di Alberto Crespi
Niccolò Ammaniti: sette romanzi, un numero imprecisato di racconti, un passato da “gioventù cannibale” (nella famosa raccolta curata da Daniele Brolli nel 1996 pubblica il racconto Seratina), il noto psicoanalista Massimo come padre (e nel rapporto con Bertolucci la cosa non è marginale), un amore antico per il cinema che si traduce nella regia della serie tv Il miracolo (2018). Cinque film tratti da suoi testi: L’ultimo capodanno (Marco Risi, 1998: uno dei film più incompresi e sfortunati del cinema italiano recente), Branchie (Francesco Ranieri Martinotti, 1999), Io non ho paura (Gabriele Salvatores, 2003), Come Dio comanda (di nuovo Salvatores, 2008) e soprattutto Io e te di Bernardo Bertolucci (2012).
Il primo incontro, Niccolò. Il momento in cui Bernardo Bertolucci ti ha detto: “Farò un film da un tuo romanzo”.
Sono due momenti diversi. Conoscevo Bernardo da tempo grazie a Francesca Marciano, e lo amavo come persona e come regista. Della persona mi hanno sempre colpito la gentilezza e la simpatia. Ho vissuto molte cene divertenti a casa sua, a Roma e anche a Londra. Facevo lo scrittore da poco e mi sembrava di entrare in un mondo meraviglioso. Quando ho scritto Io e te, gliel’ho mandato perché sapevo che cercava un soggetto per un film che non fosse impegnativo dal punto di vista di vista della logistica, degli ambienti, delle difficoltà legate alle riprese. In realtà Io e te sarebbe dovuto essere il mio esordio alla regia: stavo lavorando con il produttore Mario Gianani e pensavo di dirigerlo io. Poi un giorno Bernardo mi ha chiamato e mi ha detto semplicemente: “Ho deciso di fare il film dal tuo libro”. Io non ho avuto un attimo di esitazione. Ho pensato subito: “Perfetto, fallo tu”. Ne ho parlato con Mario che è stato felice (ha conosciuto Bernardo grazie a me) e abbiamo cominciato la sceneggiatura.
Sceneggiatura che tu firmi assieme a Umberto Contarello, Francesca Marciano e allo stesso Bertolucci. Come si è svolto il lavoro di scrittura?
È stato lungo e complesso. Sul lavoro Bernardo non era una persona facilissima. Aveva grandi intuizioni sulle singole scene, mentre io sono più “strutturalista” e ragionavo maggiormente sul film nel suo insieme, ma poi abbiamo trovato una vita comune. La mia idea di sceneggiatura era diversa dalla sua. Per lui un film si costruisce su intuizioni personali che poi si incastrano da sole, mentre io dicevo spesso: “Ma se qui non succede quella cosa, poi non torna quell’altra cosa”. E lui mi rispondeva: “Che importa?” Io sono più geometrico. Cerco la coerenza interna. Lui mi ha insegnato che invece non è così necessaria. Molto spesso le scene gli vengono dall’esperienza, hanno a che fare con la memoria. A volte mi diceva: “Voglio quella data scena perché mi ricorda qualcosa che ho vissuto”. “E dove la metto?” rispondevo io. “La voglio e basta”, concludeva lui. Aveva ragione. Mi ha insegnato che se una scena ha una forza in sé può convivere con altre scene anche se apparentemente la relazione non funziona. Ultimo tango a Parigi è così: i personaggi sono spesso mossi da impulsi diversi e contraddittori, e questo rende il film più libero, più stimolante.
Hai seguito la lavorazione sul set?
Poco. Ho capito subito che non voleva gli sceneggiatori fra i piedi.
Il finale del film è diverso da quello del libro.
