All’inizio si vedono solo le scarpette rosse. Le punte. Di un rosso Ferrari. Sportive ma aristocratiche. E poi la telecamera si concentra sui sampietrini. Tanti. Miserabilmente sconnessi. E le buche come piccoli crateri e i tombini quasi staccati dal manto stradale. Un uomo siede sulla carrozzina da disabile, ma si vedono solo le scarpe rosse. Ci sono le gomme delle ruote che ansimano, soffrono, quasi urlano tra quei selci sconnessi, quelle bottiglie vuote abbandonate. Si avverte lo sforzo del piccolo motore che le spinge quasi senza speranza. Avanti e indietro. Avanti e indietro. Come un leggero grido di dolore, un sussurro di impotenza. Rassegnazione e rabbia. Poi il rumore della carrozzina viene coperto dalla morbida voce di Charles Trenet: “Je chante, je chante…”, anno 1937.
Siamo a Trastevere, nel cuore più bello e più antico di Roma. Sulla carrozzina è seduto Bernardo Bertolucci, regista di sogni, memoria, bellezza e azzardi. Il video dura un minuto e mezzo e fu presentato lo scorso anno al Festival di Venezia (“Red Shoes” è il titolo) assieme ad altri 67 supercorti in omaggio al 70° della Biennale. Ma è come se fosse ancora clandestino e Bertolucci lo mostra con orgoglio nel grande salone di casa sua (“Questa è la più bella sala di proiezione di tutta Roma. Non le pare?”, sorride).
Il supercorto è un colpo al cuore, una invocazione disperata, un estremo appello ad una città che sogna un’altra Roma, moderna, metropolitana, attenta alla storia e alle bellezze. Una città vera e di grande dignità. Il video non l’ha praticamente mai visto nessuno.