Ritroviamo e pubblichiamo un testo di Anna Banti su Ultimo tango a Parigi pubblicato nel giugno del 1973 sulla rivista torinese L’Approdo letterario. A seguire è una gallery di foto realizzate sul set del film da Angelo Novi, parte del Fondo Angelo Novi conservato dalla Cineteca di Bologna.
LA SCHEDA
DEL FILM
Il segreto di fotografare il buio
di Anna Banti
Ci vuole un certo coraggio per parlare, dopo l’applauso motivato della più superciliosa critica internazionale, dell’ormai celebre Ultimo tango di Bernardo Bertolucci: il coraggio, voglio dire, di chi è tanto imparziale e libero quanto sinceramente interessato — e da sempre — al mezzo di espressione filmico. Come tale, conosco il curriculum del giovane “maestro” parmigiano, ma non mi permetterei mai di coinvolgere nel discorso che ogni riflessione critica comporta, indiscrezioni pettegole sull’origine, sul costume, sulle frequentazioni culturali della famiglia Bertolucci, a cominciare dalla personalità del padre Attilio, poeta di prim’ordine e letterato eccellente. Concedersi a operazioni di questo genere ha qualcosa di ripugnante, eppure è stato spesso praticato su quotidiani e settimanali.
Che Ultimo tango a Parigi sia un lavoro meditatissimo e da attribuirsi — se mancassero notizie sul regista — a un almeno quarantenne, va innanzi tutto riconosciuto. Ma, prima di entrare nell’argomento specifico, mi sia concessa un’osservazione generica e, per così dire, “esterna”, comune del resto a gran parte del pubblico: non è facile capire perché la censura — e gli aspiranti censori — si sia tanto accanita contro un testo assai meno perturbante di innumerevoli basse esibizioni che da tempo circolano allegramente sui nostri schermi. C’è un freddo distacco nella registrazione delle sequenze sessuali di Tango e forse ci si potrebbe discernere un’attenzione priva di curiosità, quasi una sprezzatura, giacché la coppia presentata nell’esercizio delle sue perseveranze erotiche pare richiamare il sorriso di Colette a proposito degli insetti nel bosco: “ils se conduisent très mal, mais c’est si petit…”. Tolto di mezzo l’inane pregiudizio moralistico, più arduo è affrontare il film nel suo doppio aspetto di significato e significante… Si dice così, non è vero?
Essi sono strettamente legati in una collaborazione perfetta: il clima in cui l’azione si svolge, estremamente letterario, qualche poco crepuscolare (si vedano, nella sceneggiatura einaudiana, i testi delle didascalie) conviene alla storia dell’uomo fallito, disperato per l’enigmatico suicidio della moglie abbondantemente adultera e responsabile di averlo costretto a vivere dei proventi di un albergo malfamato. È il suo dolente furore a trasformare il casuale incontro con una sconosciuta ragazza in un impeto di frenesia sessuale che è forse misogina: difatti Jeanne se ne accorge ed ha una battuta rivelatrice, “ma tu le odi, le donne?”. L’attrazione fisica funziona fra i due corpi che, senza nome, si uniscono sino a che, affacciandosi l’alba di un sentimento, la donna ne ha paura e vis si sottrae, uccidendo. Amore e morte? Non certo nel senso che lo slogan di ottocentesca retorica memoria proponeva.
Se il “significante”, l’innegabile estetismo formale, risalta chiaramente dalla prima all’ultima sequenza dell’opera, il “significato”, la ideologia, insomma, che sottende la squallida vicenda, rimane aperta a tutte le ipotesi. Ricerca sociologica tendente a distruggere il tabù borghese? E chi è il borghese, la ragazza che uccide o l’uomo che viene ucciso? Oppure semplice documento antropologico in cui si dibatte l’anteriorità, se non la preminenza, del sesso sull’amore, e viceversa? Quest’ultima supposizione giustificherebbe forse l’inserimento un po’ discordante del fidanzato Tom, col suo hobby cinematografico, assai comodo per risalire all’infanzia di Jeanne, al padre colonnello, alla madre conformista (“ovviamente”). Quanto al quarantacinquenne Paul, c’è poco da illudersi, l’amore gli è nemico, la su fisica disponibilità è l’alibi con cui se ne difende, non senza aver prima inondato di lacrime e amorosi insulti la salma della diletta Rosa truccata da angelo e circondata di violette. Il parlato — i dialoghi — è intenso, ristretto all’indispensabile, duro: solo un intellettuale può averlo concepito e dettato. Infine, quel che spiega il vasto successo popolare di un film non compiacente né compiaciuto, anzi in certo senso austero e crudele, è il suo carattere inquietante e l’intuizione (in genere preclusa ai non addetti ai lavori) di certe novità puramente tecniche dell’immagine. Nuovo è soprattutto l’uso delle luci e delle ombre negli intensi disabitati o abitati. Bertolucci ha scoperto il segreto di fotografare il buio di una stanza vuota, la inclemenza della luce diurna che traspare da una veneziana abbassata o aggredisce dallo spiraglio di una porta socchiusa, respingendo negli angoli tra soffitto e parete il nero inquinato della solitudine. Tempestivo al massimo, non pornografico, non divertente, persino, a momenti, noioso, Ultimo tango a Parigi resta nella memoria e negli occhi come una diagnosi, un check-up, un elettrocardiogramma. Chi se ne servirà e a quale scopo? Lo sapremo forse dal futuro assai prossimo del giovane regista. O mai.
[in Anna Banti, “Le grandi firme dell’annata: Bertolucci, Visconti, Kubrick”, L’Approdo letterario, XIX, 62 (n.s.), giugno 1973; poi in Anna Banti. Cinema. 1950-1977, a cura di Maria Carla Papini, Biblioteca di Proporzioni, Fondazioni di studi di storia dell’arte Roberto Longhi, Firenze 2008]