di Marco Giusti e Enrico Ghezzi

 

Con quale film hai cominciato a lavorare con Franco Arcalli?

Ho cominciato la collaborazione con Kim con Andare e venire, un cortometraggio prodotto dalla Rai. È stata la mia prima esperienza e avevo Kim come montatore. La musica l’avevamo scelta insieme, e c’era un pezzo di Ravi Shankar e qualcosa di negro-americano che non ricordo. Lavorando per la televisione hai il vantaggio che puoi scegliere tutta la musica che vuoi. È comunque curioso il montaggio di questo film, che ha mille limiti.

C’è un soggetto chiaro o un’idea di partenza?

C’è una specie di doppio gioco. Da una parte c’è l’idea di partire da un film di Fritz Lang, La donna del ritratto, quello con Robinson che si addormenta in poltrona e immagina una storia con la donna che aveva visto pochi momenti prima in ritratto. Da un’altra parte c’è la realtà, c’è un poeta di Parma, Furlotti, che era stato cameriere sui wagon lits. C’è un intervista con questo Furlotti. Il lavoro era quindi un gioco di intreccio di piani diversi.

Essendo un film basato sul montaggio, l’apporto di Kim dovrebbe essere stato notevole. Ce ne puoi parlare?

Era il primo film che facevo, dominato dall’inconscio e dal voler portare a termine il lavoro. Kim mi era utilissimo in questo momento. Kim ti faceva sempre scoprire questa possibilità che il materiale aveva dentro e che non riuscivi a vedere nel materiale stesso quando lo giravi. Su Il conformista, ad esempio, ha fatto un lavoro straordinario sul film. La struttura del film è stata reinventata in fase di montaggio.

Quindi, pensi che si possa parlare di una riscrittura del film da parte di Kim, al montaggio?

Il suo era un lavoro totalmente cinematografico, appunto di montaggio cinematografico, ma un’ottica che lo guidava era anche di tipo contenutistico, dei significati. Spesso un regista ha pensato a tutto, tranne che a vedere il significato di una battuta, di un gesto. L’idea fissa di Kim era sui significati, non solo in senso ideologico. Si poneva un po’ di fronte al film come uno che vede qualcosa per la strada, e resta colpito da un particolare, da un qualcosa.

A livello di affermazioni di principio contraddiceva poi nella prassi creativa tutto quello che affermava. Il suo era un work in progress. Le affermazioni di principio erano sempre un modo di andare avanti. Un paragone che non è molto pertinente, ma che può servire, è quello con Pasolini, con il Pasolini ultimo degli Scritti corsari. Pasolini partiva sempre da una affermazione forte, anche contraddittoria, per poi portare tutti avanti verso quello che voleva lui. C’era qualcosa di analogo, insomma, nel modo di procedere di Kim.

Dopo Andare e venire cosa avete preparato insieme?

Avevamo incominciato, poco dopo il montaggio di Andare e venire, una prima stesura di Novecento, che doveva essere un film da fare per la televisione. Dopo qualche mese che stavamo scrivendo mi è venuta fuori l’idea di Ultimo tango. In una prima fase ci abbiamo lavorato Kim e io, e poi hanno lavorato insieme solo Bernardo e Kim.

Come era questa prima versione di Ultimo tango a Parigi?

Tango era diverso come impostazione. Intanto era pensato per dei non attori ed era ambientato a Milano. Bernardo aveva pensato a un piccolo film, poi è entrato Brando e la cosa è cambiata. Per ragioni produttive non potevamo più farlo con dei non attori e abbiamo dovuto girarlo a Parigi.

Ma l’idea tua e di Kim della prima stesura era la stessa?

Sì. C’era sempre la ragazza che aveva due vite, che stava con un cinéphile e con un uomo più anziano.

Il personaggio di Brando in Ultimo tango a Parigi è, in qualche modo, un personaggio alla Kim? Ci sono degli spunti autobiografici o di vaga somiglianza?

Questo rapporto c’era molto, forse, nella prima fase del trattamento del film. Nel senso che il personaggio era un anarchico, il padre partigiano, tipografo. Non era ancora definito sul volto di Brando. C’erano degli elementi di biografia di Kim. Forse sono ancora rimasti nella versione finale. Credo sia il film a cui Kim, come sceneggiatore, abbia dato il contributo più forte. Kim era molto vicino a una forma di romanticismo anarchico, anche se il termine non è bello.

Dopo Ultimo tango a Parigi avete ripreso Novecento.

Sì, finito Tango allora abbiamo ripreso Novecento. Sull’onda del successo, Novecento non poteva più essere un film televisivo, e si cominciò a cambiarlo e ad allungarlo.

Cosa è rimasto del primo trattamento che avevate ideato?

