Nel giorno della sua scomparsa, ricordiamo e salutiamo Ennio Morricone con un testo di Bernardo Bertolucci in cui parla della loro lunga collaborazione e amicizia. Il testo è contenuto nel bel libro di conversazioni tra Morricone e Alessandro De Rosa (che ringraziamo) Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita e lo pubblichiamo per gentile concessione di Mondadori.
A precedere il testo è un video con il saluto di Ennio Morricone a Bertolucci registrato nel corso della serata Au Revoir BB, il 6 dicembre del 2018 al Teatro Argentina.
Esistono vari Ennio Morricone
di Bernardo Bertolucci
Andavo alla RCA, chissà dove sulla Tiburtina, dove Gino Paoli stava incidendo le musiche per Prima della rivoluzione ed è lì che Gino mi presentò “il suo arrangiatore”. Era un musicista giovane giovane con degli occhiali rotondi ad accompagnare l’espressione del suo viso, si chiamava Ennio Morricone. Paoli aveva scritto due canzoni per il film: Ricordati e Vivere ancora, e poi la melodia per il commento sonoro del film. Durante la registrazione mi resi conto di quanto il contributo di Morricone fosse fondamentale per la creazione di quel corpo sinfonico, tessuto connettivo tra le due canzoni. Ricordo che Vivere ancora fu immediatamente vittima della censura Rai, da non crederci: chiedevano di tagliare le parole “i tuoi capelli sparsi sul cuscino”, considerate troppo esplicite, oscene. Paoli decise di opporsi e la canzone diventò tabù per la Rai.
Dopo qualche tempo scoprii che l’arrangiatore, Ennio, era lui stesso un compositore e che faceva parte del famoso Gruppo di Improvvisazione Nuova Consonanza, la musica più radicalmente sperimentale che si poteva ascoltare allora in Italia.
Dopo La via del petrolio (’67) tornai al cinema di finzione nel ’68 con Partner, un film “sull’orlo di una crisi di nervi: il ’68 per me — così come per tanti — fu un momento particolarmente denso e carico di eventi.
Ennio intanto aveva creato le musiche per la Trilogia del dollaro di Leone e mi sembrava che la sua musica, così come la grande riscrittura del western di Sergio, fosse un esempio di straordinaria simulazione: il postmodern prima dell’invenzione del postmodern. In quel momento, poi, Sergio aveva chiesto a me e a Dario Argento di scrivere il treatment del grande capitolo finale: C’era una volta il West. Morricone compose quello che considero lo score definitivo di questa meravigliosa simulazione che è il cinema di Sergio: oggi un classico. Qualcuno mi accusò addirittura di aver tradito il “cinema d’autore”. Io risposi che Leone era uno dei migliori registi italiani degli anni Sessanta. La prima volta che mi convocò ci andai con grande ammirazione nei suoi confronti.
Nel ’66 Ennio aveva cominciato, con Uccellacci e uccellini, anche la collaborazione con Pasolini. Ricordo l’affetto e la grandissima ammirazione con cui Ennio mi parlava di lui. Probabilmente apprezzava in Pier Paolo quella trasgressività che lui non si era mai permesso. Il brano per i titoli di testa di Uccellacci e uccellini, cantato da Modugno, è ancora oggi una perla musicale e ironica. Quando mi torna in mente mi metto subito a intonarlo.
Le musiche del western mi avevano impressionato al punto che, quando girai Partner nel ’68, volli Ennio nuovamente al mio fianco. Gli chiesi un brano romantico, gonfio di archi, per un’inquadratura da musical hollywoodiano in cui Stefania Sandrelli scende dalle scale nella notte.
Durante queste lavorazioni ebbi modo di mettere a fuoco alcune delle più incredibili qualità di Morricone: un istinto deciso e pieno di intuizioni, ma anche un talento camaleontico e una straordinaria adattabilità a contesti, richieste ed esigenze diverse, come diversi erano i registi con cui lavorava. Saprebbe ricordare la scrittura di qualsiasi altro musicista in maniera molto accurata e veloce, sul campo di battaglia della sala di registrazione. Il suo talento gli consente di giocare con qualsiasi linguaggio musicale ricostruendolo dall’interno.
Dal ’70 al ’74 il mio cinema si sciolse e virò dal monologo al dialogo, o almeno verso la ricerca del dialogo con il pubblico. Per Il conformista (’70) lavorai con il francese Georges Delerue, il musicista di Truffaut e Godard e tanta Nouvelle Vague. Per Ultimo tango a Parigi (’72) mi rivolsi invece a Gato Barbieri — in fondo la parola “tango” nel titolo era dedicata a lui —, un grande amico argentino, un sax tenore bianco dal sound nero. Quando poi cominciai a immaginare Novecento sapevo che non c’erano alternative, soltanto Ennio Morricone avrebbe potuto scrivere uno score con un’epicità così italiana e così attenta alla musica popolare e politica dell’inizio del Novecento.
