Matthew – Tutti abbiamo un padre.
Théo – Si… ma il fatto che Dio non esiste non significa che lui possa prendere il suo posto.
Parigi, primi giorni della primavera 1968: una coppia di gemelli ventenni, Isabelle e Théo, stringe amicizia con uno studente californiano durante una manifestazione davanti alla Cinémathèque Francaise contro il licenziamento del mitico direttore Henri Langlois. Approfittando dell’assenza dei genitori, i gemelli invitano Matthew – il nuovo amico – a stare con loro a casa. Nell’appartamento borghese, dove i tre si ritrovano per la prima volta completamente esenti dall’autorità parentale e quindi liberi di agire come vogliono, Théo e Isa fissano subito le regole di uno strano quiz cinefilo, allo stesso tempo innocente e perverso, che li porta ad esplorare i limiti della propria identità emozionale e sessuale. L’eccitazione dei sensi e delle menti va crescendo, finché Matthew si ribella, minacciando di rovesciare il rapporto di forza che lo oppone ai gemelli…
Una sera, esaurita la paghetta di papà, e consumati gli ultimi avanzi, Isa, mezzo ubriaca, accende il gas, progettando disperatamente di “suicidare” anche i due maschi addormentati al suo fianco dentro la tenda orientaleggiante da lei montata nel bel mezzo del salone, quando un sampietrino lanciato dalla strada infrange inaspettatamente la finestra del salotto. Tirati fuori in extremis dal sonno senza ritorno nel quale si stavano inoltrando, i tre girano le spalle alla loro tana diventata un vero porcile e corrono giù per unirsi alla folla dei giovani arrabbiati in procinto di scontrarsi con le forze dell’ordine, sognando di rifare il mondo sulle prime barricate dello storico Maggio parigino.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci e Gilbert Adair, dal romanzo The Holy Innocents (1988) di Adair
(Technicolor, 35mm, 1.85:1) Fabio Cianchetti; operatore: Luigi Andrei (anche steadicam), Eugenio Galli, Pierre Morel (Super 16), Nick Quinn (DVCAM)
Jean Rabasse, con Pierre Duboisberranger; arredamento Camille Bougon-Pigneul, con Eric Viellerobe
Louise Stjernsward
Jacopo Quadri, con Valerio Bonelli, Aline Hervé
brani dalle colonne sonore di Martial Solal per Fino all’ultimo respiro, Jean Constantin per I 400 colpi e Antoine Duhamel per Il bandito delle 11; canzoni Third Stone from the Sun di Jimi Hendrix, I Need a Man to Love di Janis Joplin, The Spy dei Doors, Song for Our Ancestors dalla Steve Miller Band, Dark Star da Grateful Dead, La Mer di Charles Trenet, Love Me, Please Love Me di Michel Polnareff, Tous les garçons et les filles di Françoise Hardy, Je ne regrette rien interpretata da Edith Piaf, Hey Joe di Hendrix interpretata da Michael Pitt & The Twins of Evil, L’Internationale di Eugène Pottier e Pierre Degeyter
(Dolby Digital) Stuart Wilson
Serena Canevari, Eric Bartonio, con Henrique Laplaine, Alexandre Schmitt, Lucinda S. Agar, Andrea De Sica, Lola Peploe, Andre Ristum [n.a.] Edizione Suzanne Durrenberger, Fabien Gerard
Séverine Brigeot, Roberto De Paolis
Eva Green (Isabelle), Louis Garrel (Théo), Michael Pitt (Matthew), Robin Renucci (padre), Anna Chancellor (madre), Jean-Pierre Léaud (se stesso), Jean-Pierre Kalfon (se stesso), Pierre Hancisse, Valentin Merlet (cinefili), Florian Cadiou (Patrick), Ingy Fillion (ragazza di Théo), Lola Peploe (maschera al cinema Mac-Mahon), Lucinda Agar [n.a.] (concierge), Veronica Lazar [n.a.], Bruce Sklarew [n.a.] (spettatori alla Cinémathèque), Gilbert Adair [n.a.] (visitatore al Louvre)
