Della passione di Bernardo Bertolucci per il jazz, è lo stesso regista a parlare in un’intervista rilasciata a Filippo Bianchi nel 2007 per la rivista Musica Jazz. Accompagnano l’intervista una lettera scritta a Bernardo e alla moglie Clare dagli amici Michelle e Gato Barbieri, e una foto di Gato e Bernardo a New York, appena donata all’Archivio Bertolucci da Maria Paola Maino, che ringraziamo.
Sulla musica
di Filippo Bianchi
BIANCHI: Come hai incontrato il jazz?
BERTOLUCCI: Quando avevo più o meno nove anni vivevamo ancora in campagna, vicino a Parma, a casa di mio nonno Bernardo, e mio padre mi faceva sempre vedere questi due album dalla copertina verde con dentro dei 78 giri; c’era anche un vecchio grammofono e, qualche tempo dopo, verso i dieci-undici anni, cominciai a guardare questi oggetti con vera curiosità. Erano dischi preziosi: gli Hot Five e gli Hot Seven di Louis Armstrong, le cose fondamentali. Devi sapere che mio padre, oltre che poeta molto apprezzato e critico cinematografico, verso la metà degli anni Trenta ha scritto anche di jazz. A volte diceva, con una punta di civetteria: “Credo di essere stato il primo critico di jazz italiano”.
BIANCHI: Però… sarebbe magnifico ripubblicare le critiche jazz di Attilio Bertolucci.
BERTOLUCCI: Probabilmente quelli che hanno curato il volume dei Meridiani a lui dedicato ne sanno qualcosa. Comunque, è chiaro che questa sua grande passione si è trasmessa ai figli. Ricordo anche un album di Cole Porter, molto amato da lui e da mia madre, e non solo perché erano le canzoni della loro giovinezza. Poi ci siamo trasferiti a Roma e ho ritrovato il jazz verso i quindici anni. Soprattutto quello “bianco”, californiano, Gerry Mulligan e Chet Baker, Lennie Tristano, il cool jazz. E soprattutto da quando arrivammo a Roma ed entrò in casa il giradischi hi-fi, mio padre cominciò a comprare quella collana pubblicata dalla Folkways, che è uno dei primi tentativi seri di sistematizzare la storia del jazz: il blues, New Orleans, Chicago, il ragtime, una dozzina di album incredibili. Lui cominciò a comprarli e ogni volta che ne arrivava uno nuovo era una festa: Jimmie Lunceford, King Oliver, Frank Trumbauer, Fats Waller, i Kansas City Seven di Count Basie, Jimmy Fancey, Mary Lou Williams… Quindi mentre i miei amici e compagni di scuola ballavano il rock and roll, io ascoltavo solo jazz e musica classica; così mi sono perso tutta la fase più creativa della musica rock. L’ho ritrovata molto in ritardo, ormai trentenne, nei primi anni Settanta, quando ho incontrato mia moglie, che amava i Rolling Stones e le altre cose di quel periodo. Ora non saprei dire se fosse vero o meno, ma in gioventù il jazz mi sembrava più nobile, più “intelligente”…
BIANCHI: Una domanda quasi inevitabile: come, quando e perché ti è venuta l’idea di affidare la colonna sonora di Ultimo tango a Parigi a Gato Barbieri?
BERTOLUCCI: Affidare quella musica a Gato Barbieri era, appunto, inevitabile quanto la domanda. Con Gato e sua moglie, Michelle, che si chiamava Sorrentino ed era figlia di un noto giornalista italiano, avevamo un’amicizia di lunga data. Ci eravamo conosciuti mentre giravo Prima della rivoluzione, nel 1963, tramite Gianni Amico, che di quel film era cosceneggiatore. Gianni era un grande agitatore di menti e di cuori, e riuscì a organizzare a Parma, in una cantina, quello che fu il primo concerto italiano di Gato Barbieri, la sua iniziazione. Nessuno l’aveva mai sentito nemmeno nominare e rimanemmo tutti stupefatti da questa voce strumentale così “nera”: non era ancora la voce personalissima che lo avrebbe poi reso popolare; era ancora un tenore molto “coltraniano”, però suonava con un “fuoco” e una passione davvero non comuni. Così gli chiesi di suonare un pezzo della colonna sonora di Prima della rivoluzione, che era di Gino Paoli ed Ennio Morricone, e cominciò un’amicizia che sarebbe durata a lungo. Lungo gli anni Sessanta e oltre abbiamo condiviso di tutto, proprio di tutto: ricordo un viaggio in macchina a Pesaro, dove Gianni era riuscito a piazzarlo quasi come resident musician, facendolo suonare per più di una serata del festival. Era un quartetto fantastico, con Don Cherry, Aldo Romano e Jean-François Jenny-Clark.
BIANCHI: Insieme a Karl Berger quel gruppo registrò poi Togetherness, una pietra miliare della storia del free jazz.
