di Attilio Bertolucci

 

I fumetti, lasciando perdere i precursori, legittimi (sino a un certo punto), se ci si ferma alla Carriera del libertino, cioè a Hogarth e alla sua carica moralistico-demistificatoria, senza avventurarsi nelle varie bibbie dei poveri con la prospettiva di finire addirittura ai bisonti di Altamira, i fumetti o comic strips che ancora reggono, come genere, senza interruzioni né rinascite artificiose, vengono ufficialmente alla luce in America nel 1896. Hanno cioè la stessa età del cinema. Ma lo anticipano: perché bisognerà aspettare il primo quarto del secolo successivo, cioè del nostro, per vederne l’equivalente in celluloide con Mack Sennet e il grande Charlie Chaplin. In entrambi i casi esistono precedenti in Europa, in Germania per i fumetti con Wilhelm Busch e in Francia per il cinema con Max Linder. Si tratta di personalità singolari ed abnormi che avrebbero avuto scarso seguito in patria.

Ci voleva l’America in via di divenire, da puritana a pioniera, industriale e affaristica, perché quei semi radi e scarsamente produttivi dessero una fruttificazione enorme e determinassero un consumo quasi incredibile. Dopo più di mezzo secolo non si è ancora sazi, se mai si chiedono varianti, così che si arriva all’intellettualismo (Feiffer) e al decadentismo (Barbarella), mentre vegetano, affidati a mani successive, essendo sepolte le prime che ne fissarono in brevi lasse figurate le gesta. Arcibaldo e Petronilla, che risalgono all’età arcaica o a quella immediatamente successiva.

In quell’America violenta e candida che respinge Henry James a Londra o a Firenze e Stephen Crane nella Bowery o sotto le tende di guerre minori, e precisamente a New York, il giornale popolare, in via di crescita smisurata, spinge avanti per conquista della folla metropolitana, già immensa e solitaria, le bandiere meravigliosamente svarianti e policrome delle pagine domenicali a fumetti. È qui che incontriamo R. F. Outcault, nativo dell’Ohio e reduce da studi d’arte a Parigi, che manda all’attacco Yellow Kid, un ragazzino appunto tutto giallo, dalla testa ai piedi: successo scandaloso e, dallo scandalo, crociate varie per combattere una stampa cui dà il nome proprio Yellow Kid. La stampa gialla di famigerata memoria, il cui magnate, Hearst, diventerà il cittadino Kane nel film omonimo di Orson Welles, s’è chiamato così per quel primo peccato, per quel fumetto facinoroso e incantevole.

Hearst ruba Outcault al suo concorrente Pulitzer, che lo aveva scoperto e lanciato, avanti che le nevi del 1896 abbiano ricoperte le spoglie di quell’anno memorabile per aver dato i natali al fumetto, e vince in tal modo la sua prima grande battaglia; ma il ragazzino giallo sdentato e occhialuto in avventure per un mondo non meno assurdo nella sua assurda proliferazione, anche se inventata dal vero della città americana contemporanea, di quello che formicola nei proverbi di Bruegel, muore abbastanza presto. Forse è troppo scomodo, vien fatto morire. Gli succede un personaggio, all’apparenza, meno infernale, un certo Buster Brown che era apparso in qualche avventura di Yellow Kid, come Huck Finn si era già incontrato nel libro di Tom Sawyer. In quell’epoca felice le riprese e i rilanci di tipi riusciti sono cose di tutti i giorni per i narratori a parole e a figure.

Buster Brown segue l’evoluzione della civiltà americana, accondiscendente ad un gusto fattosi quasi ingenuamente raffinato in conseguenza di un benessere vorticosamente crescente. Da quella sorta di girino umano in allegra attività per la mefitica giungla urbana che era Yellow Kid, si passa a un ragazzetto sui dieci anni dalla zazzera d’oro, dal collettone bianco col fiocco nero, e dalla giacca lunga e cinturata che quasi nasconde i pantaloncini da maschio: una sorta di travesti alla piccolo lord Fauntleroy, con prevalenza di caratteri femminili.

C’è sempre una madre nostalgica di una bambina che non ha avuto, dietro queste prevaricazioni sul maschio, della quale non è difficile vendicarsi affermando il suo sesso in una serie inaudita di mascalzonate ai danni del mondo, che mai mai femminuccia avrebbe osato non dico commettere, ma pensare. Molto del fascino dei fumetti di Buster Brown nasce, come sempre accade nella poesia, dall’ambiguità del suo eroe, che approfitta poi dell’apparenza angelica per ingannare le persone serie e metterle in grossissimi guai.

