A un anno dalla scomparsa di Clare, la ricordiamo con una lettera che sua nonna le ha scritto nel ’46 e con un’intervista uscita sul Venerdì di Repubblica nel novembre del 2019. L’intervista è di Simonetta Fiori che ringraziamo.
BERTOLUCCI MEMORIES, VIAGGIO NEI CASSETTI DI UN MAESTRO
di Simonetta Fiori
Fisico sottile, nessuna disposizione al compiacimento, mostra con qualche ritrosia la casa-studio condivisa con Bernardo a Trastevere. La chaise longue in soggiorno, davanti alla parete bianca d’un grande schermo, disegna immediatamente il vuoto lasciato dal suo compagno. Ma è nello studio, in fondo al corridoio, che se ne percepisce l’assenza-presenza, tra i fascicoli di Ultimo tango e del Piccolo Buddha, una catasta di occhiali vecchi dimenticati sulla scrivania, e le fotografie in bianco e nero sul set di Prima della rivoluzione, lui poco più che ventenne con la faccia da bambino buono. Un sorridente Attilio Bertolucci sembra sorvegliare il sacchetto che si fa largo tra i libri: dentro c’è l’urna con le ceneri di Bernardo, destinate al cimitero di famiglia. Forse anche per questo che Clare preferisce che la stanza dai cassetti rossi rimanga segreta, fuori dall’obiettivo del fotografo.
A un anno dalla scomparsa di un maestro del cinema, uno dei più grandi del secondo Novecento, per la prima volta Clare Peploe rende pubblico l’archivio con materiali inediti appena ordinati da Tiziana Lo Porto: le sceneggiature scritte con Ian McEwan o tratte da Dashiell Hammett (la trasposizione di Piombo e sangue), le lettere di cineasti di tutto il mondo, da Agnès Varda a Wim Wenders, le note autografe su Renoir da cui aveva ereditato la definizione dell’attore (“les acteurs sont des ponts, des constructeurs de ponts“), le missive scritte e mai spedite come quella a Giulietta Masina dopo la morte di Federico Fellini. Molti documenti saranno messi online nel nuovo sito web bernardobertolucci.org e poi troveranno una sistemazione a Palazzo Pigorini, a Parma, dove il Comune insieme alla Cineteca di Bologna sta allestendo per l’anno prossimo una sorta di Casa Bertolucci, con le carte del padre Attilio e del fratello Giuseppe.
“È anche questo un modo per tenere in vita il suo cinema” dice Clare, che ancora prima di conoscere il futuro marito era un’appassionata cinéphile, amante di Godard e di Max Ophuls. “I suoi lavori continuano a sedurre ed emozionare, senza mai rinunciare a uno sguardo civile”. Nata in Tanzania da genitori inglesi, cresciuta a Londra, studi universitari alla Sorbonne, Clare ha mantenuto un accento British ancora intatto, nonostante il tempo trascorso in Italia al fianco di Bertolucci anche come sceneggiatrice e regista.
Clare e Bernardo si erano conosciuti al principio dei Settanta a una proiezione di Strategia del ragno, il film tratto da un racconto di Borges. Entrambi erano a un passo dal trentesimo compleanno. “Mio fratello Mark, scrittore di cinema, mi aveva parlato di un giovane autore italiano capace di fare qualcosa di nuovo. Rimasi letteralmente stregata dai suoi film”. E a breve anche dall’uomo.
La prima esperienza di lavoro Clare l’aveva fatta con Antonioni sul set di Zabriskie Point. Quando incontra Bertolucci non mancano argomenti di conversazione. La scintilla comincia accendersi davanti al mare di Ponza, dove lei è abituata ad andare fin da bambina. Ma la storia sentimentale inizia subito dopo Ultimo tango a Parigi, il film che lo consacra a fama e dannazione. Che cosa la fece innamorare di Bernardo? “La sua innocenza. Era un impasto di pulsioni contrastanti che sfociava in uno sguardo poetico, capace di entrare in contatto profondo con la realtà. Anche se proveniva da una famiglia colta, figlio d’uno dei più grandi letterati del Novecento, cresciuto con Pasolini e Moravia, Bernardo non era un intellettuale. Saltava tutte le mediazioni possibili per dare forma istintiva al suo sogno. Questa era la sua cifra creativa, il suo modo di fare cinema che aveva qualcosa di immediato e fanciullesco”.
Era nato poeta, Bertolucci, prima ancora di esordire dietro la macchina da presa. E quella respirata a casa non era mai l’Arte con le lettere maiuscole, ma la poesia del quotidiano: la rosa bianca in fondo al giardino che al padre Attilio aveva ispirato il componimento per la madre. “Lo sguardo poetico lo esercitava anche nella vita” continua Clare. “Poteva accendersi di felicità davanti a una luce, a un quadro, a un paesaggio inatteso. E io facevo in modo di stimolarlo, mostrandogli luoghi o opere d’arte che potessero affascinarlo”. La prima cosa che Clare gli fece scoprire furono i viaggi. In Nepal. In Mali. In quell’Oriente che lei aveva frequentato da ragazza, mentre lui era sempre stato più sedentario, legato al microcosmo della Bassa e della sua Parma. “Andavamo alla ricerca di quella civiltà rurale che l’Italia della modernizzazione stava perdendo o aveva già perduto. E là Bernardo maturava la sua ricerca dell’innocenza contadina che poi avrebbe trasferito in Novecento”.
