In contemporanea all’apertura della mostra “C’era una volta Sergio Leone”, visitabile fino al 3 maggio 2020 al Museo dell’Ara Pacis di Roma, pubblichiamo un articolo di Bertolucci in cui racconta il suo primo incontro e la successiva collaborazione con Leone per la scrittura della sceneggiatura di C’era una volta il West, accompagnato dalle testimonianze di Sergio Leone e di Dario Argento.

La mostra “C’era una volta Sergio Leone” è curata da Gian Luca Farinelli/Cineteca di Bologna, e prodotta in collaborazione con la Cinémathèque Française e l’Istituto Luce Cinecittà.

SERGIO LEONE
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C’era una volta il West
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C'era una volta in Italia

di Bernardo Bertolucci

Era il 1967. Mi sentivo molto frustrato perché dopo i miei primi due film, La commare secca e Prima della rivoluzione, stavo attraversando un periodo di inattività che durava ormai da tre o quattro anni. Nello stesso tempo avevo la sensazione che il cinema italiano stesse entrando in una fase di degrado: i valori espressi dal neorealismo si stavano trasformando nella commedia all’italiana. Era come se il neorealismo avesse esaurito la sua pulsione originaria e avesse perduto il contatto diretto con la vita. Quello che si vedeva sullo schermo era solo la rappresentazione dell’Italia dei primi anni Sessanta, nel pieno del cosiddetto boom economico. Era un cinema piccolo-borghese con valori che non condividevo. Mi sentivo uno straniero in patria. Così aspettavo con ansia ogni nuovo film di Sergio Leone. Era l’unico regista, a eccezione dei quattro grandi maestri – Rossellini, Antonioni, Visconti, De Sica -, che facesse qualcosa di diverso. Andai alla prima proiezione pomeridiana di Il buono, il brutto e il cattivo. Il giorno dopo ricevo una telefonata: “Sono Sergio, vorrei incontrarti”. Così andai da lui.

“Ieri ti ho visto al primo spettacolo di Il buono, il brutto e il cattivo. Perché ti piacciono i miei film?” Risposi: “Mi piace come riprendi il culo dei cavalli. I registi di solito inquadrano i cavalli di profilo, con quelle loro bellissime linee, oppure di fronte; sono pochi invece quelli che li riprendono da dietro, una cosa poco retorica e per niente romantica, uno di questi è John Ford, l’altro sei tu”. Ne fu molto felice e mi disse: “Benissimo, ti farò scrivere il mio prossimo film”. Così Dario Argento, che all’epoca faceva il critico cinematografico, andammo una mattina a casa di Leone, che ci raccontò l’inizio di una storia, un’idea appena abbozzata di quel che sarebbe diventato poi C’era una volta il West.

Ci raccontò storie, pezzi di storie, con la passione del narratore che è ancora un bambino. Guardava al western americano con la purezza di un bambino, . Dario e io iniziammo a scrivere, e Leone interveniva. Ci lavorammo per tre o quattro mesi e scrivemmo un trattamento molto lungo. 300-400 pagine. Successivamente interruppi il lavoro per iniziare le riprese di Agonia, l’episodio girato con il Living Theatre, e così lasciai che mi sostituissero per la sceneggiatura.

Del mio trattamento di C’era una volta il West rimasero l’inizio e la scena del massacro della famiglia. Non c’era dialogo. L’avevo scritto pensando a The Searchers (Sentieri selvaggi). E tra me pensavo che sarebbe stato grandioso se Sergio avesse girato questa citazione senza sapere che fosse tale, la stessa cosa di Ford ma reinventata da me. Quando vidi il film questa citazione c’era, però senza la perversione del cinefilo, una cosa innocente e giusta. Allora lo presi in giro e Leone reagì arrabbiandosi moltissimo. Diceva: “Lo sapevo benissimo cos’era!” E io: “Ma no che non lo sapevi!”. Una cosa divertente.

Per parecchi anni Sergio fu unico nel panorama del cinema italiano. Forse dovrei dire cinema europeo. Era un misto di incredibile sofisticazione e, anche se non è la parola giusta, di volgarità. Lui prendeva direttamente dalla vita. A volte i suoi film erano raffinati come quelli di Visconti, avevano una specie di eleganza pop. A volte cercava invece i momenti più prosaici, più volgare dei personaggi. Come solo i primitivi del cinema sapevano fare, Sergio credeva pienamente alla storia che stava raccontando. Parimenti ci credeva il pubblico. Nello sguardo dei personaggi di Leone si percepiscono il peso e la tensione di un romanzo epico. I suoi film sono buoni già al livello di superficie. Ci sono poi altri livelli, naturalmente, ma penso che il grande talento di Sergio Leone fosse soprattutto la mise en scène, la relazione tra la macchina da presa, i corpi delle persone inquadrate e il paesaggio intorno. Leone era generoso di idee su come usare la macchina da presa, su come far vivere le emozioni e su come adoperare i suoi straordinari trucchi. Ecco perché andai a vedere Il buono, il brutto e il cattivo il primo giorno di uscita, alle tre di pomeriggio. E perché ho dovuto lavorare con lui.

 

[Orbits: Once Upon a Time in Italy, in Film Comment, luglio 1989, n. 24; poi in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti 2010]

DUE RAGAZZI
NEL FAR WEST

Conversazione con
Dario Argento
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