Per festeggiare insieme il 25 aprile pubblichiamo una video intervista a Bernardo Bertolucci sulla resistenza realizzata qualche anno fa da Elisabetta Sgarbi con Eugenio Lio. Parzialmente contenuta nel bel documentario Quando i tedeschi non sapevano nuotare, diretto da Elisabetta Sgarbi e presentato nel 2013 al Festival del Cinema di Roma, l’intervista è qui nella sua versione integrale.

Accompagnano l’intervista un testo di Attilio e due interviste a Bernardo e Giuseppe sugli amici partigiani Ubaldo Bertoli e Kim Arcalli.

Mentre a questo link trovate le altre interviste sulla resistenza di Elisabetta Sgarbi a Giuseppe Sgarbi, Ermanno Olmi e Rossana Rossanda.

ATTILIO RACCONTA
UBALDO BERTOLI

Prefazione a La Quarantasettesima
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Kim Arcalli secondo Bernardo Bertolucci

di Marco Giusti e Enrico Ghezzi

 

I.

Come hai conosciuto Franco Arcalli?

Ho conosciuto Franco Arcalli tramite Giulio Questi e tramite una imposizione che mi è stata fatta da Giovanni Bertolucci, mio cugino, che è un produttore di solito molto dolce con me (fare cinema con lui è come continuare i giochi dell’infanzia), quando ho cominciato a girare Il conformista nel ’69. Il 1969 è stato un anno estremamente ricco per me perché ho girato due film importanti, Strategia del ragno e Il conformista.

All’inizio Giovanni mi ha chiesto di incontrare Kim, dicendo che stavolta giocava a fare il produttore. Io stimavo molto Arcalli ed è stato un incontro di cui ringrazio molto Giovanni Bertolucci e Giulio Questi.

Che tipo di rapporto di lavoro hai avuto con Franco Arcalli?

Fino a quel momento avevo guardato al montaggio con sospetto se non con rabbia. Mi sembrava, il montaggio, il momento che io definivo imperialistico di un film. Mi sembrava che il montaggio venisse ad ammorbidire quelle punte stilistiche, quegli urli che sono presenti nel materiale giornaliero, che il montaggio venisse a soffocare e a legare la gestualità della macchina da presa così viva nel materiale ancora così rozzo. Quindi: trionfo del piano-sequenza e rifiuto dell’inquadratura breve.

Io cercavo in tutti i modi di evitare o ridurre al minimo il momento del montaggio fino al giorno in cui ho incontrato Kim. L’incontro è nato un po’ come una sfida. Lui formato in maniera autodidatta con tutto l’amore per la cultura che solo un autodidatta può avere (direi Ėjzenštejn, jazz, il Baffo, whisky, elaborazioni fantasiose sulla realtà politica nazionale e non). Io ex studente della Cinémateque française di Langlois.

La sfida avvenne sul corpo del film (Il conformista), e lì ho scoperto il montaggio. Non soltanto come momento anche violentemente dialettico con l’ideologia della ripresa, ma soprattutto come ricerca infinita e scoperta inesauribile di elementi nuovi nascosti nelle pieghe del materiale. Con Kim si andava necessariamente underground, dentro il corpo ancora informe del film, un po’ come in miniera, e le scoperte erano continue e molto eccitanti. In fondo era ripetere nella sala di montaggio qualcosa che io avevo sempre considerato privilegio del set e cioè l’improvvisazione — il piacere dell’imprevisto —, quello che Renoir chiamava “la porta aperta”.

Così con Il conformista ho accettato tante cose nuove per me. L’idea di montaggio, la collaborazione con Kim come prima apertura all’idea che un film non è il lavoro di una sola persona (l’idea che mi veniva dalla mia precedente esperienza letteraria, l’idea che mi era rimasta). Avevo scoperto che Kim era, al momento del montaggio, un geniale sceneggiatore. Perché non chiedergli di sceneggiare insieme a me anche prima?

Questo si è fatto da Ultimo tanto a Parigi, poi Novecento, fino al trattamento della Luna, che abbiamo poi dovuto finire io, mio fratello Giuseppe e Clare, mia moglie, senza di lui.

