di Giuseppe Bertolucci

 

Quando, un mese fa, mi è stato chiesto di indicare alcune poesie da leggere nel corso di questo incontro dedicato a mio padre, dopo un attimo di esitazione, ho pensato che forse per me era venuto il momento di andare finalmente a un appuntamento che avevo rimosso e rimandato per troppo tempo: quello con la mia immagine riflessa nei versi di mio padre.

Ho avuto qualche resistenza, dettata soprattutto dal timore di un possibile fraintendimento: che cioè un forte desiderio di conoscenza e di confronto venisse scambiato per un’insopportabile pulsione narcisistica oppure, peggio, per l’inconfessabile tentazione di sostituire la mia persona a quella del poeta, che oggi ricordiamo a quasi dieci anni dalla scomparsa e a poco più di cent’anni dalla nascita. Ma poi, superate le iniziali esitazioni, ho deciso di procedere e ho suggerito una scelta di poesie che mi implicano direttamente, una piccolo antologia personale, nella quale sono sempre attore e a volte interlocutore del padre poeta.

 

Ho organizzato queste nove poesie secondo un ordine cronologico, che copre un arco di circa quindici anni, dal 1950 al 1965.

Le prime tre (A Giuseppe in ottobre, Ancora il taglio dei riccioli e Giuseppe e Giziano) si riferiscono alla mia primissima infanzia, i due, tre anni; sulla quarta (Le more) ho qualche incertezza: non so se quel bambino sono io o mio fratello Bernardo; la quinta e sesta (Leggendo Waldemar Bonsels a G. e I pescatori) contengono il mio ritratto tra i sette o otto anni; la settima (Il tempo si consuma) è dedicata a un G. di dieci anni; l’ottava (Ritratto di un uomo malato) parla esplicitamente di “mio figlio quattordicenne”, mentre l’ultima (Viaggio d’inverno) è riferita a un Giuseppe diciottenne.

Dai tre ai diciotto anni.

Che io sappia — oltre a un intero capitolo della Camera da letto, il penultimo, intitolato Il taglio dei riccioli (che replica l’argomento già affrontato nella seconda poesia citata prima) e a una poesia lunga, La teleferica, dedicata all’apprendistato cinematografico di mio fratello — nel corpus poetico di Attilio non ci sono altri versi nei quali il figlio minore viene nominato, diventando protagonista di una poesia.

Da questa considerazione, puramente anagrafica, possiamo trarre una prima deduzione: che la mia “vita poetica”, nell’opera di mio padre, è una vita breve, tutta concentrata tra l’infanzia, l’adolescenza e la prima giovinezza. L’ultimo domicilio conosciuto è quel treno per Cuma (non per Yuma!) in Viaggio d’inverno nel 1965. Poi G. scompare dalla poesia, non certo dalla vita di mio padre, con il quale la mia relazione è durata intensa e piena di complicità e di conflitti, fino a quel 14 giugno del 2000 che mi ha visto testimone della sua morte.

Ma è come se dopo i diciotto anni io fossi uscito dalla sua tutela poetica, dal suo lessico famigliare, dalla sua “materia di canto”. Quasi che il mio ruolo — e anche quello di mio fratello Bernardo, al quale sono dedicate tante altre poesie sempre riferite allo stesso arco temporale — fosse quello di bambino e di ragazzo, come se la nostra “parte in commedia” fosse circoscritta a quell’età, tra l’infanzia e la prima giovinezza.

La mitologia famigliare — che è una delle coordinate principali della poetica di Attilio — prevede una famiglia senza tempo, o meglio, limitata nel tempo, in un’età dell’oro, dove i genitori ancora giovani e i figli piccoli o adolescenti possono celebrare perennemente il privilegio della felicità e dell’amore reciproco: padre, madre, i due figli, sotto la protezione di due fantasmi benigni, Maria e Ugo, la madre e il fratello di Attilio, amatissimi e venuti a mancare prima del tempo.

Dunque per una ventina d’anni è questo l’orto dei sentimenti, che il poeta lavora con passione e pazienza, ricavandone i meravigliosi frutti poetici che conosciamo.

