di Attilio Bertolucci

 

Non credo che sia cosa di tutti i giorni, per il critico, assistere al primo incontro d’una collettività con il cinematografo. Il fatto è avvenuto alla nostra presenza sull’alto Appennino tosco-emiliano, per esser preciso nei pressi di Casarola di Monchio, e il merito, o la colpa, dell’incontro va all’USIS, che è riuscita a farvi arrivare uno dei suoi pulmini magici. Eppure la strada è lunga da via Veneto (dove impiegate americane dalle lunghe gambe e con un gusto particolare per i ristoranti sull’Appia Antica, smistano le innumeri pizze dei documentari indispensabili al fabbisogno italiano) al verde prato scelto dagli operatori volanti per il nostro spettacolo.

Perché, a dire il vero, l’allacciamento di Casarola con la rotabile provinciale non è del tutto compiuto. Siamo molto avanti, lo riconosciamo, ma lo strappo non tocca ancora il paese. Vi arriverà un altr’anno, e questo sarà forse l’ultimo che Casarola avrà dovuto trascorrere senza le nuove “meraviglie” della civiltà di massa, dalle motorette ai cartelli della pubblicità stradale.

Così il cinematografo (dobbiamo metterlo fra quelle deprecate meraviglie, proprio noi che non abbiamo, con tutti i suoi tradimenti, smaltita la nostra cotta giovanile?) s’è dovuto accontentare d’una puntata nel territorio, a qualche chilometro dall’abitato. Lo sapete che vuol dire chilometro in montagna, quante siepi e prati e boschi racchiude la parola, e di conseguenza quante ginestre e genziane e garofani selvatici, e mirtilli e lamponi e ancora, di questa stagione un miracolo, piccole fragole profumate.

La gente dunque s’è dovuta muovere, ha mangiato un po’ più presto del solito, come si fa in città quando si va a teatro, e ha lasciato Casarola quasi deserta. Sono rimasti a casa i vecchi decrepiti e i lattanti, come in quell’altra estate, quando arrivarono quassù, bordati di rami di castagno e nastri di munizioni, gli adolescenti della Hermann Goering per il rastrellamento, e bruciarono sei case su trenta, chissà poi perché. Anche quelli erano portati della civiltà di cui Casarola avrebbe fatto a meno.

Mi hanno chiamato passando e mi sono unito a un gruppo che aveva una lanterna splendida, ma non ce n’era bisogno, l’aria imbruniva assai lentamente. Primi ad arrivare erano stati vecchie e ragazzi, che non erano mai andati al cinema per la semplice ragione che non s’erano mai allontanati dalla chiusa valle dove erano nati. Dovete credermi se vi dico che non s’erano spinti oltre Monchio, che Parma stessa era per loro appena un nome, il nome d’una cosa straordinaria, riservata agli uomini, al di là di tante catene di monti sempre più celesti, all’infinito. Parma come Boston (Massachusetts), o Dijon, o Haute Marne, dove ci sono boschi da tagliare, e dollari e franchi da guadagnare.

I due tipi del pulmino avevano improvvisato un bellissimo cinema all’aperto, stendendo il telone sul muro d’una cascina posta nel mezzo di un prato in pendio, anfiteatro ideale che ben presto nereggiò di pubblico quietamente vociante. Ci volle un po’ di tempo perché la macchina funzionasse, le false partenze divertirono parecchio quegli spettatori ingenui, ma non tanto da non provare un onesto gusto ai guai di quei due cittadini. Loro ci si trovavano così spesso in situazioni simili, a battere un chiodo in una benna scassata da un sasso imprevisto, a rimettere in sesto una soma, a voltare un mucchio di fieno asciugato e bagnato cento volte: ma ore erano altri a doversi cavare d’impiccio, erano altri a lavorare e loro a guardare. Ce n’era già abbastanza perché la serata potesse dirsi riuscita.

Ma ecco, tutto era a posto, si fece un improvviso silenzio e comparvero sullo schermo, in un technicolor perfetto, le immagini d’un documentario sulla regione del Vermont, mentre una voce e una musica ben accordate sottolineavano il fotografico, ricco di silos, segherie immani, frutteti in fiore a perdita d’occhio, bambini in tuta blu ed efèlidi nazionali, e mille altre belle cose di un’America più nel gusto di Longfellow che di Melville.

Il pubblico che, ripeto, per la più gran parte non aveva mai visto un film, non si meravigliava di nulla e prendeva il suo bene dove lo trovava. I notabili, gli anziani guardavano con interesse a certi utilizzi del legno, le ragazze alle pettinature delle forosette della loro età, che venivano di tanto in tanto a rompere la monotonia fra “cattedra ambulante d’agricoltura” e “Wordsworth vulgato” del lunghissimo cortometraggio.

Ma tutti, tutti senza eccezione, in uno slancio di commovente unanimità, parteciparono giubilando alla proiezione quando si vide entrare “in campo”, col suo passo paziente, un somarello nordamericano.

Fu affare d’un minuto, ma rappresentò un’eternità di gaudio, di candido rapimento. Per la prima volta il cinema aveva mostrato alla gente di Casarola una creatura veramente familiare, aveva assolto al suo compito realistico. L’asino del Vermont era, malgrado tutta la tavolozza falso-vera di technicolor, che gli era stata rovesciata sul morbido mantello, suppergiù come i bigi compagni della loro solitudine. Molto più vicini di quanto non fossero, o almeno non sembrassero, i democratici farmers del Vermont puritano e opimo.

Non erano ancora le undici che già il pulmino magico s’allontanava col suo rombo sempre più debole verso la provinciale lontana, mentre fra stelle in cielo e grilli in terra quelli di Casarola tornavano chiacchierando al paese. E l’argomento più dibattuto, nel gruppo cui appartenevo e che procedeva svelto nell’ondeggiante luce della lanterna, era questo: se l’asino memorabile del cinema assomigliasse più a quello della Romana o a quello della Tita.

 

[in Attilio Bertolucci, Aritmie, Garzanti, Milano 1991]