Jeremy Thomas per la RPC [Recorded Picture Company Ltd] / Peninsula Film / Fiction Film / Medusa Film; coproduttore John Bernard; produttori associati Hercules Bellville, Peter Watson; direttore di produzione Frédéric Bovis
Medusa
115′; edizione USA: 112′
Parigi: Pont d’Iena, Jardins du Trocadéro, Palais de Chaillot, Avenue Président Wilson, Rue Malebranche, Passerelle Debilly, Place de Rio de Janeiro, Avenue de Messine, Sorbonne; luglio-settembre 2002
10 ottobre 2003
Il corridoio della paura (Fuller, 1964), Fino all’ultimo respiro (Godard, 1960), La regina Cristina (Mamoulian, 1933), Luci della città (Chaplin, 1931), Io e la scimmia [The Cameraman] (Keaton, 1928), Bande à part (Godard, 1964), Scarface (Hawks, 1932), Freaks (Browning, 1932), Venere bionda (von Sternberg, 1932), Gangster cerca moglie (Tashlin, 1956), Mouchette (Bresson, 1967)
La scoperta del romanzo semi-autobiografico dell’ex critico scozzese Gilbert Adair, The Holy Innocents, offre a Bertolucci l’opportunità di riciclare almeno in parte il progetto di dare un ideale seguito a Novecento, centrato, appunto, sulla generazione del ’68. Più che altro però The Dreamers appare una specie di eco nostalgico dei tempi di Partner e di Ultimo tango, girato anch’esso, appunto, nella capitale francese. Non c’è da stupirsi comunque che il film, scritto a quattro mani da cinefili impenitenti quali Bertolucci e Adair, voglia essere pure un omaggio a tutta la Nouvelle Vague, da I 400 colpi di Truffaut a Fino all’ultimo respiro, Bande à part e La cinese di Godard, attraverso Jules e Jim e Il cugino di Chabrol, o ancora Les Enfants terribles di Melville (scritto da Cocteau) e Gioventù bruciata di Nicholas Ray…
Tra gli “amici” in visita sul set, si ricordano Anna Karina, Agnès Varda, Anne Wiazemsky, la neoregista Valeria Bruni Tedeschi, o ancora Gus Van Sant, allora di passaggio a Parigi. D’altra parte, va notata la significativa similitudine di qualche scena del film col contemporaneo Ken Park di Larry Clark. [F.G.]
Nei Dreamers non c’è il Progetto rivoluzionario, non c’è l’unità operai-studenti, non c’è l’internazionalismo contro il Capitale. C’è il momento aurorale appunto, in cui tutto questo è ancora a venire, e una più grande “pulsione visionaria utopica” lo rende possibile, pensabile, fattibile. Corpo, politica, cinema, musica, sessualità, filosofia: erano questi gli ingredienti di quel “focolaio magico” che preparò l’esplosione del Sessantotto nella vita pubblica come in quella privata. Desiderio erotico, desiderio di sapere, desiderio di esistenza unita. Personale e politico indissolubilmente legati nel sogno della rivoluzione di tutto. Altro che fallimento, polemizza Bertolucci con la sua stessa generazione che non riesce a restituire quel focolaio magico ai figli e ai nipoti: “da allora niente è stato più come prima, non c’è diritto rivendicabile oggi che non sia piantato nella libertà che ci prendemmo, senza che nessuno ce la desse, allora”.
Mi spiace per il mio amico Tullio Kezich, ma anche del nuovo film di Bernardo Bertolucci devo dire, brandendo il Manganelli: “non l’ho visto e non mi piace”. Tullio, che quella storia di sognatori di 35 anni fa l’ha recensita addirittura due volte sul Corriere della Sera, troppa grazia Sant’Antonio, mi rimprovera sempre per queste arroganze. Dice che dietro un film c’è sempre un duro e onesto lavoro, e che non si sputazza sulla fatica umana. Secondo me mente, sa che grandi critici teatrali hanno recensito per decenni spettacoli durante i quali avevano e dormito e russato. Secondo me, anche lui qualche volta sonnecchia e poi gli capita di scrivere cose non stupide sul cinema sognato.