Per questo non escludo che la decisione di affrontare la bellissima, coraggiosa avventura del romanzo in versi, della Camera da letto, nasca proprio nel momento in cui si esaurisce — per il naturale trascorrere del tempo — l’incanto di quella età dell’oro: il nucleo famigliare ristretto è inevitabilmente minato da una forza centrifuga che porta i ragazzi, via via che crescono, ad allontanarsi da casa e a seguire le loro vocazioni.

E allora il poeta, aprendo gli orizzonti del suo immaginario, si rivolge a una sorta di grande famiglia allargata, nel passato, fino alle origini: a quei contadini che, secoli prima, “dalle maremme con cavalli” salgono sull’Appennino, fondano il villaggio di Casarola e danno via a un romanzo famigliare, che si chiude forse non a caso proprio con quel taglio dei riccioli di G. Là dove, appunto, inizia quell’età dell’oro di cui parlavamo e che rimane in gran parte esclusa dal racconto della Camera da letto.

Questa spericolata, forse arbitraria, rilettura dell’opera complessiva di mio padre mi ha per un momento allontanato dal punto di partenza, le nove poesie a me dedicate, alle quali voglio subito ritornare, entrando nel merito di quella sorta di identikit poetico che la sorte ha voluto regalarmi, come dono prezioso e come fonte di tanta inquietudine.

Chi è quel Giuseppe, che si affaccia, scompare e ricompare nei versi di Attilio?

Fin dalla sua prima apparizione (in A Giuseppe in ottobre) viene descritto con pochi tratti, sapienti e precisi, che connotano l’estrema sintesi di un carattere.

 

A Giuseppe in ottobre

 

Per quali strade di campagna vai

nel sole troppo caldo d’ottobre,

la mano chiusa in sé, la luce

a metà del tuo viso, a metà l’ombra?

 

È il quieto pomeriggio di un bel giorno,

il bel giorno cammina coi tuoi passi

incerti tra le foglie che di ruggine

macchiano i rustici viali dell’Emilia.

 

Come il passero arrossa le sue penne

e ci dice che è il mattino ancora

tu camminando assorto fai che venga

sera e accogli nella pupilla severa

 

di bambino i colori del tramonto.

Così per me s’apre e si chiude un giorno

d’autunno, entro vi si muove gente

di queste parti, e si ferma e discorre,

 

o tira via, saluta, altri porta

secchi d’acqua lontana. Presto

sarà l’inverno, lasciate che fermi

la stagione che indugia su una trama paziente.

 

È un bambino che coltiva una sorta di autarchia emotiva: quella “mano chiusa in sé” cosa stringe nel pugno? È un gesto di difesa? È un gesto di rabbia? Quella “luce” e quell'”ombra” che metaforicamente si contendono il suo volto e la sua anima; quei “passi incerti” di una creatura che ha appena imparato a camminare, ma che già preannunciano — ancora metaforicamente — le inevitabili incertezze dell’età matura. E poi quel suo procedere “assorto”, che miracolosamente, magicamente fa scendere la sera… Qui il poeta, forse inavvertitamente, si identifica totalmente nell’onnipotenza infantile, la fa propria e la trasforma in un enunciato oggettivo: “fai che venga sera”. E poi, in chiusura, quella “pupilla severa”, per me indimenticabile fin dalla prima volta che, a sette o otto anni, lessi la poesia e che rimarrà scolpita come un’indelebile impronta digitale nella mia fedina poetica ed esistenziale.

A Giuseppe in ottobre è la breve sequenza di un filmino in superotto (con tutte le velature e i colpi di sole del caso), dove si impressiona — a futura memoria — l’immagine di quel bambino di tre anni. Una ripresa estemporanea, una pura e semplice traccia visiva. G. cammina, si muove, forse guarda in macchina, come in tutti gli home movies. Ma la parola poetica, al pari degli anonimi dispositivi meccanici della riproducibilità, riesce a leggere l’interiorità e forse la sorte di una persona. Non a caso quel titolo, che si apre con la preposizione a, non è la pura indicazione di un soggetto, ma è una vera e propria amorosissima dedica augurale.

O forse invece una sorta di premonizione, se non, peggio, la condanna a un destino coatto. Infatti da allora la “pupilla severa” è la mia metonimia identitaria, della quale non mi posso più liberare.

