di Bernardo Bertolucci

 

Ho voluto girare Ten Minutes Older, un cortometraggio di dieci minuti, in bianco e nero. Una scelta obbligata, visto che affrontavo un tema meraviglioso, metafisico e in fondo terribile: il tempo. Con Ten Minutes Older, ho voluto intraprendere una specie di tentativo di guardare indietro fino alle origini stesse del cinema; ho attuato questa operazione riducendo, quasi eliminando, i dialoghi e ricorrendo a un banco e nero estremamente primitivo, pieno di grigi modulati. La vicenda narrata trae spunto da un racconto indiano, una sorta di parabola che si trova già nel Mahabharata, ed è poi ripresa in Ramakrishna e, ai giorni nostri, da Jean-Claude Carrière, che ne fa cenno in un suo testo sulla letteratura indiana classica. A raccontarmi questa storia per la prima volta fu Elsa Morante, e io la inserii in Prima della rivoluzione. Adriana Asti la racconta in una sequenza del film.

Credo si possa anche dire che Ten Minutes Older costituisca una sorta di omaggio a Pasolini. Nei primi anni Settanta, Pier Paolo girò quella che egli chiamava la “trilogia della vita”: Decameron, I racconti di Canterbury e Il fiore delle mille e una notte. Si tratta di tre film tutti giocati sulla “innocenza” — così lui la definiva — di un sottoproletariato agricolo preindustriale e preconsumistico. Poi nel 1975 Pasolini scrisse L’Abiura dalla trilogia della vita, facendo una specie di confessione straziante sul sentimento che animava quei film e su come quel sentimento non fosse in realtà sincero: “Come ho mentito al pubblico, a voi che avete visto i miei film, ho mentito anche a me stesso: l’innocenza non esiste più”. Era convinto che fossero ormai irreparabili i danni provocati dall’omologazione, dal genocidio delle mille culture che in Italia si erano sviluppate nei secoli, diversissime a pochi chilometri l’una dall’altra: tutte le tradizioni popolari erano state distrutte e travolte dalla società dei consumi. I film che compongono la Trilogia erano pertanto, secondo lui, “falsi”, insinceri, perché riferiti a una realtà che, di fatto, non esisteva più. “Non ero cosciente mentre li realizzavo; ma chissà, forse in qualche piega della mia anima, lo sapevo… Oggi, però, è giunto il momento di ammetterlo, e io abiuro dalla trilogia della vita”. Oggi io sento il bisogno di lanciare una sorta di invocazione: “Non abiurare, Pier Paolo! Perché oggi quell’innocenza, come pure quei corpi e quella creaturalità, ormai scomparsi dal paesaggio umano italiano, sono tornati con le migliaia di uomini e donne che quotidianamente giungono nel nostro paese dai luoghi più poveri del pianeta. Ora, forse, potresti ricominciare a lavorare con sincerità su una realtà ancora così genuinamente preindustriale”. Questo, mi accorgo ora, è il significato ultimo di Ten Minutes Older: un “ritorno” a Pasolini.

Avevo progettato di girare il cortometraggio in Rajasthan, ma purtroppo implacabili motivi di salute mi hanno costretto a desistere e a procrastinare il lavoro: ho effettuato le riprese nel dicembre dell’anno scorso in Italia, e credo che sia stato meglio così. Infatti, se lo avessi realizzato in Rajasthan, il film sarebbe forse risultato troppo pittoresco; invece, grazie all’ambientazione italiana ho potuto inserire il tema dell’immigrazione e degli “extracomunitari” nel nostro paese (il protagonista parla bengalese). Nel cortometraggio — che ho girato in provincia di Latina — assistiamo a una specie di “indianizzazione” dell’Agro Pontino. Esemplare al riguardo è la sequenza del matrimonio, dove accanto all’orchestrina che suona un misto di liscio e di rock vi è un trio di musicisti indiani. Si tratta evidentemente di un sogno, è la visione di come vorrei che fosse la realtà. L’immigrato clandestino viene guardato con diffidenza solo all’inizio ma, nel breve volgere di pochi frammenti di tempo, trova una bella ragazza italiana, la sposa, diventa proprietario di una stazione di servizio, ha dei figli. Purtroppo, nella realtà, la situazione è ben diversa, e il mio film non è altro che un sogno, un’illusione. Siamo ancora molto lontani dalla piena integrazione tra culture e popoli diversi. Credo che tantissimi dei problemi di cui parlava Pasolini esistano ancora oggi e che la via per risolverli possa essere ricercata solo avvicinandoci alle culture diverse dalla nostra: anziché sforzarsi di cancellarle o di distruggerle in nome di una presunta omologazione, bisogna cercare in tutti i modi di coltivarle, permettendo loro di esprimersi pienamente.

 

[Trascrizione di Aelfric Bianchi, in La valle dell’Eden, nn. 10-11, a cura di Paolo Bertetto e Franco Prono, Lindau 2002; poi in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti 2010]