BERTOLUCCI: Me lo ricordo, anche se Gato e Don Cherry avevano già fatto insieme Complete Communion, ma con un’altra ritmica. Comunque, tornando a Ultimo tango, siamo nel 1972 e decido di portare Marlon Brando a sentire Gato in concerto, e Brando non solo è molto incuriosito da Gato, ma si “innamora” letteralmente di Nanà Vasconcelos, che era il percussionista del gruppo. Al punto che la “guardiana” Michelle comincia a non amare più molto Nanà che le sembra diventato un po’ “ingombrante”. Sia come sia, con Gato avevo piuttosto insistito sull’anima argentina, sulle sue radici latine. Forse ho insistito un po’ troppo, visto che lui dopo ha fatto quasi solo dischi “latini”: Chapter One, Chapter Two: Hasta siempre eccetera, allontanandosi dal free jazz. C’era anche quel trombettista famoso, non proprio jazz, che lo ha molto sostenuto per anni, gli produceva i dischi, era quasi il suo manager…
BIANCHI: Herb Alpert?
BERTOLUCCI: Sì. Mi ricordo che Gato veniva spesso a Los Angeles, dove io allora passavo parecchio tempo, per registrare nei suoi studi. Quello di Ultimo tango a Parigi era probabilmente un musicista più genuino. La prima volta che mi ha fatto ascoltare al pianoforte i temi della colonna sonora eravamo all’Hotel Lutetia, a Parigi, e ci siamo posti subito il problema di chi li avrebbe arrangiati. Il primo nome che ci è venuto in mente è stato Astor Piazzolla. Entusiasta dell’idea, lo chiamo, ma mi tratta malissimo, dicendomi che lui è un autore, non un arrangiatore, e che semmai avrei dovuto chiedere a lui di scrivere la musica del film. Gato e io ci rimaniamo un po’ male, anche se tutti abbiamo poi capito che di persone dall’ego contenuto non è pieno il mondo.
BIANCHI: Soprattutto tra gli artisti.
BERTOLUCCI: Appunto. Passano tre o quattro anni, dimentico tutta la vicenda, e un bel giorno suona il citofono di via della Lungara, dove abito a Roma. Chiedo: “Chi è?”. “Sono Astor Piazzolla”. Astor Piazzolla? Sale in casa mia e dice che è venuto prima di tutto a chiedere scusa, perché se avesse capito cos’era quel film avrebbe fatto volentieri anche l’arrangiamento. Aggiunge che aveva amato moltissimo Ultimo tango a Parigi, e insomma, era molto autocritico. Poi mi dà un 45 giri e dice: “Questo è un piccolo regalo che ti faccio, si chiama El penultimo tango”. Buffa storia, no? Alla fine gli arrangiamenti del film li fece Oliver Nelson, che aveva già lavorato nel cinema ed era proprio un professionista dell’arrangiamento, sul genere di Quincy Jones.
BIANCHI: Che se non sbaglio hai conosciuto bene.
BERTOLUCCI: Dopo che avevo girato L’ultimo imperatore, mi aveva mandato una sceneggiatura veramente notevole sulla vita di Puskin. Ti dirai: “Perché Quincy Jones e Puskin?” Perché Puskin era, di quarta o terza generazione, di origine africana: il suo trisnonno era uno schiavo africano che era stato donato a Pietro il Grande, che si era fatto apprezzare al punto che lo zar ne fece un aristocratico. Io rimasi a bocca aperta e Quincy mi mostrò un ritratto dal quale si vedeva chiaramente come il volto di Aleksandr Puskin conservasse qualche tratto afro. La storia l’aveva scritta Dennis Potter, uno sceneggiatore inglese davvero in gamba, autore tra l’altro della serie The Singing Detective e di Pennies From Heaven. Io ne rimasi affascinato, ma mi ero già imbarcato nel Tè nel deserto e quindi non se ne fece nulla. Però con Quincy siamo rimasti amici: è una persona di grande calore umano, e una volta a Roma mi ha anche trascinato a un concerto di Michael Jackson al Flaminio…
BIANCHI: Tu hai lavorato con dei grandi professionisti della colonna sonora quali Ennio Morricone, Georges Delerue, Piero Piccioni, però per alcuni film hai scelto musicisti che non lavorano nel cinema nello specifico: Gato Barbieri, ma anche David Burne, Ryuichi Sakamoto…
BERTOLUCCI: Veramente Sakamoto aveva fatto Furyo…
BIANCHI: Comunque la domanda è: quali sono le differenze? Sovente i rapporti tra jazzisti e cinema sono stati tempestosi. Pensa a Coleman e Chappaqua. Io stesso ho curato un clamoroso fallimento: la colonna sonora di Charles Mingus per Todo modo, che Elio Petri poi rifiutò, affidandola a Morricone.