 

Ancora il taglio dei riccioli (la seconda delle poesie della mia piccola antologia personale) mette in scena il rito di iniziazione del primo taglio dei capelli del bambino a tre anni. Accompagnato da Attilio, Giuseppe viene liberato della folta chioma riccioluta fino ad allora intonsa, in una bottega di barbiere di Vittoria Apuana, sulla riviera versiliana.

 

Ancora il taglio dei riccioli

 

Non dimenticherò Vittoria Apuana mai più mai più

dove caddero i riccioli sulla scacchiera bianca e nera —

 

così perde la prima verginità il maschio a tre anni

ne è costernato il padre consente benigna la madre —.

 

Poi ti presi per mano il dolore ci univa

e isolava nel sole ancora mattutino

 

bambino quieto carico di consapevolezza lungo

il mare vegetale che separa l’Albergo Alpemare

 

dalla litoranea. — Eravamo diretti alla no man’s land

dove maturano more dolci sino al disgusto —.

 

È possibile dimenticare il profumo dei pini e la rena

che ci imbiancava sandali e cigli?

 

Nel ricordo del padre quei riccioli che cadono “sulla scacchiera bianca e nera” del pavimento sono una versione tremenda e indimenticabile: una esecuzione, forse una castrazione. Anche se la tradizione psicoanalitica ci insegna che proprio la castrazione (naturalmente simbolica) che il bambino scopre e subisce in quella fase nevralgica della sua crescita, in quanto fuoriuscita dall’onnipotenza infantile, è un passo decisivo verso il principio di realtà e verso l’età adulta.

E infatti…

… “così perde la prima verginità il maschio a tre anni” mormora il padre “costernato”. Costernato dalla crescita di quel “bambino quieto, carico di consapevolezza”, sul quale proietta tutto il suo personale sgomento di fronte alla tragedia del tempo che passa. Quell’uomo, travolto dall’ansia, cerca di rassicurari, di aggrapparsi a una presunta “consapevolezza” di cui grava il piccolo Giuseppe, quasi che il delirio infantile dell’adulto riuscisse a placarsi solo nella quieta, consapevole rassegnazione del bambino.

Com’è vero — e com’è frequente — questo scambio di ruolo tra genitore e figlio nella selva oscura delle relazioni primarie…

 

La terza delle poesie si intitola Giuseppe e Giziano e introduce una nuova presenza, un mio amico del cuore dal nome stravagante — quel Giziano mai più ritrovato in natura — figlio di una “donna chiacchierata” dalla “giovinezza eccessiva e sciupata”.

 

Giuseppe e Giziano

 

L’anno che seguì il taglio dei riccioli di Giuseppe

vide l’allungarsi delle sue gambe, l’assottigliarsi del suo viso

e la prima affrancatura dalla famiglia sotto l’occhio vigile

di Bernardo, fratello maggiore,

cui spettava la cara, non gravosa sorveglianza.

Nei giochi impetuosi, entro la comunità dei compagni di quinta,

violenti ma docili alle sue invenzioni improvvise

e trascinanti di capo predestinato, gli era possibile

volgere l’occhio amoroso e attento

al fratellino in coppia ormai consentita

con il più stravagante — anche nel nome Giziano —

dei suoi coetanei.

Era figlio di una donna chiacchierata e malvista,

giunta chissà come a Baccanelli — tali si inseriscono gli uccelli dispersi,

usciti dallo storno, in rifugi provvisori e insicuri.

Baccanelli è ben abitata, ben situata negli immediati dintorni

della città e, valore aggiunto,

non distante dalla frangia azzurra delle colline,

che gratifica un sistema di canali irrigui

nei benedetti giorni dei diritti d’acqua,

permessi al piede di Bernardo,

interdetti alla curiosità di Giuseppe,

e tanto più se lo segue, o peggio precede

all’avventura di una lunga mattina, Giziano,

compagno imprevedibile. Forse perché

di madre dalla giovinezza eccessiva e sciupata?

 

Giziano compare anche in una bella poesia di mio fratello (nella sua unica raccolta edita In cerca del mistero), che curiosamente — rispetto a quella di mio padre — capovolge, diciamo così, l’ordine dei fattori e infatti si intitola Giziano e Giuseppe. Nelle due poesie è lui in realtà il vero protagonista: un bambino dalle origini incerte, spiritato, selvatico e un po’ matto, una specie di enfant sauvage che evidentemente aveva colpito e affascinato i due poeti di casa.

