Pubblichiamo una videointervista a Bernardo realizzata nel 2011 da Carlo Lavagna e Roberto De Paolis. L’intervista è stata girata nel 2011, durante la preproduzione di Io e te, nella casa di Bertolucci a Trastevere.
A seguire pubblichiamo un’intervista di Colleen Kelsey al regista pubblicata nel 2014 dalla rivista Interview che ringraziamo.
Io, te e Bernardo Bertolucci
di Colleen Kelsey
di Colleen Kelsey
In settantatré anni di vita, Bernardo Bertolucci è stato parecchie cose: poeta, aiuto regista di Pier Paolo Pasolini, discepolo di Godard, marxista, autore di favole, provocatore politico e sessuale, e vincitore di Oscar. Il primo film l’ha girato a ventun anni, con la benedizione di Pasolini. Bertolucci si è visto revocare dallo stato italiano i diritti civili per cinque anni, è stato accusato di «stupro emotivo» dagli attori Maria Schneider e Marlon Brando per quella totalizzante odissea sessuale che è Ultimo tango a Parigi (1972), ha affrontato fascismo (Il conformista, 1970), incesto (The Dreamers, 2003), storia e gioventù (Io ballo da sola, 1996), in modo sia intimista che incredibilmente epico (Novecento, 1976; L’ultimo imperatore, 1987) e perversamente claustrofobico (Ultimo tango; The Dreamers). Ha realizzato film che portano all’estremo alcuni dei temi più importanti della vita, come politica, sesso e spiritualità, e, con più di cinque decenni di lavoro tra Hollywood e l’Europa, è stato tanto universalmente dibattuto quanto venerato.
Bertolucci pensava che la sua vita nel cinema fosse terminata quando, nei primi anni 2000, ripetuti interventi chirurgici per problemi alla schiena, generati da un’ernia al disco, lo hanno costretto su una sedia a rotelle. Fortunatamente non è andata così. Il suo ultimo film, Io e te, il primo del decennio, esce in sala venerdì prossimo. Adattamento di un romanzo dello scrittore italiano Niccolò Ammaniti, Io e te è un’analisi condotta con semplicità, ed è il primo film che Bertolucci ha girato in italiano dopo decenni. Lorenzo, un quattordicenne problematico (Jacopo Olmo Antinori), elude una settimana di vacanza scolastica con i compagni per trascorrere quei sette giorni nello scantinato del suo palazzo, beatamente da solo, fino a quando l’idillio non viene interrotto dalla sorellastra venticinquenne che quasi non conosce, Olivia (Tea Falco), in cerca di un posto dove godersi in solitudine la sua dipendenza da eroina. Nascosti nello scantinato, Olivia e Lorenzo faticano a trovarsi, prima di stabilire un legame autentico, raccontato da Bertolucci in modo naturale ed essenziale.
Bertolucci divide il suo tempo tra le sue due case a Londra e a Roma. Ed è in quest’ultima che Interview l’ha raggiunto telefonicamente per parlare di Io e te, delle sue discussioni di politica con Andy Warhol, di Mad Men e del perché, in pratica, ogni suo film si possa considerare un film politico. Per essere uno che vissuto un’incredibile quantità di vite in una sola, è straordinariamente generoso con il suo tempo e accurato nella scelta delle parole.
Ciao, Bernardo. Come stai?
Benissimo. Qui a Roma piove. Piove anche a New York?
Adesso c’è solo un po’ di nebbia, ma spero che piova. Negli ultimi giorni c’è stato un caldo incredibile, sarebbe bello se piovesse un po’.
Quindi scrivi per Interview?
Sì.
Oh, mio Dio. Conoscevo benissimo Andy Warhol, e Bob Colacello.
Parliamo di Io e te. Qual era la tua predisposizione mentale quando hai iniziato a lavorarci? Sono passati un po’ di anni dai Dreamers, e so che hai avuto problemi di salute. Cosa pensavi quando hai iniziato il film?
Ero elettrizzato all’idea di una nuova esperienza. Pensavo che a quel punto il mio amore per il cinema si sarebbe limitato al guardare i film, e non più a farli. Ed ecco che per un attimo questo film mi è sembrato fattibile. Ero felicissimo. Pensavo: «Forse dovrei farlo». Del resto ho fatto film per tutta la vita, e per me è la cosa più piacevole e normale che esista.
Come mai hai scelto di ambientarlo in Italia e di girarlo in italiano? So che la storia è presa da un romanzo italiano, ma negli anni hai avuto un rapporto complicato con il tuo paese, e sono decenni che non fai un film in italiano. È stato come tornare emotivamente a casa?