Senza nostalgia né infatuazione, un uomo – Bertolucci – esamina il proprio passato ma non ci affonda dentro per lealtà verso una versione giovanile di se stesso. Edith Piaf conclude la storia cantando Je ne regrette rien, ma si potrebbe altrettanto canticchiare un’aria di Trenet: “Fidèle, fidèle, je suis resté fidèle…” Sul metro di questa perennità, è significativo che due dei tre eccellenti interpreti siano Louis Garrel, figlio del regista Philippe e nipote dell’attore Maurice, ed Eva Green, figlia di Marlène Jobert e di William Green, che recitò in Au hasard, Balthazar per Bresson. Quanto a Michael Pitt, è tutta la dinastia dei grandi americani che ribolle in lui, per primo Brando.
Quando si ama la vita non si va al cinema, sembra dire il film. Ma per fortuna è molto meglio di questo: vivere la propria vita significa, per dirla con Cartesio, dubitarne, poiché non ci sono indizi concludenti dai quali è possibile distinguere nettamente la veglia dal sonno. The Dreamers, manuale di vita non meno che sogno da svegli, pensa a noi. Il suo soggettivo mese di maggio è la nostra primavera prediletta.
The Dreamers, memorabile, anche se pazzo, peana di Bernardo Bertolucci alla gioventù, alla cinefilia e alla rivolta studentesca del Maggio ’68, si apre premendo a tavoletta il pedale wah-wah e si chiude con Edith Piaf che gorgheggia “Non, je ne regrette rien”. Uno può rimpiangere oppure no di avere concesso il proprio tempo a questo esercizio da camera di solipsismo eroico, maratona sessuale (o almeno cospicua nudità) e cinefilia applicata, ma per quanto spesso risulti risibile, non c’è dubbio che Bertolucci l’ha fatto a modo suo. Forse è dal 1968 che le pretese giovanili non sembravano così vuote. Matthew, un cretinetti tirato su a pannocchie di mais, la cui amabile idiozia è sottolineata da una bellezza vacua e DiCapriesca, viene rimorchiato alla Cinémathèque di Parigi da una coppia di fratello e sorella, l’imperiosa Isabelle, che ama parlare per enigmi, e il torvo, byroniano Théo: Il brutto americano incontra I ragazzi terribili. Figli di un famoso poeta (proprio come ambedue gli attori sono figli di celebrità del mondo del cinema francese), Isabelle e Théo sono uniti come gemelli siamesi. Che una volta fossero attaccati lo suggeriscono le due cicatrici gemelle sulle loro graziose spalle. Matthew colpisce il loro sollecito e scompigliato papà facendo del misticismo sulle relazioni spaziali fra l’accendino di Isabelle e il motivo della tovaglia, e viene invitato a passare la notte, forse perché mostra la capacità di sembrare fumato senza bisogno di droghe.
The Dreamers è brutto, ma a differenza degli egualmente pretenziosi Piccolo Buddha o Io ballo da sola, non si può dire che sia noioso. Bertolucci affronta bene la sfida tecnica di esplorare l’appartamento incantato. Quando il trio si droga nella vasca da bagno, la macchina da presa sembra piombarci dentro con loro. Ma se sperate di vedere i ragazzi che fanno sesso, non contateci. The Dreamers non è stupidamente offensivo come quella fantasia di “sì, buana” new age di Bertolucci, L’assedio. È soltanto stupidotto. C’è del pathos nelle prime inquadrature dei giovani spettatori della Cinémathèque a bocca aperta ipnotizzati dal Corridoio della paura che si accorda bene con un finale abilmente messo in scena. Negli ultimi minuti, suggerisce Bertolucci, i “ragazzi terribili” trovano finalmente il film che stavano cercando: la rivoluzione!!! – e quella entra in scena, lasciando il confuso Matthew nel ruolo di un misero spettatore. In quel momento, The Dreamers dà corpo al sentimento, proprio degli anni sessanta, della vita come un film, anche se non proprio questo.
The Dreamers fa largo uso di frammenti cinematografici tratti da altri film, per lo più intervallati da discussioni sui film o da giochi basati su di essi. Questo uso di frammenti potrebbe sembrare una tecnica banale, ma in verità è un modo nuovo, e forse mai così riuscito, di rendere la cinefilia. La maggior parte delle pellicole che parlano della passione per i vecchi film lo fanno creando una sorta di dicotomia fra la “magia” dello schermo e il “mondo reale”, fra un Altro idealizzato e una realtà spesso deprimente.