Quella con Giziano è la mia prima relazione extrafamigliare (“la prima affrancatura dalla famiglia” come la definisce mio padre) e resta nella mia memoria come il primo segno di un’alterità (sociale e psicologica) fondamentale nella costruzione di un’identità personale.

Altrettanto importante — nel mio processo identitario — della scoperta (mio padre e poi anche mio fratello che raccontano la mia vita in versi) che, ai miei occhi di bambino, trasforma il lavoro creativo in una specie di strada obbligata, di malattia ereditaria, di destino famigliare quasi biologicamene determinato, al quale è impossibile sottrarsi. E infatti anch’io, da lì a qualche anno, incomincerò prima a dipingere, poi a scrivere versi, fino alla professione di regista cinematografico e teatrale che occuperà gran parte della mia vita.

 

La quarta e quinta poesia, Le more e Leggendo Waldemar Bonsels a G. — al di là del dubbio chevi segnalavo prima circa l’identità del figlio che compare in Le more —, sono dedicate a due funzioni fondanti nella formazione dell’immaginario di un bambino: lo sguardo e l’ascolto.

 

Le more

 

La luce di settembre dentro gli occhi

volgendoti mi hai chiesto delle more

che l’estate piovosa non matura

sull’Appennino quest’anno del tuo primo

ricordare, quest’anno che declina,

ci porta via, foglie sbandate

che si cercano, che ancora si ritrovano,

come quando sul Bràtica ti chini

a una flottiglia verde e silenziosa.

 

Ne Le more — che non a caso inizia con il verso “La luce di settembre dentro gli occhi” — lo sguardo del piccolo, frugando nei cespugli, nota l’assenza delle more e il confronto con l’anno precedente (esercitando quindi forse per la prima volta la funzione della memoria, “quest’anno del tuo primo ricordare”) gli fa porre l’interrogativo sul perché di quell’assenza, di quella mancata maturazione. Ma il padre non sa rispondergli. Tutto in quella stagione sembra dominato dal caso, come quelle foglie trascinate dall’acqua del torrente, che rapiscono lo sguardo incantato del piccolo.

Quante, quante domande rimangono senza risposta, nel dialogo ininterrotto tra un adulto e un bambino, tra un figlio e un padre… quanti vuoti non si colmano! Quante intere esistenze saranno — spesso inconsapevolmente — dedicate a tentare risposte impossibili e a riempire quei vuoti incolmabili.

 

Per fortuna, sembra dirci Attilio nella poesia successiva, ci viene in soccorso il conforto della letteratura. Alla quale, nei primi anni — quando ancora non sa leggere — il bambino può accostarsi solo attraverso l’ascolto della lettura di un adulto.

 

Leggendo Waldemar Bonsels a G.

 

E ora tu che spendi il tempo bello

della tua fanciullezza in questo secolo

senza speranza, dal basso sgabello

ascolta l’ape Maia in mezzo ai tigli

mattutini ronzare in disperata

fuga verso le porte azzurre rosse gialle

della piccola patria minacciata

ascolta insetti ed elfi che si parlano

 

nei lunghi giorni estivi, nelle notti

rapide e chiare, imitando gli uomini

con goffa gentilezza, ascolta i motti

savi, i delicati ansanti allarmi:

 

quel miele nutra te convalescente.

 

Seduto su un “basso sgabello”, il piccolo G. ascolta estasiato la lettura dell’Ape Maia di Waldemar Bonsels e la voce del padre si trasforma nel ronzio vibrante di “insetti ed elfi che si parlano […] imitando gli uomini con goffa gentilezza”.

“Quel miele nutra te convalescente”. Solo il miele della poesia e del racconto può nutrire e addolcire una convalescenza che certamente, nella realtà, corrispondeva al decorso naturale di una qualche patologia infantile, ma che non riesco a non leggere in tutta la sua valenza metaforica: la fuoriuscita da una delle tante crisi (affettive ed esistenziali) attraverso le quali, anno dopo anno, si definisce la personalità di un bambino.