Intanto quell’esperienza si era trasformata in un’avventura molto impegnativa e intensa. Ricordo che Ennio e io ci incontrammo spesso durante tutto l’arco della lavorazione. Mi faceva ascoltare dei temi e io me li elaboravo dentro girando il film. Alle mie richieste, anche quelle più particolari, ricordo la rapidità con cui riscriveva o correggeva una sequenza musicale: andava al piano e me la proponeva diversa nel giro di pochissimi minuti. Anche questo è un dono che non tutti hanno.
Le registrazioni della musica di Novecento alla vecchia Fono Roma di piazza del Popolo durarono più di un mese. C’era quasi sempre l’intera orchestra, tanti strumenti ad arco, tanti ottoni, probabilmente un costo notevole per la produzione del film. Io non mi rendevo conto di nient’altro al di fuori della musica che Ennio incideva, e i produttori ci lasciarono fare. Altri tempi.
Dopo il grande risultato di Novecento, richiamai Ennio per il mio nuovo film, La luna. Poco prima che lui incominciasse a comporre, mi resi conto che per quel film era giusta soltanto la musica operistica che ruotava attorno al personaggio della madre-soprano interpretata da Jill Clayburgh. Così, in La luna, di Ennio rimane un brevissimo brano per piano che accompagna i titoli di testa del film.
So di chiedere tantissimo ai musicisti che lavorano con me. Sto molto vicino a loro, forse a volte anche troppo. L’estrema adattabilità di Ennio è stato qualcosa di irrinunciabile. Ritengo che certe mie intuizioni musicali non possano essere imposte, dunque spiegate a parole: deve esserci un’emozione comune, un allineamento fra i miei bisogni e quelli del film. Per questo mi rivolsi ancora a Morricone per La tragedia di un uomo ridicolo, l’ultimo film che abbiamo fatto insieme. Per la prima volta gli chiesi di scrivere un tema che avrei riascoltato tanto e che mi avrebbe in qualche modo guidato attraverso le riprese. Ennio inventò la presenza di una fisarmonica che conferiva alla melodia una malinconia affettuosa.
Esiste il ricordo di come si incomincia a lavorare insieme, ma non quello in cui si smette. Non esiste il ricordo di cosa smetti.
L’ultimo imperatore era un progetto lontano da tutto, come lo era la Cina di quegli anni. Per me fu la scoperta di una cultura antichissima e affascinante. Mi innamorai perdutamente di quel Paese. Mi ero allontanato da un’Italia che mi sembrava arresa alla corruzione, un’Italia da cui volevo prendere distanza. Mi posi l’obiettivo di realizzare un altro film “internazionale”, come lo era stato Novecento. Alla fine mi ritrovai con tre musicisti di tre nazionalità differenti: il giapponese Ryuichi Sakamoto per la cultura orientale, lo scozzese naturalizzato americano David Byrne per la musica occidentale, e il giovane compositore cinese Cong Su per le musiche di corte. Poi accadde il contrario di quello che mi aspettavo: Sakamoto scrisse la parte più sinfonica (e occidentale) e David Byrne mi diede una musica minimalista non lontana da quella di alcuni film in costume di Kurosawa.
Dopo tutte le pellicole che ha musicato in tanti anni, penso che esistano vari Ennio Morricone. Dico così perché quando fa Indagine su un cittadino al di sopra di ogni sospetto è vicino a Petri e a una certa visione, poi lavora a C’era una volta il West e l’approccio è completamente diverso. Mi sembra che in segreto Morricone vada sempre alla ricerca di qualcosa che è nel profondo della sua identità musicale, ma ogni volta in maniera radicalmente differente. Ha la capacità di avvolgere con la sua musica le idee dei registi con cui lavora, ma, malgrado la sua risorsa camaleontica, è difficile immaginare Ennio che impone al cineasta di turno il proprio pezzo, la propria idea. Poi, come Ennio diceva spesso a quei tempi. “Guarda che la musica è fatta solo di sette note…”. Vedo in lui un musicista che trova sempre il modo di proporre la propria visione al regista con cui collabora.
Credo che meglio di tutti Morricone abbia capito la caratteristica fondamentale della musica per film, una musica che dev’essere permanente e impermanente al tempo stesso. Da un lato, senza la giusta musica, una sequenza o addirittura un film non funzionerebbe, ma dall’altro, senza il film giusto anche le musiche forse finirebbero per essere dimenticate. Eppure Ennio ci mostra di continuo che la sua musica può riempire da sola le sale da concerto di tutto il mondo.
Roma, 27 maggio 2014
[in Ennio Morricone, Inseguendo quel suono. La mia musica, la mia vita. Conversazioni con Alessandro De Rosa, © Mondadori 2016]