Per lo più Bertolucci trasmette la cinefilia attraverso frammenti che riflettono la memoria affettiva dei film da parte dei personaggi e il loro modo di definire un dato momento o evento in termini presi da quei film. La tecnica di usare “esempi” della cultura di massa per il commento di un personaggio su di sé o sulla situazione è stato largamente usato da Alain Resnais, sia in forma di frammenti di vecchi divi del cinema sia di canzoni. Tuttavia questo commento auto-riflessivo e spesso gentilmente sarcastico funziona in modo molto differente dagli interventi archivistici di Bertolucci. Anche quando il tentato suicidio di Isabelle è interlineato con la volontaria morte di Mouchette in Bresson, ciò sembra più un’espressione spontanea del suo senso della tragedia che un commento intellettuale sulla sua azione. Le citazioni di Resnais sono private, rappresentano un conflitto interno alla mente, laddove in generale Bertolucci forma un forum inter-soggettivo di sentimenti condivisi che consente una comunicazione immediata e profonda fra i personaggi. Più che usare il cinema come un’evasione dalla vita, per i “dreamers” l’energia emozionale del film in fin dei conti diventa un incentivo e un motore per l’esplorazione dei loro stessi sentimenti. Questa necessità di “vivere cinema” e di vivere all’altezza del cinema, di rifarlo e in ultima analisi di trascenderlo, è l’aspetto più commovente e riuscito di The Dreamers.
Questo è un film che, con forza, ci parla della violenza delle passioni, dell’amore, del sesso anche, la violenza dei sogni, ma anche quella della realtà, questo film ci parla della violenza dell’arte, e del Cinema, in particolare, una violenza che prende e non ci lascia più, facendoci dimenticare cosa c’è là fuori. I gemelli vengono lasciati a casa, da soli, loro invitano il loro amico Matthew, appena conosciuto, vivranno insieme per un po’, sperimentando, conoscendosi, ridendo, piangendo anche. La casa diventa quasi un porcile, ma non importa, questi tre ragazzi hanno il Cinema, i loro sogni, il loro amore, i loro corpi. Il Cinema però non è passività, per loro: questi ragazzi si appropriano dei film che vedono, seduti in prima fila, dentro lo schermo, per non perdersi nulla, per prendersi le immagini per primi, agiscono il Cinema attraverso i propri corpi, vivendo loro stessi i film che hanno visto. Il Cinema diventa un mezzo di conoscenza, non solo di fuga.
Molti hanno accusato Bertolucci di voyeurismo, per il suo insistente indagare questi corpi, corpi così giovani, così belli… Ma il regista si difende bene da solo: “Dovrebbe essere illegale fare cinema”, dice ironicamente per bocca di uno dei protagonisti, perché è “roba da voyeur”. Dovrebbe essere illegale sognare, forse? Sognare di essere giovani per sempre, sognare di amarsi per sempre, sognare che la Realtà non venga mai a derubarci di noi stessi. E allora scendere in strada, preferire lo scontro e la guerra, oppure trovare un modo in cui poter conservare se stessi, mantenere i propri sogni, senza che diventino realtà? “Tu adesso dovresti essere in Vietnam a combattere per la tua patria”, dice Théo, a Matthew, quando quest’ultimo lo mette di fronte alle sue contraddizioni politiche, “perché sei qui?” Ognuno dei tre ragazzi farà la sua scelta, alla fine. E, a volte, la pace, i sogni, la vita, la libertà, sono proprio le cose più difficili, da scegliere.
The Dreamers è forse il film più profondamente autobiografico di Bertolucci, quello che tocca le corde del cinema come alimento e luogo di vita più reale del reale: ambientato a Parigi, nel 1968, nei mesi in cui la contestazione generale passa anche per la Cinémathèque Française, scossa dall’”affaire Langlois” e dal tentativo governativo di sottrarre la cineteca al suo creatore, il film cerca di trasmettere alle generazioni odierne il senso di quella passione totalizzante per il cinema che ha guidato una generazione di giovani e ha contribuito alla loro formazione. È ancora una volta una rivisitazione, carica di affettività, dell’Educazione sentimentale e del difficile passaggio delle colonne d’Ercole della giovinezza. Anche qui la macchina da presa sembra voler catturare il respiro dei suoi protagonisti, farci sentire come la luce del cinema possa costituire per un certo tempo l’alimento fondamentale della loro esistenza.