 

“Nella sesta stazione si contempla…” chissà perché ora, abbandonandomi al flusso delle libere associazioni, il mio inconscio ha pescato (non a caso la poesia in questione si intitola appunto I pescatori) nel formulario canonico della liturgia, associando le tappe della mia crescita alle stazioni della Via Crucis? Quasi che le dolci mulattiere di Casarola fossero assimilabili all’insanguinato cammino che conduce al monte Calvario. Dio che si fa uomo è come il bambino che si fa adulto? Entrambi pagano il prezzo di una trasformazione tragica e dolorosa?

Meglio non indagare, pena un blackout del senso che ci lascerebbe tutti, smarriti e sgomenti, a brancolare in un’irrisolvibile tenebra.

Nella quale, ancora una volta, ci vengono in soccorso, dolci e implacabili, i versi di Attilio, I pescatori, la sesta poesia, arriva infatti ad anestetizzare — almeno apparentemente — ogni possibile spunto ansioso e a riportarci con i piedi per terra. O meglio, in un luogo benedetto, che assomiglia al Paradiso.

 

I pescatori

 

Avete visto due fratelli, l’uno

di quindici l’altro di dieci anni, lungo

il fiume, intento il primo a pesca,

il secondo a servire con pazienza

 

e gioia? Il sole pomeridiano colora

i visi così simili e diversi

come una foglia a un’altra foglia nella

pianta, una viola a un’altra viola in terra.

 

Oh, se durasse eternamente questa

mattina che li svela e li nasconde

come erra la corrente tranquilla

e li congiunge sempre se un silenzio

 

troppo dura fra loro e li opprime

così da cercarsi a una voce e trovarsi,

intatte membra, intatti cuori, rami

che la pianta trattiene strettamente.

 

Il padre, dalla riva, spia i due figli, “fratelli, l’uno di quindici l’altro di dieci anni, lungo / il fiume, intento il primo a pesca, / il secondo a servire con pazienza / e gioia”.

Li osserva: “i visi così simili e diversi / come una foglia a un’altra foglia nella / pianta, una viola a un’altra viola in terra”, “intatte membra, intatti cuori, rami / che la pianta trattiene strettamente”.

Nella visione del poeta tutto torna, in un ordine perfetto, sublimato da una metafora vegetale che assimila i due ragazzi a due foglie e a due viole, per culminare in quella immagine finale della pianta paterna, che trattiene strettamente i due figli come rami. Tutti noi trasformati, come in un mito classico, in elementi della natura. Disumanizzati, svuotati di ogni conflittualità e di ogni contraddizione, in un tempo che Attilio vorrebbe che “durasse eternamente”.

Ma quel Giuseppe, che “serve con pazienza e gioia” la performance del fratello maggiore, e soprattutto quella pianta, il padre, che “trattiene strettamente” le proprie creature, non sono forse la risposta esorcistica al timore che quell’incanto possa rompersi, che l’unità famigliare possa, da un momento all’altro, venir messa in crisi? Ed ecco che, in una circolarità senza scampo, l’ansia si riaffaccia sulla scena, travestita dal suo contrario, l’idillio. L’effetto dell’anestesia sta terminando.

 

L’ansia, maestra e compagna di vita e di poesia, è ancora la protagonista di Il tempo si consuma. Ma questa volta è riconosciuta e chiamata con il suo nome.

 

Il tempo si consuma

 

Sono entrato nella gran folla mista

della messa di mezzogiorno, in cerca

di te, ch’eri là dall’inizio

bambino dligente, anima pura,

affamata di Dio, e con inquieto

occhio ho scrutato fra i banchi

inutilmente.

Ma da una tela umile veniva

incontro alla mia ansia il garzone

di falegname, Gesù, della tua età

a rincuorarmi, mentre intorno, al fioco

accento del sacerdote lontano

si mescolava l’agitazione terrena

delle ragazze e dei ragazzi tenuti

lontani dal bel sole di domenica.

Così, d’improvviso, in un angolo vicino

alla porta, t’ho ritrovato, quieto

e solo, m’hai visto, ti sei

accostato timidamente, ho baciato

i tuoi capelli, figlio ritrovato

nel tempo doloroso che per me e te

e tutti noi con pena si consuma.