Come era la collaborazione con Franco Arcalli nella stesura del copione, neanche con te scriveva? E i suoi apporti in fase di soggetto?

Kim non scriveva, amava chiacchierare facendo finta che si stesse perdendo tempo, ma anche disprezzando l’idea che si era riuniti per una seduta di sceneggiatura. E credo che in questo fosse molto veneziano — proprio per l’amore delle chiacchiere. Eravamo poi tutti e due di città di provincia, lui veniva da Venezia e io che vengo da Parma. Lavorare con lui era come di notte, ormai assottigliato il numero degli amici, ci si accompagna a casa l’un con l’altro volendo rimandare il momento della separazione, e allora ci si continua ad accompagnare tutta la notte per chiacchierare. C’era un grande piacere per la chiacchiera, per lo scherzo, per il riso.

Franco Arcalli era non solo un appassionato cultore di musica moderna, jazz e rock, ma aveva anche molti amici musicisti. Pensi che si possa dire che il suo tipo di montaggio fosse in qualche modo musicale o basato sulla musicalità dei rapporti tra le immagini e le inquadrature? Nei tuoi film, poi, Arcalli dava un qualche apporto originale alla colonna sonora?

Kim faceva musica con le scansioni dei tagli. Era sempre molto facile mettere musica con i rulli montati da lui. Sulla musica non eravamo totalmente d’accordo e quindi, spesso tendevo a rinchiudermi e a escludere Kim. Sceglievo il musicista, incidevo la musica e chiamavo Kim al momento di montarla, cioè al momento di cambiare. Sapevo che lui non avrebbe montato seguendo passivamente l’idea e i luoghi, cioè mettendo la musica sempre nei luoghi per i quali era stata concepita, ma inventando soluzioni nuove, dei sincroni diversi del tutto impensabili prima. Kim veniva quindi a portare di nuovo la sua furia dialettica. Aveva sempre bisogno di lasciare la sua firma, che era sempre rimettere tutto in questione, ricominciare daccapo e non buttare via mai niente.

Per lui il materiale del film era come il maiale, non si butta mai nulla.

Di fatto, quando è morto, mi sono sentito come un bambino che ancora non cammina, e viene sostenuto dalle mani degli adulti, che è improvvisamente privato di quelle mani sotto le ascelle.

Il montaggio di Ultimo tango a Parigi è firmato sia da Arcalli che da Roberto Perpignani. Ci puoi spiegare perché? Inoltre, dal momento che Perpignani ha lavorato molto con te per i tuoi film precedenti (Prima della rivoluzione, l’episodio Il fico infruttuoso, Partner, La strategia del ragno), ci puoi spiegare in che cosa consistesse la diversità maggiore dei due montatori, naturalmente alla luce delle loro esperienze con te e dei loro apporti effettivi al tuo lavoro?

Perpignani ha lavorato su Ultimo tango a Parigi quando Kim venne operato d’ulcera. Perpignani è uno dei montatori più geniali della giovane generazione. Quel breve incontro con Kim per Ultimo tango a Parigi credo l’abbia molto segnato.

Con Perpignani siamo nati un po’ insieme ed eravamo così simili che ci si poteva specchiare l’uno nell’altro. Mancava perciò quel tipo di scontro che è necessario per il montaggio di un film. Lui poi ha ottenuto degli ottimi risultati con altri registi. Oggi che siamo diversi forse potremmo ritrovarci.

Il tuo ultimo film, La luna, è montato da Gabriella Cristiani, che era la prima assistente di Franco Arcalli. Che tipo di rapporto di lavoro avete avuto?

Con Gabriella all’inizio era un pochino quasi giocare a ripetere un’esperienza che tutti e due avevamo avuto con Kim, un montaggio cioè “à la manière de…”. Dopo di che il montaggio e il nostro rapporto ha trovato la sua strada. Credo che per lei sia stato come commettere un regicidio: adesso sedeva lei suo trono di Kim, che è poi una qualsiasi seggiola di uno stabilimento di montaggio.

 

II.

