di Bernardo Bertolucci
È cominciato tutto con Elsa Morante. Una sera mi ha regalato un libro sulla vita di Milarepa, il grande mistico tibetano. Le prime influenze del buddhismo si ritrovano in Prima della rivoluzione, film del 1964, dove a un certo punto Adriana Asti racconta la storia di un maestro e un discepolo che camminano in una campagna assolata. Il maestro ha sete e chiede un po’ d’acqua, il discepolo si allontana alla ricerca dell’acqua e trova una valle molto verde, continua a camminare e incontro una sorgente, al di là della sorgente c’è un villaggio. Affascinato lo raggiunge, lì trova una ragazza, s’innamora, si sposa, ha dei figli. Poi vengono i dolori: una carestia, l’intero villaggio muore, anche i suoi figli e sua moglie. Il discepolo allora ripercorre i propri passi all’indietro, è disperato, solo, perso, e arriva fin dove il vecchio maestro gli aveva chiesto dell’acqua. Il maestro è ancora lì, sul ciglio della strada, e gli dice: “Però, quanto tempo ci hai messo per portarmi un po’ d’acqua. È tutta la mattina che t’aspetto”. La visione buddhista del tempo già allora mi fece capire che al cinema era possibile un’articolazione temporale vertiginosa. Io non me ne rendevo conto, ma forse è stato uno dei primi gradini che mi hanno portato al Piccolo Buddha. Poi ci fu un viaggio in Giappone, un’esperienza a Kamakura straordinaria e illuminante. Alcuni amici ci invitarono al pranzo della domenica e io mi ricordai che a Kamakura aveva vissuto Ozu, uno dei più grandi maestri del cinema. Chiesi se lo avevano conosciuto e loro mi dissero di sì. “Mi piacerebbe visitare la sua tomba”. Era lì vicino. Salimmo per una collina nel parco di una grande scuola zen e il cimitero naturalmente sorgeva nel luogo con la vista più bella. Qui la vecchia signora amica di Ozu ci disse: “There is nothing on the tomb, there is nothing”, non c’è niente sulla tomba, non c’è niente. Ci mettemmo a cercare la tomba con sopra niente, ma tutte le tombe avevano degli ideogrammi. Poi lei ci chiama: “Venite, venite”. Siamo andati da lei, e abbiamo visto un cubo di marmo nero, puro, essenziale, con sopra un unico ideogramma. “Qui però c’è scritto qualcosa…” No, no, spiegò lei, qui c’è scritto “mu”, il niente, il vuoto. Voleva dire che sulla tomba c’era scritto “mu”, ovvero “niente”. Questo episodio mi ha aperto la testa al buddhismo zen giapponese. Sono amico del regista Paolo Brunatto, il primo buddhista laico italiano, partito per il Nepal in preda a una crisi più hippy che mistica. Tornò in Italia nel 1967 e fu molto bello per me reincontrarlo. Non ebbe bisogno di convincermi, aspettò e mi ritrovò anni dopo, al momento di girare Piccolo Buddha. Brunatto mi portò a incontrare lama Namkhai Norbu ad Arcidosso. Un impatto misterioso e forte. Però, per iniziare il film, dovevo avere, diciamo così, la benedizione di sua santità il Dalai Lama. Ci fu un incontro a Vienna, e quando uscii da quel colloquio era accaduto qualcosa. Avevo imparato il significato della parola “compassione”, così come la intendono i buddhisti. Non è solo l’espressione della bontà, come nel cattolicesimo, ma dell’intelligenza della bontà. Compassione significa comprendere le ragioni delle sofferenze dell’altro. Chiesi al Dalai Lama se potevo chiamare il mio film Piccolo Buddha. Lui rise e volle sapere perché volevo chiamarlo così. “Perché vorrei che fosse un film per bambini, perché in Occidente quando si parla di buddhismo gli adulti sono come dei bambini, non sanno nulla”. Il Dalai Lama mi disse sì, “anche perché siamo tutti dei bambini e dentro ognuno di noi c’è un piccolo Buddha”. Qualcuno ha accusato il film di essere una favola, ma è esattamente quello che volevo fare: aprire una piccola finestra sul buddhismo. E devo dire che i bambini hanno recepito per primi l’essenza del discorso. Ricordo che negli Stati Uniti, in uno di quei centri commerciali con quindici cinema e duecento negozi, quasi quattrocento bambini hanno assistito al film e alla fine c’è stato una specie di focus group, con una trentina di loro. La cosa che li aveva più impressionati era l’idea che esistesse qualcosa come la reincarnazione. I bambini di oggi sono assediati dall’idea della morte. Quando ero bambino io, la morte era presente sotto forma di incubo. Questi bambini, invece, sono perseguitati dalla parola morte e dalle morti che vedono continuamente in tv. Era bello notare che quella che i buddhisti chiamano la condanna del samsara, la catena del morire e del rinascere, era vista dai bambini come un privilegio.
C’è una storia legata alla scelta dei tre bambini del film. Mi ero affezionato a tutti e tre i piccoli attori, non riuscivo a sceglierne uno come reincarnazione del vecchio lama ed ero disperato. Il mio esperto era una lama tibetano buthanese di nome Dzongsar Khyentse Rinpoche, acrobaticamente intelligente come sono molti giovani tibetani, che riescono a realizzare folgoranti fusioni culturali tra Occidente e Oriente. Rinpoche mi disse: “Se non vuoi scegliere, decidi che tutti e tre sono reincarnazioni”. Pensai: probabilmente il pubblico reagirà male perché, come dicono agli Oscar, the winner is… Qui invece non c’era nessun vincitore e nessun vinto. La dualità della religione occidentale era superata nel rifiuto dell’idea del vincitore e dei vinti. Mi piaceva molto il rapporto che si era creato tra i bambini e il vecchio lama Norbu, interpretato da un grande attore cinese, Ying Ruo Chen, il rieducatore dell’Ultimo imperatore. Il suo rapporto con i bambini mi faceva venire in mente il rapporto dei nostri nonni con i nipotini in campagna dalle mie parti. Un giovane psicoanalista lacaniano una volta mi spiegò che il nonno per i nipotini è il “non no”, quindi è il sì. Il lama Norbu insomma era un po’ il nonno di questi tre bambini. C’è un bellissimo documentario girato da un giovane regista indiano su un bambino tibetano che viene rapito da un monaco del Tibet, il quale lo porta in India perché pensa che lui sia la reincarnazione di un lama. Il monaco che si occupava di questo bambino faceva tutto per lui: era il babbo, la mamma, il fratello, gli dava da mangiare, lo lavava, lo asciugava. Poi si metteva in ginocchio davanti a lui. Era impressionante. Mi veniva da pensare: forse questo è il modo giusto di trattare i bambini, con grande affetto, ma anche con uno straordinario rispetto. Alla fine delle riprese, Rinpoche, annunciandomi che sarebbe entrato in ritiro per un anno, mi disse: “Voi cattolici pensate che Dio ha creato l’uomo. Perché non provi, per un momento, a pensare il contrario: è l’uomo che ha creato Dio”.
[In La Repubblica, 1 giugno 1997. Intervento letto a Salsomaggiore nel corso del convegno internazionale “Buddhismo e cristianesimo in dialogo di fronte alle sfide della scienza”; poi in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti 2010]