 

È l’ansia che spinge Attilio ad entrare in chiesa, “nella gran folla mista / della messa di mezzogiorno” a cercare il figlio, “bambino diligente, anima pura / affamata di Dio”, ma lì per lì non lo vede e, nello sgomento di quel mancato incontro, riceve un momentaneo sollievo dall’immagine di un Gesù garzone di falegname, mio coetaneo, su una “tela umile” che decora una navata della chiesa. Poi d’improvviso mi ritrova, “quieto e solo” e mi stringe a sé, finalmente rassicurato.

“Bambino quieto, carico di consapevolezza” a tre anni, dopo il taglio dei riccioli; “quieto e solo” a dieci anni nella folla della messa di mezzogiorno. Questa replica ad anni di distanza, quel “quieto” attribuito al figlio in due occasioni dove l’ansia sta per travolgerlo ci fa pensare a una tipica proiezione salva-vita, a cui Attilio ricorre per cercare di placare la pulsione aggressiva che lo tortura. Il piccolo G. deve essere “quieto” per amore, ma soprattutto per forza, per arginare la piena emotiva del padre.

A questo proposito non posso non rivelarvi il mio più antico ricordo infantile: piccolissimo, seduto sul marciapiede della casa di campagna dove sono nato, sto giocando con sassolini e ciuffi d’erba e, sottovoce, vado ripetendomi una frase, sempre la stessa: “… solo solo, buono buono… solo solo, buono buono…”

Stavo imparando la lezione, stavo entrando nel personaggio a cui ero destinato.

 

Con Ritratto di uomo malato, l’ottava delle nostre poesie, abbandoniamo l’universo infantile e ci spostiamo nelle regioni dell’adolescenza. Giuseppe quattordicenne sta compiendo i primi passi di un proprio percorso autonomo: contagiato dalla malattia di famiglia, sta cercando un suo modo di esprimersi in un territorio, quello della pittura, ancora inviolato dalle pratiche creative del padre e del fratello.

 

Ritratto di uomo malato

 

Questo che vedete qui dipinto in sanguigna e nero

e che occupa intero il quadro spazioso

sono io all’età di quarantanove anni, ravvolto

in un’ampia vestaglia che mozza a metà le mani

 

come fossero fiori, non lascia vedere se il corpo

sia coricato o seduto: così è degli infermi

posti davanti a finestre che incorniciano il giorno,

un altro giorno concesso agli occhi stancatisi presto.

 

Ma se chiedo al pittore, mio figlio quattordicenne

chi ha voluto ritrarre, egli subito dice

“uno di quei poeti cinesi che mi hai fatto

leggere, mentre guarda fuori, una delle sue ultime ore.”

 

È sincerto, ora ricordo d’avergli donato quel libro

che rallegra il cuore di riviere celesti

e brune foglie autunnali: in esso saggi, o finti saggi, poeti

graziosamente lasciano la vita alzando il bicchiere.

 

Sono io appartenente a un secolo che crede

di non mentire, a ravvisarmi in quell’uomo malato

mentendo a me stesso: e ne scrivo

per esorcizzare un male in cui credo e non credo.

 

Il quadro, “dipinto in sanguigna e nero”, raffigura un uomo malato, adagiato in un letto e Attilio, alzando lo sguardo sulla tela — colto da un piccolo capigiro allucinatorio — crede di riconoscersi nel personaggio ritratto: “sono io all’età di quarantanove anni, ravvolto / in un’ampia vestaglia che mozza a metà le mani / come fossero fiori”.

Ma il ragazzo-pittore, interrogato dal padre, fa invece un riferimento esplicito a “uno di quei poeti cinesi, che mi hai fatto / leggere, mentre guarda fuori, una delle sue ultime ore”.

Giuseppe è sincero: “ora ricordo di avergli donato quel libro” e il poeta è costretto a recedere da quella appropriazione indebita di identità, rinunciando alle pretese del suo narciso esigente e invasivo, che lo voleva protagonista della scena (e della tela) e oggetto privilegiato dell’immaginario del figlio.

Chissà quale delle due ipotesi si avvicina di più alla verità? Ma forse ci troviamo di fronte a due verità, altrettanto legittime; anche se poi nelle due versioni, permane la costante di quell'”uomo malato” prossimo alla morte. È il centro di gravità attorno al quale ruota tutta la poesia. Ancora una volta, come sempre, è l’ansia, che genera l’angoscia e il suo farmaco, la poesia.

