflitto porta necessariamente alla frustrazione e la crescita crea anche gli esclusi. Bertolucci tenta di intravedere, al di là del culto della religione economica (e del suo dio Dollaro), ciò che potrebbe procurarci più soddisfazione e pace interiore che una macchina nuova ogni quattro anni, due settimane a Ibiza o il calo di un quarto di punto del tasso di sconto. E grazie a Buddha, non ha la pretesa di aver trovato la soluzione.
Avvince il respiro unitario che fonde il gusto meraviglioso dei quadri metastorici con gli inserti inquietanti del nevrotico presente. Tanto da farci scrivere in prima battuta, e qui lo confermiamo, che in Piccolo Buddha ci sono due film; un affresco spettacolare alternato alle sequenze di un “family plot” minimalista, De Mille più Antonioni. Si ammira la versatilità delle luci di Vittorio Storaro, non solo nell’evocazione dell’India ancestrale ma anche in quella vibrante Seattle protesa sull’Oceano verso l’Asia; e, ovviamente, si apprezzano le scene e i costumi di James Acheson e le musiche di Ryuichi Sakamoto. Rifulge la bravura degli attori, a cominciare dal cinese Ying Ruocheng nella parte del Lama, proseguendo con Keanu Reeves che fa di Siddhartha una stupenda icona, e senza dimenticare i moderni Chris Isaak e Bridget Fonda; nonché il ragazzino Alex Wisendanger e i suoi amichetti orientali, depositari del dono comunicativo di vivere ludicamente un’ineffabile esperienza spirituale. E benché Bertolucci abbia più volte affermato che la sua opera è il contraltare di Jurassic Park, il che in parte è vero essendo il film incomparabilmente più colto, sofisticato e (vogliamo dire la parola che disturba gli americanofili nostrani?) “europeo”, piuttosto che dal buddhismo il nostro ci sembra condizionato proprio da quella particolare forma della cinereligione che ha per fondatore Disney e per profeta Spielberg. Nel senso di puntare a un cinema fatto per incantare grandi e piccini, per attirare frotte di appassionati, creare nuove vocazioni e restaurare in un momento di crisi la prevalenza del grande schermo. Su tale piano Bertolucci ha fatto un viaggio altrettanto straordinario di quello dal marxismo al misticismo, coprendo l’enorme distanza tra il cinema per pochi e il cinema per molti. Con qualche apprensione, tenacemente autoriale, che i molti non diventino troppi.
Dopo due ore di elegante freddezza o di programmatico colore (non c’è un sospetto di manicheismo nel fatto che Bertolucci e Storaro abbiano scelto per Seattle i toni grigi e blu da sempre associati con la depressione e per l’Oriente i toni più caldi e festosi?), la serena preparazione di Lama Norbu alla morte che sente arrivare e l’immagine della sua testa accanto alla testolina bionda di Jesse nella cerimonia che lo riconosce come una reincarnazione del maestro, sono finalmente due situazioni appassionate e sincere in un film che resta strutturalmente controllato e distaccato anche quando racconta con un tripudio di colori e di effetti speciali gli episodi della vita di Siddhartha. Si direbbe quasi che Bertolucci, dopo aver costruito un gigantesco parco delle meraviglie orientali, abbia sentito il bisogno di un maggior rigore, di un’autocensura, ritagliando drasticamente quanto di pagano, sontuoso, sensuale faceva assomigliare Piccolo Buddha all’Ultimo imperatore per restituirlo alla sua dimensione di leggenda. “Se tendi la corda oltre misura si spezzerà; se la lasci troppo lenta non suonerà”, dice la saggezza buddhista. Ma scegliendo la saggezza della via di mezzo Bertolucci non convince del tutto, non riesce a comunicare, quantomeno allo spettatore laico occidentale, il sentimento di “compassione” su cui si basa il messaggio buddhista. E se il vero finale dei molti del film è la cerimonia che, in un fulgore di riti religiosi descritti con grande sapienza registica, riconosce che il grande Lama defunto si è reincarnato in tutti e tre i bambini, la conclusione più toccante è quella che arriva alla fine dei titoli di coda: quando una mano spazza via d’un sol colpo il mandala di sabbia pazientemente costruito dai monaci. La vita è fragile, è polvere. Come d’altronde diceva anche il Vangelo.
Bertolucci, quando parla di bambini, dà sempre il meglio di sé, come nell’Atto I di Novecento e nella prima parte – la più bella – dell’Ultimo imperatore. Qui, lo fa giocando anche due scommesse cinematografiche di grande impegno. E vincendole entrambe, a nostro parere. La prima: legare l’Oriente e l’Occidente, una città modernissima come Seattle e il Bhutan dei monasteri, con l’aggiunta dell’India fantastica “sognata” da Jesse. Bertolucci confessa tre modelli, uno per ciascun ambiente: Antonioni per le scene girate a Seattle (la casa vuota, le luci fredde orchestrate da un Vittorio Storaro più bravo che mai), il Francesco giullare di Dio di Rossellini per le sequenze del monastero, il cinema visionario di Powell & Pressburger (soprattutto Narciso nero) per la parte indiana.