È la differenza più forte (che ne sono anche altre). Per me la fine del film è stata una delle cose più complicate da accettare. Per Bernardo il mio finale era troppo cupo. L’ideale del cadavere nella morgue, intorno alla quale gira tutta la narrazione, non gli piaceva. Voleva che la protagonista femminile non morisse. Per me era un problema, perché nella mia testa il libro parla di quello, di una persona che muore perché un’altra persona possa salvarsi. Abbiamo provato milioni di finali. Tutti problematici. Il più semplice era il suo. E quando l’ho visto, alla prima proiezione, l’ho trovato bellissimo e non ho provato alcun fastidio. Tra l’altro la camminata finale è stata girata a cento metri da casa mia, in viale Liegi a Roma (io abito lì accanto, in via Lisbona). È paradossalmente riuscito a farne qualcosa di autobiografico — ma per me, non per lui! Spesso mi parlava del protagonista come fossi io. Ha anche visitato lo studio di mio padre (si è mosso apposta per vederlo! E già stava in sedia a rotelle, gli spostamenti erano molto difficoltosi) per capire se si poteva usarlo per le riprese. Non si poteva, era troppo stretto, ma gli è servito di ispirazione. Il film è stato l’inizio di un’amicizia profonda, che è durata fino agli ultimi giorni. Sono molto grato di averlo conosciuto.
Hai avuto la sensazione che, raccontando la storia di un fratello e di una sorella, stesse anche raccontando il suo rapporto con il fratello Giuseppe, al quale il film è dedicato?
Mi parlava molto di Giuseppe. Erano molto legati. E naturalmente sapevo che Giuseppe era malato. Però il film, secondo me, è soprattutto la storia della sorellastra che entra nella vita del ragazzo. Mette in scena un immaginario erotico e femminile attraverso il quale Lorenzo diventa adolescente, viene svezzato.
Lui che lavorava per illuminazioni, tu che sei più “strutturalista”. Viene in mente la vecchia definizione di Pasolini, “cinema di poesia”, che Bernardo ha sempre sposato. Lavorando con lui ti sei qualche volta sentito come un romanziere che si confronta con un poeta?
Nessuno sa bene cosa sia un poeta. Il poeta è qualcuno che dà musica alle parole. Bernardo lavorava su immagini libere e il suo vero tema profondo era la nostalgia per l’adolescenza. Mi sembrava di avere a che fare più con un pittore, che con un poeta.
Domanda ovvia: prima di conoscerlo e di lavorarci, quali suoi film ti piacevano maggiormente?
Quello che mi è piaciuto di più, per la forza produttiva e la magnificenza visiva, è L’ultimo imperatore. Mi ha sconvolto. Soprattutto la prima parte. È un film potentissimo. Di fatto è una storia sull’infanzia, mi ha schiuso un immaginario. Mi sembrava che quel bambino chiuso dentro la Città Proibita mi parlasse. Ma soprattutto parlava di lui. È anche un film con dei contributi tecnici e artistici incredibili: la scenografia, la fotografia… Degno di Spielberg, o di qualunque gigante del cinema americano. Poi, forse per contrasto, amo molto L’assedio, un piccolo film, tutto girato in una casa, con pochi personaggi.
Ora che sei anche un regista, ti sembra di avere “rubato” qualcosa di lui?
Magari, mi piacerebbe! Ma Bernardo era unico, soprattutto nel rapporto voluttuoso e sensuale con la macchina da presa. Lavorando con lui, si imparava che il movimento di macchina è un movimento narrativo, lo devi sentire già quando scrivi, è la rotaia su cui poi cammina e si sviluppa la scena. Ho avuto modo di mostrargli Il miracolo. Aveva dei dubbi, ma nel complesso gli era piaciuto. Negli ultimi anni era diventato un super appassionato di serie tv: le aveva viste tutte! Abbiamo anche provato a lavorare assieme al suo vecchio progetto su Gesualdo da Venosa, un film in costume che poi si è rivelato troppo complesso. Negli ultimi tempi si era molto addolcito. Come Marco Bellocchio, era diventato un saggio Zen, trasmetteva serenità. Non l’ho mai sentito lamentarsi dei suoi dolori. Ho parlato con le sue sceneggiatrici, Ludovica Rampoldi e Ilaria Bernardini, con le quali ha lavorato a The Echo Chamber fino all’ultimo giorno. Me lo hanno descritto disponibile e adorabile, più di quanto lo fosse stato con me qualche anno prima. Era rimasto molto contento del restauro di Ultimo tango a Parigi. Aveva ritrovato l’energia. Era diventato più gentile, più buono. Aveva un sorriso per tutti, e il suo sorriso aveva ogni volta la capacità di commuovermi.
[in biancoenero, n. 593, gennaio 2019]