Noi dicevamo spesso che avremmo voluto dare una macchina da presa a chiunque. Io lo penso ancora, così ognuno potrebbe raccontare il proprio, di Sessantotto. Forse chi ha vissuto quegli anni ha trovato The Dreamers diverso rispetto alla propria esperienza, oppure è rimasto imbarazzato della nostalgia.
Il film è diretto più ai giovani, che allora non c’erano. Vorrei avere una macchina del tempo per poterli condurre in quell’epoca. Io non sono interessato ai film prettamente storici, non avevo intenzione di fare un docu-drama: volevo, piuttosto, dare vita a un contagio e dire ai ragazzi di oggi che, se era giusto ribellarsi allora, lo è anche adesso. Nel film, la politica viene dopo la libertà e il sesso perché il ’68 non era solo politica. Alle assemblee e agli slogan volevo aggiungere ciò che sentivamo allora. I ragazzi del mio film incontrano la politica le rare volte che escono in strada, o meglio quando la strada – e la politica – irrompono nella casa, alla fine del loro percorso comune. Prima di tutto, nel ’68 c’erano tante emozioni: un mix di cinema, sesso, rock’n’roll, le prime canne e poi, ovviamente, la politica. Nella scena finale, diversa rispetto al libro di Gilbert, ho insistito molto sulla carica della polizia, l’ho allungata a dismisura in digitale: volevo che arrivasse fino alla Genova del 2001. Nella sequenza iniziale invece, che si svolge alla Cinémathèque, i gemelli in sala siedono in prima fila, Matthew in seconda, io all’epoca sedevo nella terza. Desideravamo che il film ci fagocitasse letteralmente. La cinefilia era vissuta come un fatto fisico e fisiologico, come nella corsa attraverso il Louvre. Quando ho girato Novecento pensavo che il cinema potesse davvero cambiare le cose, ma oggi non credo più al potere messianico dei film.
La mia presenza sul set, perlopiù accanto al regista, se non proprio un evento unico quantomeno un caso raro per uno sceneggiatore, non è stata una decisione presa in anticipo da Bernardo. Di fatto, come lui stesso mi aveva detto mesi prima di iniziare le riprese, Bernardo è uno di quei registi per cui scrivere e girare sono due fasi totalmente separate e reciprocamente inconciliabili del processo di realizzazione di un film. In ogni caso, con la sua tacita approvazione, io sono rimasto, e nel corso di quell’esperienza che non mi sarei perso per nulla al mondo, ho ricevuto altre lezioni su cosa distingue il cinema da tutte le altre forme d’arte. Ho scoperto per esempio che a differenza di uno scrittore le cui ore di lavoro fanno parte della sua vita privata, che scrive da solo e, per quanto umanamente possibile, indisturbato nel suo studio, un regista è costretto a essere al tempo stesso un creativo e un performer, un compositore e un direttore.
Il poeta romantico inglese Coleridge venne notoriamente interrotto (per quanto la cosa non sia storicamente certa) durante la trance creativa del suo Kubla Khan dall’intempestivo arrivo alla sua porta di “una persona proveniente da Porlock”. Be’, parafrasando Coleridge, un set cinematografico è un vero e proprio formicaio di persone provenienti da Porlock! Eppure, circondato da attori, tecnici, contabili, produttori, giornalisti, visitatori, amici e da ogni sorta di persone, Bernardo è riuscito a fare un film non meno personale e magico di quelli che aveva realizzato in passato. La mia ammirazione per lui (già di per sé enorme) è aumentata in modo inversamente proporzionale alla mia segreta ambizione di dirigere un giorno un film.
Ho scoperto l’esistenza di Bertolucci sui 15 anni per ragioni, diciamo, “igieniche”; cioè attraverso una videocassetta di Ultimo tango a Parigi che mi guardavo da solo, a letto, prima di addormentarmi. Mai avrei immaginato che qualche anno dopo l’autore di Tango avrebbe chiamato proprio me… per ripetere esattamente la stessa azione davanti alla sua macchina da presa!