E, negli ultimi quattro versi, Attilio in una sintesi mirabile, evidente ed enigmatica come un teorema matematico, confessa la propria poetica:

 

Sono io appartenente a un secolo che crede

di non mentire, a ravvisarmi in quell’uomo malato

mentendo a me stesso: e ne scrivo

per esorcizzare un male in cui credo e non credo.

 

La poesia è una sorta di gioco logico, dove menzogna e verità, dubbio e certezza, incoscienza e consapevolezza danzano insieme in un grande rito esorcistico celebrato per scongiurare “un male in cui credo e non credo”.

Esorcismi, scongiuri, cerimoniali… mio padre era, da questo punto di vista, un vero e proprio selvaggio, assediato da mille superstizioni e credenze apparentemente inconciliabili con la sua grande cultura, in realtà perfettamente compatibili con la sua natura più profonda, quella di una sorta di sciamano sempre alle prese con le pratiche magiche della parola poetica.

E questo dello sciamano mi sembra una definizione appropriata in genere per tutti i poeti moderni nel loro continuo duellare con la lingua: sperimentatori alle prese con le immense e inesauribili potenzialità della parola.

Apprendisti stregoni del significante.

 

Vi confesso che anch’io, alle prese con il dolce veleno dei versi che mi riguardano, mi sento un po’ un apprendista stregone, magari nella sua veste moderna di analista selvaggio, ma fortunatamente il nostro viaggio è arrivato quasi alla sua conclusione, per cui, facendo appello al barlume di lucidità sul quale posso ancora contare, affronto l’ultima poesia della mia piccola antologia personale.

 

Se Ritratto di uomo malato ruota intorno a un piccolo equivoco interpretativo (l’identità di quell'”uomo malato”) nel caso di Viaggio d’inverno ci troviamo di fronte a un vero e proprio malinteso, che vi rivelerò fra poco.

 

Viaggio d’inverno

 

Vigorosamente imbocca la strada del mattino

con vigore e dolore distaccati da me

verso Cuma il tuo cuore giovane batta in sintonia

con l’antica e fresca musica di ruote e di rotaie.

 

Nella Campania felice che diverrà del tuo tedio

primamente virile accogliendoti viti

tirate altissime e spoglie per l’inverno

ma immagazzinanti una luce che può invidiare l’estate?

 

Ora io sogno delle stanze d’albergo

che s’offriranno alle tue membra affaticate

origlieri che il vizio ha sformato eppure

rinnova una tela fragrante e la tua fronte pura.

 

Pellegrino mio pellegrino la tua inquietudine la tua

fiducia amara mi torturano il petto

e mi salvano dall’ignominia del vivere nutrono

un’insonnia benigna con addii di convogli

 

e persistere di scolte astrali sopra la terra.

 

26 dicembre 1965-6 gennaio 1966

 

Viaggio d’inverno (la poesia che darà il titolo a una delle raccolte maggiori di Attilio) è il ritratto di un figlio diciottenne, che “con vigore e dolore” si stacca forse per la prima volta dal padre e parte per un viaggio. Il bambino “quieto e solo” è ancora maledettamente solo, ma molto meno quieto. Il suo “tedio / primamente virile” lo spinge lontano, a sud, verso la mitica Cuma in fuga dalle sue angosce adolescenziali.

“Pellegrino mio pellegrino la tua inquietudine, la tua / fiducia amara mi torturano il petto / e mi salvano dall’ignominia del vivere…” quel figlio, sulle soglie della maturità, può finalmente condividere l’inquietudine paterna e — come suggerisce l’incipit della poesia “Vigorosamente imbocca la strada del mattino” — proiettarsi nel suo futuro di uomo.

Ma, come vi dicevo, il backstage di questa poesia contiene un segreto.

I fatti. Ho diciotto anni e sono nel bel mezzo di una crisi sentimentale, la prima. Decido di cambiare aria e di andarmene a fare un giro da qualche parte. Mi viene in mente un luogo: Cuma. La Sibilla cumana… chissà, forse cercavo un responso sul mio destino e sui miei amori. Mio padre, consapevole di tutta la valenza iniziatica di quel viaggio, mi accompagna alla Stazione Termini, poi mi saluta e se ne va. Mentre sono in coda per fare il biglietto, non so perché, cambio improvvisamente programma: invece di Cuma la mia destinazione sarà Firenze.