Avevamo scritto la prima metà della prima parte del film intero, e quella è rimasta abbastanza simile a quella versione iniziale. Senz’altro è rimasta l’idea di due bambini di classi diverse che nascono nello stesso giorno a pochi metri di distanza. Il lavoro di Novecento sarebbe da discutere all’infinito. Il film è molto anomalo. Novecento, secondo Bernardo, è un monumento alla contraddizione. Il finale, ad esempio, è venuto fuori dopo che avevamo incominciato le riprese del film.

Per me è stata un’esperienza straordinaria, sia perché ha significato due anni e mezzo di vita, sia perché è stato come scrivere vari film in uno. I problemi creativi e tecnici erano non solo moltiplicati per la lunghezza del film, ma anche qualitativamente. Non mi è mai capitato di dover affrontare tanti problemi, sia politici, sia storici ecc.

Come avete lavorato alla sceneggiatura?

Eravamo in tre a scrivere. Io mi sentivo molto in una posizione di mediazione tra due anime del film. C’era un’anima lirico-melodica e un’anima politica e storica, di romanticismo anarchico. Sono termini generici, ma in fondo giusti.

L’idea di base era la stessa del primo trattamento per la televisione?

All’inizio doveva essere un film su una fascia di emarginati, su due poeti, poi si era finiti sui contadini. Come in Tango c’era stato il desiderio di provocare, attraverso la rappresentazione della sessualità, un incontro tra persone di classi e culture diverse, in questo caso c’era l’incontro della civiltà contadina e di quella borghese. Ad esempio Kim: i suoi nonni erano contadini, lo stesso lavoro di partigiano lo aveva svolto sia in città che in campagna. Io stavo però in una posizione di mediazione.

Quale pensi sia stato il peso di Kim nella sceneggiatura del film?

È stato un peso considerevole. Kim portava la sua memoria storica, molto lucida, poetica e mitizzante. Ad esempio la scena del processo al padrone: non sono dati precisi, sono dati di emozione. Kim sosteneva poi che c’era tutta una realtà molto forte, eversiva, violenta, nella lotta partigiana, che di solito nel cinema era stata edulcorata. Senza che per questo avesse una posizione di resistenza tradita.

Raccontava spesso un episodio di una occupazione di una caserma di carabinieri prima dell’otto settembre. I carabinieri buttarono le armi subito. Uno dei partigiani trovò un baule di bandiere italiane e tolse via il rosso dai tre colori per farne dei fazzoletti. Questa scena non c’è nel film, ma è molto significativa dell’ottica partigiana di Kim e di Novecento.

Il film è stato montato in più tempi o tutto insieme?

Credo che abbia avuto una prima fase di montaggio di sette ore. Poi ci fu la versione americana, mi sembra di 350 minuti. Non so se ci abbia lavorato anche Kim. Probabilmente sì, ma non ho seguito il montaggio.

Il tuo secondo film, ABCinema, era un cortometraggio che partiva proprio da Novecento. Ce ne puoi parlare?

L’idea era di partire dalla sceneggiatura, per arrivare poi alle riprese e al montaggio di una sequenza di Novecento, che era poi quella di San Martino. Naturalmente era un film didascalico sul cinema, però è un didascalismo molto poetico. C’era un filo conduttore che era un contadino di Parma, si chiama Afro Borghesi, in Novecento era una comparsa.

Così ho lavorato con Kim in due occasioni molto particolari. Era un Kim molto libero. Non aveva problemi di storia. C’era molta felicità di invenzione, di ritmi, di associazioni. A volte i significati nascono da queste associazioni che erano poi un divertimento, un gioco. Un montatore è molto più libero verso il materiale che non un regista.

Nello stesso periodo scoppiò “l’affare Kurosawa”. I giornali riportarono che assieme a Kim Arcalli avevate tagliato Dersu Uzala senza il permesso del regista. Cosa puoi dire a tua o a vostra discolpa?

C’è da considerare che il lavoro l’ho preso con la dichiarazione, fatta con sicurezza da parte della casa distributrice del film, che i sovietici erano d’accordo nel fare piccoli tagli sul film [il film è di produzione russa, n.d.r.].

Così non ci siamo posti tanti problemi. Inoltre tutti i film di Kurosawa erano arrivati tagliati in Italia. Ammesso però che questa cosa non si doveva fare, ripeto che c’era la garanzia dell’Unione Sovietica, come se l’autore avesse accettato che la copia potesse essere tagliata. C’è comunque da ammettere lo sbaglio.

A cosa si riferiscono i tagli con precisione?

Erano tagli interni, su tempi molto esasperati, code d’inquadrature, in tutto dieci o dodici minuti.