Be’, no. Molti anni fa, quando giravamo Ultimo tango, Marlon leggeva i dialoghi che avevo scritto in italiano e tradotto in inglese. Leggendoli ha capito come e perché i dialoghi in inglese sono di gran lunga migliori di quelli, per esempio, dei film francesi. L’inglese va all’essenza. L’italiano e il francese sono per certi versi più letterari. Per cui ho deciso di girare i miei film inglese ed è in inglese che li ho scritti. Poi per quindici o vent’anni ho girato in lingue differenti. Non facevo più niente in italiano. Tornare all’italiano, dopo tutto questo tempo, è stato strano.
A proposito della qualità intimista di alcuni tuoi film, molti sono girati in ambienti ristretti. Cosa si può imparare sulle emozioni o sulla natura umana dal modo in cui la gente interagisce in spazi piccoli e claustrofobici?
Si impara il corpo. La ricerca della solitudine. Cerchiamo sempre di essere qualcosa, per vivere e sopravvivere. Ed è un’impresa rocambolesca. Qui invece ti senti protetto. Anche un po’ sognante. E penso pure che riesci a stabilire dei legami autentici.
La gioventù e i giovani sono un argomento di ispirazione per te.
Sì. Prendi il ragazzo di Io e te. Gli misuri l’altezza e la segni sul muro. E poi alla fine delle riprese ti accorgi che è uno o due centimetri più alto. C’è qualcosa di vivo nella macchina da presa. Che è il motivo per cui amo riprendere i giovani, perché è come riprendere gli adulti, ma sono così vivi, e mutevoli. È una cosa che amo. Ed è molto dinamico.
Cosa hai imparato da Jacopo e Tea durante le riprese?
Il ragazzo era una specie di macchina da guerra, professionale, un attore che era già un atleta. A Tea piaceva abbandonarsi. Non era estroversa né strutturata. All’inizio c’è stato una sorta di conflitto tra i due. Come succede ai personaggi del film, poi hanno iniziato – soprattutto il ragazzo – ad accettarsi a vicenda. Alla fine credo si volessero bene. È importante girare in modo cronologico. E amo riprendere la cronologia di quell’età, l’età in cui diventi adulto.
Mi sembra che nei tuoi film ci siano alcuni elementi che vengono sempre rappresentati, a prescindere dall’ambientazione o dalla lingua: politica, sesso, spiritualità, e tematiche simili. Sono temi che trascendono lo spazio e il tempo, ma a te, cosa continuano a evocarti?
Penso che sia lì l’elemento politico. Se vuoi trovare qualcosa di ideologico in Ultimo tango a Parigi, posso dirti che ho cercato di fare un film politico. Un uomo e una donna, la distanza d’età, lei giovanissima e lui quasi cinquantenne, e le diverse visioni politiche tra un americano che vive a Parigi e la ragazza che lo conosce a stento e che in generale sa poco di tutto. Lì la politica è un tema forte. Trovo che la politica implichi un modo di vivere più strutturato. Se riduci il senso di una storia al sentire comune, la rendi politica. Se la racconti in modo convenzionale, o al contrario se ti rifiuti di farlo, la rendi comunque politica. Mi ricordo che un secolo fa ho incontrato Andy Warhol e Bob Colacello. Abbiamo parlato di politica, e mi ricordo che Andy ha detto: «Sono appena tornato da Teheran, ho visto gente bellissima». Io gli ho detto: «Lo so che c’era gente meravigliosa, ma tu dove sei stato?». E lui: «Oh, solo al Palazzo del Trono di Marmo». Mi ha fatto ridere. Ridere di cuore. Dopo avere girato Novecento sapevo che la Paramount non voleva distribuire il film perché c’erano troppo bandiere rosse. Warhol ha detto: «Ah, pensavo che il problema di Novecento fosse che durava troppo poco». Ma il film durava cinque ore! E Warhol mi diceva che durava poco. Anche lì c’era da ridere.
Ci sono film o registi che ti hanno interessato o entusiasmato, di recente?
Mi dispiace dirlo, ma in realtà ho iniziato a guardare la tv. Le serie tv sono di gran lunga migliori dei film.
Le tue preferite?
Mad Men, Breaking Bad, The Americans. E molte altre. Perché sai, nelle serie, riesci a superare la fatica della durata e ti godi il momento. Con i film è sempre un continuo tagliare. Nelle serie puoi dare il giusto spazio ai personaggi. È un lusso che lì puoi permetterti più di quanto non riesci a fare con i film. Non mi dispiacerebbe fare televisione.
Stai lavorando a qualche nuovo progetto in questo momento?
Sto cercando di scrivere una storia spettacolare. Tutto qui. Non posso dire altro.
[in Interview, New York, 7 marzo 2014; poi in Bernardo Bertolucci, Cinema la prima volta. Conversazioni sull’arte e la vita, a cura di Tiziana Lo Porto, Minimumfax, Roma, 2016]