Ogni persona che incontriamo ci parla dei “progetti” di Kim per il suo famoso film. Secondo molti, sarebbe stato un film da Bataille, e tu ne sapresti qualcosa. E nel tuo cinema si vedrebbero tracce del bataillismo di Kim, da Ultimo tanto a La luna.

Secondo me è una falsa pista. Kim amava molto Bataille, ma in modo istintivo e non razionalizzato; era un dato della sua cultura esistenziale, affastellato con molti altri; da Gombrowicz al fumetto erotico, dal jazz a Tanizaki. Con me non ha mai parlato della possibilità di un film su Bataille. Quanto a Ultimo tango, allora ero io personalmente molto sotto l’influsso di Bataille; fin dalla prima idea che ne avevo avuto, quando ancora si chiamava La petite mort (“la piccola morte”, una definizione settecentesca francese dell’orgasmo), c’era qua e là qualcosa di batailliano, specie nel ruolo delle secreazioni, degli odori, dei liquidi.

È curioso; credo che anche Oshima abbia preso da Bataille questo aspetto. E c’è una scena nell’Impero dei sensi che è molto simile a una analoga che avevo girato per Ultimo tango e che poi non ho utilizzato: è quando i due amanti si chiudono dentro e decidono di non cambiare l’aria, di trattenere dentro la stanza l’odore dei corpi, il sudore, le secrezioni. È un lato scatologico che credo abbiamo entrambi preso da Bataille.

Allora pensavo anche a un film da La bleu du ciel, ma non se ne è fatto più niente. Comunque, in fase di sceneggiatura, anche con Kim, si parlò pochissimo di Bataille.

E per La luna? Un collegamento con Ma mère?

Guarda, prima di fare La luna ho letto apposta Ma mère per “controllarmi”, per verificare se c’era qualcosa. Ma come avrai notato il film non c’entra niente. Il rapporto madre/figlio è totalmente diverso. La luna viene da molto lontano, davvero dalla mia infanzia, come si vede nella scena iniziale del film. Sono rimasto molto colpito tempo fa per una cosa che mi ero dimenticato e che ho trovato rileggendo un libro di interviste della Maraini, interviste non specificamente “cinematografiche”, di qualche anno fa. Già lì parlavo di quella scena, di quel ricordo, di quel volto e di quella “luna”.

E Kim?

In questo caso proprio nessuno di noi ha mai pensato coscientemente a Bataille. Ripeto, per me è una falsa pista. Il rapporto con Bataille in Kim c’entra, ma era quasi gonfiato dalle sue citazioni. È strano, ma in tutti i suoi amori e manifestazioni “culturali” c’era sempre molto di letterario. Kim non scriveva un rigo delle “sue” sceneggiature, ma arrivava alla fissazione della pagina scritta, ma spessissimo erano i suoi stessi atteggiamenti, il suo vivere, a essere “letterari” o “romanzeschi”. Anche per questo, poi, non si può parlare di influenze precise, di interrelazioni evidenti e culturalmente importanti o decisive. Sarebbe falso. E non si capirebbe l’importanza decisiva che (come per tutti) per esempio hanno avuto certi episodi della sua vita nel formarsi della sua particolare impetuosa tenerezza.

Allora, il progetto del “film di Kim”?

Forse preferiva davvero montare, “rivedere e correggere” i film degli altri. In ogni caso, credo non sia mai arrivato alla formalizzazione di un’idea in una sceneggiatura sua, scritta da lui. Io, dopo Ultimo tango, quando ebbi più credito commerciale, e già prima, volevo fortemente che facesse un film, lo avrebbe potuto fare volendo. E da allora, per anni, quando glielo rammentavo, lui mi parlava di una misteriosa sceneggiatura già in fase di avanzamento, “quasi pronta” ecc.

Ho difficoltà a crederci. Era strano questo rapporto rovesciato, con lui improvvisamente costretto a dire le bugie. In realtà, Bataille a parte, credo che il rapporto di Kim col cinema, anche quando era lucidissimo e razionalissimo, fosse soprattutto sensitivo, di “intervento” quasi fisico. Difficile, per questo, parlare di progetti precisi, idee di film. Certo, tutti possono parlarne, ma solo perché era un getto continuo di idee, di storie, di fatti narrati e riinventati di fronte a una bottiglia o camminando per strada. L’ultima “idea” che io so è quella — che già conoscete — del vogatore tedesco-orientale che va a Casablanca… è molto divertente.

