di Attilio Bertolucci

 

Dopo Esopo, Fedro, La Fontaine, Lorenzo Pignotti, dopo sia pure Trilussa e ancora qualche ultimo, malinconico, letterario coltivatore di domenica (voglio dire dilettante di un genere che esige rigoroso professionalismo), eravamo proprio convinti che la favola fosse morta. Intendo soprattutto la favola con animali che imitano gli uomini nei loro vizi (molti) e le loro virtù (poche). Innanzitutto vanno rarefacendosi gli animali, e se continua di questo passo dovremo andare allo zoo anche per vedere il cavallo e la formica, non soltanto il leone e l’ornitorinco.

Poi, non è che vadano rarefacendosi i vizi e le virtù: ma chi li distingue, chi ci capisce qualcosa? Va bene che la distinzione era già andata in crisi tanto tempo fa, era stato La Rochefoucauld a scrivere, in limine al suo libro di massime e riflessioni: “le virtù non sono spesso che dei vizi travestiti”. Ma gli avevano dato ascolto in pochi, c’è voluto Freud perché s’intendesse la carica eversiva, e liberatrice, di quella riga scritta da un gentiluomo francese vissuto fra il gran secolo e il secolo dei lumi. Comunque, grazie al ritardo dell’Italia del primo Novecento (sino al fascismo) nell’aggiornamento industriale e psicologico, a Trilussa, bene o male, ci si è arrivati. Dopo, zero o quasi.

Le cose, in paesi più moderni, erano andate anche più alla svelta: in America, ad esempio, sono concepibili favola, apologo, animali parlanti?

È vero, a un certo momento sono venuti fuori fumetti e cartoni animati, la grande impresa di Walt Disney, le minori ma più sottili di Pat Sullivan (veramente australiano, come il suo Mio Mao) e di George Harriman, creatore della poetica Krazy Kat, quasi sconosciuta da noi.

Ma è un’altra cosa. Topolino, Minnie, Pluto, Orazio e tutti gli altri sono individui precisi, personaggi, e sono vestiti da uomini e donne, non sono il topo, il cane, il cavallo in generale mimanti, come si diceva, i vizi e le virtù degli uomini ai fini d’intervenire beneficamente nella vita morale di questi ultimi. Ci si divertono anche i grandi, coi fumetti e i cartoni animati, ma non è senza significato che siano stati fatti per i bambini. Con quel che di riduttivo che la cosa comporta. La favola di tipo esopiano è un genere per adulti, tipico. Tanto vero che quando a scuola, negli anni del primo latino (finiranno anche questi ormai, per i più, e dove si andrà a finire?), si traduce Fedro in classe, è una noia mortale. Meglio, molte meglio gli storici, anche il piccolo Cornelio Nepote con i suoi Catoni e Annibali a sedici millimetri.

La favola è dura, tragica e per questo, alla fine, corroborante: come un amaro. E alla fine anche ottimista, sull’uomo, pessimo soggetto ma con possibilità, in fondo, di salvarsi. Ecco perché la nostra età, che ha creato il terribile insetto di Kafka, senza speranza, non dovrebbe offrire possibilità di vita alla favola così spesso spietata, tuttavia irradiata sempre da un lumicino di fiducia.

È stato consolante, dunque, per noi scoprire che esisteva, era esistito, per esser precisi, alcuni anni fa un vero e proprio favolista, a nome Don Marquis. Dobbiamo subito deluderci, leggendo quel pochissimo che se ne sa su un risvolto di libro, nel constatare che, nato non si sa bene quando, nel 1937 era già morto “di emorragia cerebrale”? Sì, è vero che in un certo senso il 1964 può venir giudicato molto peggiore del 1937 e degli anni avanti, nei quali Don Marquis scrisse e visse. Ma non bisogna esagerare. Senza considerare che New York, dove il nostro favolista visse, era ben avanti già allora, in fatto di alienazione, di disgregazione e simili: cioè, di impossibilità alla favola.

Eppure, ecco che questo “uomo piuttosto massiccio, con un viso rotondo sotto un’ampia fronte, non dissimile nell’aspetto da un prospero uomo di campagna del Middle West”, sradicato dall’Illinois e ritrapiantato nei marciapiedi di New York, forse proprio perché di natura sana, provinciale, riesce a compiere questo miracolo, a scrivere un libro di favole.

Anche dell’altro ha scritto, Don Marquis, dei romanzi, dei drammi, ormai polvere ed ombra non meno delle tante colonne di giornalismo spicciolo senza le quali egli non avrebbe potuto campare. Ma resta, e probabilmente resterà (a meno che le favole d’ora innanzi non soltanto non si potranno più scrivere ma neppure leggere, non riuscendo noi più ad apprezzare e neppure a intenderne il malinconico moralismo), per Archy e Mehitabel, lo scarafaggio e la gatta. Archy abita nell’ufficio del giornale Sun e racconta le sue storie in prima persona, e in versi liberi “senza lettere maiuscole perché non riesce a muovere il tasto della macchina da scrivere” (in effetti perché allora erano gli anni del verso libero e delle minuscole, gli anni di c.e. cummings), e Mehitabel lo frequenta ma fa le sue scappate molto di frequente, non smentendo di esser stata Cleopatra, in un’altra vita. Mehitabel non sa scrivere a macchina, così Archy è il suo “cronista”, e il suo poeta.

Archy è soprattutto, all’uso delle favole di sempre, un filosofo che medita sconsolato sui difetti, eterni, dell’uomo, mentre Mehitabel è la femmina naturale che s’abbandona “alla vita libera, all’amore libero, fuori dagli schemi convenzionali e ipocriti”: è insomma la positività, secondo D.H. Lawrence e la sua ideologia, fresca e vitale in quegli anni.

Un libro, quello di Don Marquis, che, nato da una “saeva indignatio”, arriva a una profonda pietà, e che, fondandosi su una autentica fiducia nei valori dell’uomo, può con tanto più fiera severità accanirsi sui suoi vizi. Sin che ci saranno favolisti, su questa terra, ci sarà speranza.

 

[in Don Marquis, Chi o che cosa secondo i casi. Archy e Mehitabel, Garzanti 1971; testo ritrovato grazie all’aiuto di Alessio Trabacchini]