Sul set di Novecento, nel ruolo di aiuto-regista, Clare cominciò a osservare il suo modo magnetico di girare una scena. “Era un vulcano in eruzione, capace di trascinarsi dietro tutti: avevamo la sensazione di partecipare a una invenzione continua”. La sceneggiatura, una volta scritta, non serviva più. “Aveva bisogno di un testo, del quale si fidava. Ma poi lo metteva da parte. E cercava la sua storia, che poteva nascere da un’espressione dell’attore, da un oggetto, da un moto inatteso. Bernardo sul set voleva essere sorpreso dagli stessi interpreti: niente era stabilito a priori”. Una tecnica che richiedeva una grande sicurezza nei propri mezzi. Clare sorride: “Sì, era totalmente padrone delle distanze e dei movimenti della macchina da presa. Non ho mai capito come riuscisse a essere così preciso. Ma era molto sicuro anche nella vita. Credo che questa serena certezza dipendesse dalla straordinaria storia d’amore che lo legava ai genitori. Era un figlio molto amato, Bernardo. L’avevano fatto sentire il più bravo. Tanto che, quando riceveva delle critiche, quasi trasecolava. Il film Novecento deve essere letto in questa cornice sentimentale: fu il suo omaggio al mondo poetico del padre”.
Gli attori, anche i più grandi, si innamoravano di lui. Burt Lancaster e Sterling Hayden avevano chiesto una cifra simbolica pur di girare con il giovane autore che si era guadagnato la fama con Ultimo tango. Marlon Brando gli riconobbe la sapienza di uno psicoanalista, capace di ricavare da un attore il meglio di sé stesso. “Con Marlon l’intesa era stata ottima”, racconta Clare. L’attore lo seguiva ovunque, anche alla grande mostra parigina di Francis Bacon, per assorbirne la drammaticità delle immagini. A distanza di vent’anni, Brando si sarebbe smarcato, provocandolo: tu credi che quello lì del film sono veramente io? Ti sbagli Bernardo… “Ma forse interveniva la vanità ferita dell’attore, che sentiva di dover difendere la propria creatività rispetto alla forza ipnotica del regista”.
Il film avrebbe avuto uno strascico pesante dopo la denuncia di Maria Schneider sulle violenze subite sul set. “Bernardo non ha mai dato peso a quelle accuse che gli sembravano assurde. Non si rendeva conto degli attacchi contro di lui, specie fuori dall’Italia. Anche io cercavo di metterlo in guardia, ma più di me riuscì a scuoterlo un’associazione inglese di cinema e psicoanalisi che gli chiese le dimissioni. A quel punto scrisse una lunga lettera in cui spiegava che Maria aveva letto la sceneggiatura ed era al corrente di ogni singola scena: l’unico suo rammarico era non averla informata dell’uso del burro, e in questo sentiva di aver mancato”. Alla lettera era allegata l’intervista rilasciata da Schneider al New York Times in occasione dell’uscita americana del film. “L’attrice si diceva felice dell’esperienza con il regista e con Brando, aggiungendo dettagli sapidi sulla sua vita sessuale fuori dal set. L’associazione inglese chiese scusa e lì si chiuse la faccenda. La verità è che Maria era una ragazza molto fragile, con problemi enormi. Avrebbe richiesto un sentimento paterno da parte del regista. Ma Bernardo non era capace di essere padre. Era un artista bambino che inseguiva la sua immaginazione”.
La capacità di entrare dentro l’anima degli interpreti gli veniva dalla lunga frequentazione della psicoanalisi. “Quando lo conobbi aveva due grandi fissazioni: Marx e Freud. Non c’era gesto a cui non desse un’interpretazione freudiana. Adorava il suo psicoanalista ma poi smise di andarci: forse perché avvertiva che cominciava a ripetersi”. Ma c’è un lato privato che è rimasto più nascosto? “Bernardo era un uomo profondamente buono. Vanitoso sì, anche esibizionista, ma generoso. E fedele: alle amicizie, alle persone intorno a lui, ai legami costruiti in una vita. Cercava la verità nelle relazioni umane così come la cercava nel suo cinema”.
Con Bertolucci Clare ha condiviso tutto, anche la tenacia con cui cercava i finanziamenti per L’ultimo imperatore, il lavoro che gli avrebbe consegnato l’Oscar. “Non perdeva mai il suo ottimismo, anche quando altri spaventati rinunciavano al progetto”. Ma il film che più di tutti racconta il loro amore è L’assedio, girato a Roma nel 1998 in un appartamento vicino a piazza di Spagna. “Lo proposi a Bernardo perché non richiedeva un grande impegno fisico. È quello che sento più vicino perché fu ispirato da una frase che gli ripetevo spesso nella nostra vita di coppia. L’avevo sentita in un film di Bresson: ‘Non esiste l’amore, esistono soltanto le prove d’amore'”. Nel film la più grande prova d’amore è quella di un eccentrico pianista inglese verso una ragazza africana che adora senza essere ricambiato: è disposto a tutto, anche a vendere il pianoforte, pur di aiutare la giovane donna a far scarcerare il marito detenuto. E lei, Clare, ha ricevuto prove d’amore? “Sì, tantissime. Bernardo mi ha regalato gioia e divertimento. E insieme abbiamo riso tanto, come pazzi”.