BERTOLUCCI: Differenze sostanziali non saprei. Ultimo tango a Parigi è stato una pacchia. Per L’ultimo imperatore il discorso è più complesso, se non altro perché c’erano due voci, Byrne e Sakamoto. Byrne l’avevo conosciuto ai tempi di Stop Making Sense, anche perché il video l’aveva girato Jonathan Demme, che è un mio grande amico. Diciamo che da lui volevo un suono imparentato con i Talking Heads, ma comunque “occidentale”, e logicamente avevo pensato a Ryuichi per il côté “orientale”: ebbene, è successo esattamente il contrario! Byrne ha composto una musica minimalista, un po’ “cinesizzante”, e Ryuchi una specie di sinfonia, tutta gonfia di violini… Fu bella la sorpresa di trovarsi con queste due voci così diverse e imprevedibili. C’era anche un terzo musicista, un cinese che avevo trovato per le musiche di corte: si chiamava Cong Su. È stato divertente il momento della premiazione per i Grammy, e poi per l’Oscar. C’erano Ryuchi e David, mentre dietro di loro arrivava il cinese, e loro guardavano come a dire: “Ma chi è questo qui?”. E infatti Su aveva fornito non più di tre o quattro minuti di musica, però aveva vinto l’Oscar pure lui e trotterellava dietro di loro.
BIANCHI: Per la tua esperienza quindi la differenza non è sostanziale.
BERTOLUCCI: Sai, c’è un momento in cui ti siedi davanti al film, che sia in moviola o in sala proiezione, e in un certo senso è il film a comandare. Io propongo al musicista di entrare con la musica da un punto a un altro, e quando si prendono i tempi, le misure, tutti i musicisti diventano dei professionisti della colonna sonora. Certo, a me piacere cogliere certi sine quasi inavvertibili, quindi mi piazzo vicino a questi poveri musicisti e faccio le mie richieste, do qualche indicazione. La conversazione non è sempre facile, perché se non si conoscono bene le note si finisce spesso per fare dei discorsi un po’ romantici, idealistici.
BIANCHI: Prima hai citato Gianni Amico. Ho sempre pensato a lui come a una sorta di John Cassavetes o di Johan van der Keuken italiano, cioè un regista con una precisa “vocazione musicale” anche nel modo di girare.
BERTOLUCCI: Gianni aveva due grandi amori: il jazz e il Brasile. E infatti ha girato film sia sull’uno sia sull’altro: Tropici, Appunti per un film sul jazz, Noi insistiamo, e poi ricordo un programma per la RAI sulla musica brasiliana, verso la fine degli anni Sessanta. E soprattutto ha realizzato quella specie di impresa sovrumana che è stata portare mezza Bahia a piazza Navona, durante un’edizione dell’Estate Romana: Gal Costa, João Gilberto, Caetano Veloso, Gilberto Gil, Dorival Caymmi… Su quell’operazione girarono anche un film, lui, Paul Cesar Saraceni e altri. Si chiamava Bahia de todos os sambas. Gianni Amico per me è stato fondamentale, perché è lui che mi ha fatto incontrare Gato Barbieri, e da quel momento sono passato dall’ascoltare il jazz a “frequentare” il jazz, cioè i vari Ornette Coleman, Mal Waldron, Cecil Taylor, che era anche amico di Gato. Tuttavia, quando Gato è diventato una grande star, e si è trasferito a New York, forse qualcosa nel suo rapporto con i musicisti è cambiato; non ho mai capito bene se lui e Michelle fossero completamente accettati nell’ambiente o se ci fosse un po’ di diffidenza.
BIANCHI: Be’, il mondo del jazz è un po’ anomalo, perché anche lì, come ovunque, si cerca il successo, ma ci si concede pure il lusso di diffidarne.
BERTOLUCCI: E soprattutto ho l’impressione che la diffidenza aumenti quando si rinchiude la musica in una formula: la gente comincia a guardarti in maniera un po’ strana. Gato fece questa serie di dischi “latini”, che erano molto simili. Certo, lo hanno aiutato a vivere meglio, ma forse qualcuno ha avuto l’impressione che si fosse un po’ impigrito. In realtà, credo fosse una fase necessaria, per ritrovare le sue radici, ricordarsi di Gardel nel pieno della Manhattan anni Settanta. Devo anche aggiungere che ora mi pare ritornato il grande sassofonista di una volta. L’ho ascoltato qualche anno fa al festival di Villa Celimontana, a Roma, ed è stata una serata magnifica, esaltante. Inoltre il gruppo era molto speciale, con questo giovane Stefano Bollani, che è un vero talento, Rosario Bonaccorso, il mio amico Aldo Romano, sempre fantastico, e poi Enrico Rava, che ormai è diventato una specie di guru, ma che continua a cercare, a esplorare, come faceva tanto tempo fa, come se il tempo non esistesse.
[in Questa nobile musica mi segue dall’infanzia, intervista a cura di Filippo Bianchi, in Musica Jazz, 2007, n. 4; poi in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti 2010]