Tutto condivisibile, ma certo i momenti più emozionanti del film sono i passaggi da un ambiente all’altro, risolti con bellissime soluzioni di montaggio (non è un caso che in moviola ci sia un premio Oscar, quel Pietro Scalia che ha magistralmente montato JFK di Stone).
La seconda scommessa, ancora più difficile: narrare una storia priva dei conflitti su cui si basa, per convenzione, la drammaturgia cinematografica occidentale. In Piccolo Buddha tutti i personaggi sono buoni e tolleranti, ciò nonostante il film non è melenso. Pur con dei mezzi e uno spiegamento degni di una produzione hollywoodiana, Piccolo Buddha è assai più “orientale” dell’Ultimo imperatore. Anche se l’assoluta purezza Zen non è raggiungibile, forse, da un occidentale (ah, potersi rivedere quel gioiello di Perché Bodhidharma è partito per l’Oriente, apparso nei nostri cinema come una meteora…). Ma il film di Bertolucci è un primo passo verso l’apertura a culture diverse dalla nostra. E senza un primo passo, non si comincia mai a camminare.
Incuriosito dalla dottrina buddista della reincarnazione, Bernardo Bertolucci ha optato per una narrazione favolistica; una soluzione che favorisce l’innamoramento e insieme il distacco dall’oggetto considerato. Una curiosità intensa, una vampata d’amore e poi, con il semplice movimento della mano, un sogno si disfa, il disegno scompare, un lavoro che ha richiesto giorni e giorni svanisce: proprio come il mandala elaborato dai monaci che, alla fine dei titoli di coda, viene cancellato. Il metodo adottato da Bertolucci impedisce al film di immergersi in una cultura che, tutto sommato, gli è estranea. E, innamoramenti a parte, lui lo sa. Di preciso, in testa, ha solamente la sensazione del vuoto e del pieno (concettualmente, l’idea meglio espressa nel film). Come altri intellettuali sconcertati da un contesto che si modifica paurosamente senza chiedere loro consiglio, confronta, con contrapposizione anche manichea e volutamente acritica, un mondo che condiziona e determina gli individui e un mondo che dagli individui è controllato. E lo fa procedendo non per via di logica bensì abbandonandosi all’attrazione dei colori, alle suggestioni del sogno. In un enunciato espresso a chiare lettere durante il film, ricorre a un verbo e lo sottolinea: capire. Ma, di fatto, nella costruzione di quello che resta un sogno a occhi aperti, un altro proposito lo guida: intuire. Come a dirci che, alla fin fine, ciò che conta è rispondere, ognuno secondo le proprie possibilità, a un richiamo, avviare una riflessione su se stessi e proiettarne i risultati nell’universo che ci circonda.
Il brano di cinema più bello e più significativo di Piccolo Buddha arriva dopo lunghi titoli di coda, quando un gesto cancella il mandala di sabbia, raffinato mosaico fabbricato nella materia più caduca. Le opere dell’uomo, vuol dire Bertolucci sono destinate alla distruzione: se è vero che il destino non è uguale per tutti, un sano esercizio spirituale si raccomanda agli uomini del cinema – specie quelli europei – convinti di incidere le proprie immagini sul marmo anziché su pellicola. Del film interessa meno la sinossi buddista, attraverso cui la messinscena deve passare prima di liberarsi nelle sequenze di puro fiabesco. Con questa intuizione geniale, il film si esaurisce e i successivi finali con la cerimonia che accomuna tutti e tre i prescelti, la morte del Lama e lo spargimento delle sue ceneri si limitano a trasmettere un senso lineare e lirico del samsara, il ciclo infinito delle morti e delle nascite. Bertolucci ha voluto costruire un poema sulle contraddizioni della conoscenza, sull’interesse di una cultura verso le altre, sul nodale rapporto tra convinzione adulta e apertura mentale infantile. Rispetto ai due capolavori precedenti, però, l’ultimo capitolo della trilogia appare sin troppo fiducioso, espurgato di quelle zone di pathos stilistico e di suspense morale che rendevano trascinante la grandiosità delle immagini.