Quando è scoppiato lo “scandalo” la copia è stata tolta un po’ dalla circolazione e poi è ritornata a girare, secondo la stampa, in edizione originale. È stata una vittoria dei critici, Cosulich in testa che aveva fatto scoppiare il caso, ma, avendo visto sia la versione russa che quella uscita adesso in Italia, non mi sembra che la copia sia integrale. Le scene tagliate furono realmente rimontate?

No, la copia era sempre quella con i tagli. Comunque bisognerebbe anche dire che si grida allo scandalo quando si taglia Kurosawa, ma non quando si taglia, faccio per dire, un Mark Robson. Poi un Mizoguchi non lo avrei mai tagliato.

Avete fatto altre di queste operazioni con Kim?

No, è stato un episodio di teppismo giovanile, non di criminalità organizzata.

Per La luna fino a che punto avete lavorato con Kim?

Abbiamo lavorato fino a un primo trattamento con Kim.

Pensi che una certa posizione familiare di Kim, lui che aveva la famiglia a Venezia e lavorava a Roma da tanti anni, abbia potuto incidere sulla storia del film?

Non credo. Era molto interessato al tema della madre. Nell’idea iniziale non c’era neanche il padre sconosciuto. La storia era: un ragazzo si droga, la madre lo cura con l’incesto. Il film, inoltre, doveva essere del tutto americano, anche ambientato lì, con Liv Ullman protagonista, che era sempre una cantante lirica.

Per l’assenza del padre o il padre come assenza mi sembra un’idea fondamentale del film. Forse in questo c’è una parte di contributo biografico di Kim?

Forse in questo senso è possibile.

In Berlinguer ti voglio bene, il primo lungometraggio che hai diretto, Arcalli risulta come supervisore al montaggio. In che modo ha collaborato al film, che è montato dalla sua prima assistente, Gabriella Cristiani?

Kim ha fatto un intervento di mezza giornata, molto utile, di sveltimento di una situazione. Poi abbiamo discusso assieme certe cose di struttura. C’è stato un cambiamento di soggetto. In pratica riguarda la scena del monologo con la puttana in piscina. Nella sceneggiatura veniva prima la scena della madre con l’amico, poi la tombola e infine la scena con la puttana. Invece adesso c’è la tombola, la scena con la madre e la scena con la puttana.

Forse così è un po’ confuso.

Sì, ma funziona di più.

Ci sono soggetti o sceneggiature che avevate preparato assieme a Kim Arcalli?

C’era Temporale Rosy, dal libro di Carlo Brizzolari. Nel 1973 ne avevamo fatto una sceneggiatura che a Grimaldi non piacque e, siccome aveva lui i diritti del libro, ha aspettato fino adesso per fare il film con Monicelli e con altri sceneggiatori.

Un’altra sceneggiatura l’avevamo scritta da un racconto di Moravia, Famosa. Era stata scritta assieme a Ottavio Fabbri e doveva essere lui il regista del film. Poi non è riuscito a chiudere. La storia è quella di un’attrice che va in Africa e si innamora di un negro americano. È una storia d’amore drammatica.

Poi c’era Fichi d’India, il film che poi ha fatto Steno con il titolo L’Italia s’è rotta. Io avevo solo collaborato a un primo trattamento con Kim e Giulio Questi.

L’ultimo progetto era quello su un poliziotto della Germania dell’est. L’idea era venuta a Kim da Amanda Lear, quando si diceva che fosse un uomo che aveva fatto il cambiamento di sesso a Casablanca. La storia è quella di un poliziotto modello, il migliore dei poliziotti, che è anche campione di canottaggio, ma, in segreto, è un omosessuale. Ottiene il permesso di allenarsi su un lago che è proprio sul confine, a metà tra le due Germanie. Scappa all’ovest. All’inizio tutti trattano il caso come un fatto politico, poi sentono che il poliziotto si vuole operare a Casablanca, vuole diventare una donna. Si opera, e fugge all’est, perché era innamorato del capo della polizia della Germania dell’est e con lui forma una famiglia felice.

Cosa sai del progetto di un film scritto da Kim con Fassbinder?

Era un’idea originale di Fassbinder. C’era un gruppo di amici che arrivavano nella villa al mare di qualcuno. Non so altro, come storia. Kim ha lavorato venti giorni a Venezia con lui. Poi il film non l’hanno mai più fatto, credo.

E di una collaborazione di Kim Arcalli con Coppola?

Coppola aveva chiesto a Kim di montare Apocalypse Now, poi Kim stava troppo male per andare in America.

 

[intervista realizzata a Roma nel dicembre 1979 e pubblicata in Kim Arcalli. Montare il cinema, a cura di Marco Giusti e Enrico Ghezzi, Marsilio 2008]