47° giorno. Martedì 25 settembre, Place de Rio de Janeiro — L’avventura doveva concludersi la notte scorsa con l’improvvisa irruzione di un sampietrino tirato dalla strada nella finestra del salone. Tuttavia, l’angelo sterminatore di Buñuel ha voluto concedere una grazia agli stakanovisti terrorizzati dall’idea di vedere così presto spezzato l’incanto che li aveva trattenuti per tutta l’estate in questo magico palazzo parigino… Di fatto, i responsabili degli effetti speciali avevano finito di sostituire il vetro della finestra, Samuel aveva passato l’aspirapolvere sul tappeto, gli attori erano in posizione sotto la tenda piantata in mezzo alla stanza. Mentre si aspettava solo l’ordine di riaccendere le macchine per la quinta ripresa, ecco, in un fragore di vetri rotti, il suddetto sampietrino atterrare senza preavviso sul set. Se il disgraziato guastatore sospeso da ore in cima alla gru, a pochi metri dal balcone, giurò sui suoi dei che aveva proprio creduto di sentire il segnale del lancio nel suo walkie-talkie, dopo due secondi durati un’eternità lo stupore ilare di Bernardo bastò a rompere il silenzio e a sdrammatizzare l’imbarazzante situazione. I veterani Serena e Angelo, che da giovani furono anche aiuto di Sergio Leone, ricordano come, ai tempi di Il buono, il brutto e il cattivo, fu un intero ponte di legno a saltare in aria per una carica di dinamite… un attimo prima che il regista desse l’azione, per un piccolo errore di coordinamento. Perché accanirsi contro la sorte? È ora di arrenderci all’evidenza: sono le tre di notte, ognuno è stressatissimo per l’imminente fine film e siamo tutti sulle ginocchia; perfino il nostro sampietrino è crollato dal sonno… Insomma, il ciak finale viene rimandato di ventiquattr’ore. E così il sogno collettivo continua un altro pochino.
È ovvio che puoi utilizzare tutto quello che vuoi dei miei film. E ricordati, non ci sono diritti d’autore, solo doveri!
A modo suo, Bernardo ti sta testando in permanenza. Una cosa positiva però. Senz’altro noi eravamo manipolati, ma allo stesso tempo ci lasciava molto liberi. A volte, era come se ci mandasse dei raggi magici, una cosa pazzesca. Con lui esiste un vero scambio. Ogni mattina, ci faceva delle domande sulla scena e sul comportamento dei personaggi. Un giorno, aveva cambiato idea rispetto al copione: non voleva più che Isabelle fosse ancora vergine, e io lo convinsi invece del contrario. Ma non fu un problema perché c’era, appunto, quel tipo di dialogo. Si interessava sinceramente alla nostra opinione, poi agiva in modo di comunicarci cosa voleva con una parola sola, un gesto.
Ero presente alla Cinémathèque nel febbraio ’68, la mobilizzazione dei cinefili, i discorsi di Léaud e Kalfon, ecc., io li ho vissuti; era euforizzante stare lì tutti insieme con Jean-Luc, Rivette, Truffaut, ed era anche esteticamente molto bello. Il 14 febbraio, i CRS hanno dato la carica. Era violento. All’appuntamento c’eravamo tutti, ma eravamo terrorizzati. Durante la prima carica sono stata picchiata, a terra, poi ho ripreso conoscenza tra le braccia di Simone Signoret. È stato un miracolo che nessuno sia morto quel giorno. Tutto ciò Bertolucci lo filma senza maschera, si fa avanti a viso scoperto: si espone completamente.
La cosa più giusta nel film, è il rapporto con la famiglia: sono dei figli di papà che vivono nell’appartamento dei genitori, allo stesso tempo senza di loro e grazie a loro (gli assegni). Un’altra cosa giusta è il rapporto con l’attualità: non si faceva la rivoluzione tutti i giorni, sarebbe stato estenuante. Bisognava conservare una certa leggerezza. Ma c’erano dei momenti di estrema intensità. Ho tenuto una foto di Chris Marker, davanti al Jardin du Luxembourg, di notte, prima di una carica dei CRS. Gli elmetti luccicano nel parco, dietro le inferriate, e si aspetta. Si vede la paura sui nostri visi, l’eccitazione, l’angoscia, qualcosa si sta preparando: l’assalto è sul punto di esplodere in pochi secondi. La potenza di quelle emozioni è stata la cosa più lunga, poi, da digerire.