La messa in scena del racconto mitologico di Siddhartha/Buddha era, certo, una tentazione per un regista facilmente sedotto dall’orientalismo. La scarsità di documenti autorizzava tutte le ri-creazioni più esotiche. L’ampiezza dei mezzi da impiegare per la realizzazione dell’opera (scenografie imponenti, folle di comparse, lusso dei costumi e degli oggetti) poteva congelare la mise en scène in una certa staticità, bloccarla in un accademismo rispettoso degli “splendori dell’Oriente”. Bernardo Bertolucci non ha evitato gli scogli del soggetto. Era necessario passare attraverso questa uniformazione e questa semplificazione per trasmettere al grande pubblico – soprattutto anglosassone – un film di tale portata? Senza dubbio; però la personalità del regista si dissolve film dopo film nell’ambito di questi kolossal, cui portano il loro contributo, certo, i migliori collaboratori artistici, ma dove l’invenzione sparisce dietro lo sfarzo dei mezzi. Dopo L’ultimo imperatore e Il tè nel deserto, già molto discutibili, Bertolucci si fa intrappolare dal dispositivo stesso che ha messo in piedi.
La vera sfida per un cineasta sta nel creare quelle che Wim Wenders ha chiamato “emotion pictures”: film che ci commuovono in modo fresco, con immagini che parlano ai cuori intelligenti. Bernardo Bertolucci realizza tali emotion pictures. Egli illustra argomenti complessi con immagini incancellabili, seducenti, affascinanti. E col suo dodicesimo film, Piccolo Buddha, l’autore ha firmato la sua dichiarazione più chiara su cosa voglia dire vedere le cose – letteralmente vederle – nel suo particolarissimo modo. Il plot potrebbe facilmente trasformarsi in una storia di lavaggio del cervello come fanno certe sette o, almeno, un provino spielberghiano per la qualità divistica spirituale. Ma Bertolucci è di mente straordinariamente aperta; è pronto a prendere in considerazione e quindi ad accettare le credenze e i ritmi di un’altra, più antica cultura. Siddhartha è interpretato in modo imprevedibilmente persuasivo da Keanu Reeves, un’altra delle scelte eccentriche ma vincenti del regista in Piccolo Buddha. Bertolucci è sempre stato interessato meno a raccontare una storia di prevedibile coerenza che non a evocare sensazioni forti. Le sue epiche politiche sono in realtà melodrammi interiori di gente ordinaria soverchiata da eventi travolgenti; i suoi studi intimi di disperazione sessuale parlano in realtà dei luoghi – appartamenti di Parigi oppure le profondità del Sahara – dove personaggi turbati si perdono. Piccolo Buddha è una storia di gente davvero ordinaria, tre bambini moderni che si innalzano a grandi compiti spirituali, e i genitori di Jesse che imparano a confrontarsi con verità molto più grandi dei loro propri problemi. Dopo trent’anni passati a fare film appassionatamente scettici, Bertolucci ha firmato qui un’opera della più sofisticata semplicità. Il suo trionfo sta nel farci vedere il mondo del Buddhismo attraverso i suoi occhi. Risplende come innocenza reincarnata.
In quest’ultimo film, forse non ancora compreso come merita, mi sembra che le pulsioni fondamentali alla base del cinema di Bernardo – la sete di una terra di libertà e lo scavo in essa del senso di un destino – tocchino il loro apice lirico e la loro espressione morale più alta. Il punto-chiave della vicenda di Siddhartha, benissimo colto dal regista, è che rigettare la falsa libertà (gli ori e l’ipnosi del potere) non è sufficiente per trovare l’autentica liberazione: l’uomo corre sempre il rischio di scivolare da un estremo all’altro, da una categoria ideologica a quella opposta; ma se la verità non risiede nella troppa ricchezza, non sta nemmeno negli eccessi dell’ascetismo. Nella scena cruciale del film, Siddhartha, udendo da un musico di passaggio come occorra un giusto equilibrio per accordare gli strumenti giunge di colpo a intuire che solo una “via di mezzo” può condurre alla verità. In questo preciso istante egli inizia a decantare la sua figura di destino, cioè essere il Buddha, colui che insegnerà agli uomini l’autentica tolleranza, il distacco equanime della mente di ogni estremismo, la libertà “al di là del bene e del male”.
Io, da bambino, ero immortale, e come me tutti gli amici di allora. Ciò nonostante avevamo tutti un’idea segreta della morte che si rivelava quando fingevamo di morire ma in modo eroico e alla fine il gioco esorcizzava tutto. Oggi che l’accesso alla morte è immediato attraverso i mass media, i bambini sono terrorizzati perché non sentono più di essere immortali. Ed è per questa ragione che l’idea della reincarnazione come rassicurazione è per loro eccitante e insieme esilarante. Mi spiego: sono consapevole che digerire la lezione tibetana è difficile, ma so anche che questi valori fanno scattare una serie di associazioni di idee utili a vivere meglio; a combattere, per esempio, la morale consumistica dell’usa e getta. Non è un caso che nella reincarnazione non si getta niente. Mi sono chiesto più volte: io dove sto se l’Occidente insegna la paura della morte e se l’Oriente vive la reincarnazione come la condanna a ritornare nel ciclo infernale di nascite e morti, ri-nascite e ri-morti, tranne per quei pochi che riescono a raggiungere l’Illuminazione e il nirvana? Ebbene, penso di avere trovato un piccolo posto proprio sullo spartiacque tra queste due posizioni e di avere imparato a credere nell’idea dolce di reincarnazione intesa come pensiero che rimane, che muta, che viene raccolto e trasmesso da altri.