Non è possibile passare dalla letterarietà — forse — del personaggio, a quel tanto di libresco che può esserci invece in una scaletta di padri e zii culturali. Sarebbe tradirlo, anche con Bataille. Kim era liberissimo, più che un Martin Eden — come dite — io lo vedo come il Boudu di Renoir, lo straordinario personaggio di Michel Simon, attore che amava moltissimo. Alcolico, burbero, saggio e ridente, pronto a muoversi secondo la deriva delle acque. Con bellissime storie da raccontare. Storie di felicità e infelicità insieme. Dal padre ucciso dai fascisti quando lui era un bambino, al “buco-stampa” (così lo chiamava) in cui undici-dodicenne viveva a Venezia in casa di parenti; ed era il “buco” in cui veniva stampata L’Unità clandestina; e di lì la militanza partigiana. Suo padre era di Roma… credo che Kim sia nato a Borgo Pio.

Hai parlato di Renoir. Riparliamo un momento di quello che era “il cinema” per Kim. Per restare in Francia, sembra che Kim non apprezzasse molto la nouvelle vague.

Infatti. I francesi della nouvelle vague gli sembravano esangui e asfittici, poco “spinti” in ogni senso. Parlavano della propria vita, sì, ma era quella vita piccolo-borghese che Kim non sopportava. E soprattutto, li trovava collegati solo alla loro “piccola vita”, in fondo ancora e solo dei film “privati”, magari incolti ma “intellettuali”. Li vedeva troppo lontani dal grande pubblico, che a Kim interessava sempre molto. E poi restavano lontani, credo, dalla sua predilezione per il cinema appassionato, lirico-melodrammatico, violento, fortemente drammatico, molto “sessuale” e sessuato in ogni senso.

Secondo alcuni, Arcalli avrebbe contribuito alla “commercializzazione” del tuo cinema.

Credo solo che in parte mi abbia aperto alla necessità di fare un cinema, per quanto sempre inevitabilmente “privato”, di comunicazione. Comunque aspetta, a proposito di pallini e preferenze… ricordo che fu Kim a insistere perché io vedessi La terra di Dovženko prima di fare Novecento. Kim amava il cinema sovietico — anche Ėjzenštejn — molto più di me. Io non avevo ancora visto La terra. Andai apposta alla Cineteca nazionale; e mi servì vederlo. Credo che a Kim piacesse anche il tipo di erotismo panico che c’era nella Terra, la presenza di quei corpi nudi.

Ci hai detto dei tuoi “contrasti” iniziali con Kim, dei tuoi piani-sequenza che si scontravano con le istanze di montaggio…

Sì, a Kim devo la scoperta dei molti pezzi di “altri film” ipotetici che sempre si nascondono nelle pieghe di un set, anche nelle pieghe di una ripresa preparata in ogni minimo particolare. Era come un istinto che aveva. Anche le rare volte che per esempio venne sul set di Novecento lui vedeva sempre altre possibilità, altri tagli, altri “stop” dentro le scene che giravo.

Io non amavo molto gli “sperimentalismi” un po’ pop e gratuiti del cinema sessantottesco e giovane cui Kim collaborò con generosità. Certi “lampeggiamenti” quasi subliminali, per esempio, certe esasperate rapidità, certe manipolazioni mi davano fastidio. Oggi, quando mi capita di rivedere qualcosa di allora e di quel cinema, o anche solo di ripensarci, se la mia reazione ideologica e di gusto è uguale capisco però che era l’insaziabile voglia di Kim di inventare sperimentare raccontare altre storie dentro una stessa storia.

 

[la prima parte dell’intervista è stata realizzata a Roma nel novembre del 1979, la seconda sempre a Roma nel gennaio del 1980; le due parti sono state unite e pubblicate in Kim Arcalli. Montare il cinema, a cura di Marco Giusti e Enrico Ghezzi, Marsilio 2008]

KIM ARCALLI SECONDO GIUSEPPE BERTOLUCCI

La scoperta delle possibilità
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