Si diceva dell’ingentilirsi dell’America nei pochi anni che separano Yellow Kid da Buster Brown, cioè dal 1896 al 1902. La prova più certa ne è il fatto che Buster in America ci sta pochissimo, egli è sempre in viaggio come i bambini e gli adulti di James: a Londra e a Parigi in compagnia della dolcissima, elegantissima madre, in Africa o alle Hawaii come uno zio scapolo, e, a dir il vero, ancora un po’ rozzo, come era allora il medio uomo americano. Sempre poi inseparabile da un cagnaccio che si chiama Tigre, complice ghignante e parlante, anzi sentenziante, non privo di buon senso, ma anche piuttosto cinico. Il padre, quasi sempre assente. Siamo già al pater americanus ridotto a quantità trascurabile, ma la matriarca è ancora giovane e carina e il figlio in rivolta è ancora in fase “monellerie”, se pure diaboliche. Il frutto deve ancora venire.

Buster e Tigre dunque viaggiano e se si spingono più in là di Londra e Parigi, magari soltanto a Roma, alla madre, come s’è detto, subentra lo zio, in funzione di difensore (inutile) da leoni africani e da imbroglioni latini. Ma ritornano, i due, e allora si hanno di nuovo le avventure domestiche, fra le più fulminee e graffianti. Viene da rammaricarsi che Buster abbia viaggiato tanto, perché qualche volta il puro paese esotico non gli concede altro che invenzioni un po’ meccaniche e gratuite, irreali.

Ritornano, e uno di questi ritorni è eternato in undici quadretti d’una follia e d’una crudeltà senza limiti, un happening in cui non solo i vecchi bavosi a torturare di baci il bambino rientrato (da bambini ricordate i baci dei vecchi, cioè tutti coloro che hanno superato i trenta?), ma turbe di cuginetti, femmine la più gran parte, scatenate Grace, Dorothy, Eleanor che non risparmiano il cane e arrivano a distendere Buster sul terreno, a immobilizzarlo, a crocifiggerlo per baciarlo illimitatamente. B.B. in questi casi estremi, e fa lo stesso quando deflagrano i suoi attentati più tremendi, entra in una specie di trance, i suoi occhi rotondi si fanno vitrei, ogni contatto con gli altri è interrotto. Vederlo, nella striscia che ha per titolo Buster Brown porta i topi in chiesa, seduto in un banco, solo, col cappellino largo e piatto posato di fianco, immobile, astratto, terrificante di bontà, mentre esplode tutt’intorno la paura degli ipocriti fedeli anglicani: è da agghiacciare. L’unica pietà di B.B. la riserva ai topi da lui immessi nella cappella neogotica, infatti egli scrive alla sua amica Mary Jane, a New York: “… poveri topi! D’ora in poi dovranno stare sempre in chiesa. Porterò loro del formaggio”.

Si comprende benissimo la reazione dei benpensanti e il guadio degli altri, la gentaccia che si vede nei Rapaci di Stroheim, nella Strada della paura di Chaplin, in Mia madre Lizzie di Dahlberg. Ad essa mirava giustamente Hearst offrendo nei giornali (sono parole sue) “otto pagine di iridescente, policromo fulgore che fa apparire al confronto l’arcobaleno un pezzo di tubo di piombo vecchio”. S’immaginano, i grandi fogli fiammanti, nelle verandine di legno verniciato, su per le scalette esterne dagli scorrimani decorati in bella ghisa greve, già nelle catacombe della subway, le domeniche mattine dell’America allegra e amara all’alba del secolo. Qui da noi, dove le avventure di Buster Brown, divenuto ahimè Mimmo, sono state divulgate dal pur glorioso ma riduttivo Corriere dei Piccoli, è tutta un’altra udienza, quasi soltanto infantile. Nel recupero d’oggi, con la reintegrazione delle battute di dialogo specifiche al posto degli applicati versetti, deliziosi ma generici per amore e schiavitù alla rima, è possibile a tutti, grandi e piccini, conoscere veramente il favoloso Outcault, e apprezzarne insieme la carica dissacrante e il “fulgore policromo”. Qui forse viene giusto citare Hogarth, gran fustigatore di costumi e gran pittore, e Rowlandson, dei quali Outcault è una reincarnazione umile ma autentica per i poveri in via di diventare disordinatamente e ingordamente ricchi.

 

[in Attilio Bertolucci, Aritmie, Garzanti, Milano 1991]