Oggi il cinema è diventato un mezzo così potente che consente di toccare milioni di esseri umani in tutto il mondo. Il film di Bernardo Bertolucci può così aiutare a creare un’immagine della vita di Buddha nello spirito di tutti coloro che lo vedranno. Io stesso ho visto, un giorno, una pellicola su Gesù che mi ha donato una visione più viva e concreta della figura di Cristo. La mia comprensione del suo insegnamento ne è stata arricchita. Allo stesso modo mi auguro che Piccolo Buddha possa avere un impatto similare sugli spettatori. Personalmente non considero la reincarnazione dei Lama un’istituzione primordiale. Importa invece che gli insegnamenti siano trasmessi da persone sincere e qualificate. Se, come nella finzione di Bertolucci, la reincarnazione si realizza in un piccolo occidentale, va rispettata comunque la sua cultura di origine. Tuttavia, in casi del genere esiste pur sempre il pericolo di mettere il bambino in uno stato di confusione che può turbare la sua identità. Questa è una responsabilità che pesa sulla sua famiglia, sia essa buddhista o no. È molto importante poi che gli individui in questione non cedano alle propensioni umane che li spingerebbero a criticare la religione in cui sono nati per giustificare la loro nuova scelta. Ognuno, anche se si distacca dalla sua religione precedente, deve rispettare il fatto che essa continui a nutrire spiritualmente milioni di altre persone. Sono senza dubbio tutti questi problemi che si pongono i genitori di Jesse in Piccolo Buddha.
Prima di tutto va detto che conoscendo Bernardo Bertolucci ho conosciuto la persona più straordinaria al mondo. Lo avevo sempre ammirato per i suoi film: mi ha raccontato la storia di Piccolo Buddha e nel farlo risplendeva; sembrava fosse stato immerso in sangue spirituale. Era così entusiasta di quel film e mi ha detto che voleva che andassero a vederlo i bambini. Ho avuto la parte. Sono stato impegnato nelle riprese per circa 85 giorni — è stato un grande dono per la mia vita. Solo meditare è stato illuminante; ero convinto che la vita fosse solo svegliarti, vivere, lavorare, amare, mangiare e dormire, ma c’erano interi universi di cui non sapevo nulla. E ho viaggiato – in Nepal e in altri posti incredibili.
Sapevo che Il tè nel deserto era stato montato su Laser Disc ma già al telefono Bertolucci mi disse che avrebbe preferito montare Piccolo Buddha in pellicola. Si procede più velocemente in elettronica e non so se sia un bene. Io preferisco avere più tempo per pensare quando devo fare un taglio. E a Bernardo, come a me, piace vedere la pellicola, toccarla, sentirne il profumo. Un vantaggio dell’elettronica è quello di avere varie alternative del montaggio della stessa sequenza da mostrare al regista. Con Bernardo però questo non è necessario perché la struttura della scena è stata già creata al momento della ripresa. Nelle sue inquadrature, nella sensualità dei movimenti della macchina da presa esiste il disegno concettuale del racconto. Quando guardavamo i giornalieri, mi chiedeva di ritrovare questo suo disegno attraverso le immagini, di scoprirlo. E per me, ogni volta, era una sorpresa molto emozionante.
La ragione che fa di Piccolo Buddha un evento dal punto di vista della tecnologia cinematografica è questa: siamo di fronte al primo film di grande rilevanza dai tempi di Lawrence d’Arabia, girato su una pellicola a 70mm, cioè una pellicola il cui formato consente dei risultati sia di definizione e nitidezza dei dettagli, che di spettacolarità dell’insieme di gran lunga superiori al tradizionale CinemaScope a 35mm. Tutte le sequenze che raccontano le vicende originarie di Siddhartha sono state effettivamente girate su una pellicola a 70mm, della quale avevo già avuto un’esperienza breve ma intensa lavorando con Francis Coppola e George Lucas sul cortometraggio Captain Eo, con Michael Jackson (visibile solo nei parchi Disneyland). All’inizio della produzione di Piccolo Buddha ho cercato quindi in tutti i modi di convincere Bernardo e il produttore Jeremy Thomas a entrare nel mondo del 70mm.