Ciò non toglie che mio padre, tornato a casa, scriva Viaggio d’inverno. In quella poesia, come abbiamo visto, si parla di me. E del mio viaggio a Cuma. Un viaggio mai fatto. Insomma, una delle poesie più belle di Attilio è fondata su un clamoroso “falso storico”. Il fatto che su una situazione ingannevole, ma considerata come vera, si possa fare della poesia così alta è qualcosa su cui continuo a interrogarmi.

In realtà questo rapporto tra verità e poesia è la bussola che ha guidato tutta la mia ricognizione nella selva oscura o, più modestamente — per dirla con Emilio Salgari — nella Jungla nera della mia vita in versi.

So di essere stato spesso “poeticamente scorretto”, nel senso che l’implicazione personale mi ha portato a sconfinare più volte in territori non pertinenti e a utilizzare le armi improprie dei ricordi e dei riferimenti autobiografici, cercando riscontri esistenziali dentro dei testi che, come tali, hanno una loro innegabile (e inviolabile) autonomia e l’ultimo esempio, quello di Viaggio d’inverno, ne è una prova evidente.

Ma forse erano limiti inevitabili, anche perché — a quanto ne so — la rilettura e il commento da parte di un personaggio di testi che lo riguardano direttamente è una pratica davvero rara e — forse non a caso — assai poco sperimentata.

Di un esperimento appunto si tratta, che per forza di cose non può affidarsi esclusivamente ai parametri consolidati dell’analisi testuale e delle usuali procedure storico-critiche. Il percorso in cresta (come dicono gli alpinisti) tra il vissuto personale e la trasfigurazione poetica è un percorso difficile e pieno di rischi, ma molto appassionante e forse non del tutto inutile.

Come avrete capito dalle mie osservazioni alle diverse poesie il fatto di ritrovarsi trasformato in un oggetto, in una terza persona, se per un verso è fonte di un’infinita gratificazione, è però anche causa di una grande inquietudine. Io credo che sia io che mio fratello, se ci siamo messi prima a scrivere poesie e poi a fare del cinema e del teatro, è stato per ritrovare una soggettività, una prima persona.

In questo senso la “dolce condanna” di essere trasformati in materia di canto (una sorta di eutanasia, di dolce morte nella “parola poetica”) è stato forse il punto di partenza per muoversi alla ricerca di una nostra identità artistica.

Da personaggi ad autori.

Vi confesso infatti che, in questa rilettura delle poesie paterne, mi sono sentito un po’ come uno dei personaggi di Pirandello, sempre divorato dall’inquietudine e in perenne conflitto con il suo Autore. Anche se poi sono convinto che per tutti noi — figli di poeti o di impiegati, di operai o di militari — la relazione tra un figlio e un padre vive proprio di questa insuperabile conflittualità, anche quando viene negata o anche quando, come nelle poesie di Attilio, viene continuamente sublimata e contraffatta in un mitologico paradiso dei sentimenti.

Il che naturalmente nulla toglie e nulla aggiunge allo splendore dei suoi versi, nei quali, nel corso degli anni, mi sono riconosciuto e dai quali mi sono a volte sentito misconosciuto o travisato, costantemente in bilico tra la mia natura di persona reale e il ruolo di un personaggio immaginato e immaginario, di una funzione poetica.

Ma, fortunatamente, le ragioni della poesia sono assolute e spietate come la ragion di stato: non fanno sconti.

Per questo mi sono sentito autorizzato, anzi quasi costretto, a saldare il mio debito affettivo e conoscitivo con la persona che, con il suo amore, con il suo talento e con la sua ansia ha determinato in modo decisivo il mio modo di essere, di sentire e di pensare.

Senza sconti. Pagando e facendogli pagare il prezzo pieno di un rapporto privilegiato che il destino ha voluto donarci.

 

Savignano sul Panaro (Modena), 27 settembre 2009.

 

[in Giuseppe Bertolucci, Cosedadire, Bompiani 2011]