Lucy – Posso vedere?
Ian – No! Voglio dire, non lascio mai guardare nessuno finché non è finito.
Lucy – Almeno mi assomiglia?
Ian – Non ti deve assomigliare
Lucy – No?
Ian – Certo che no. Nessuno ti ha mai detto che il vero artista raffigura sempre e soltanto se stesso?
Poco dopo il suicidio della madre, Lucy, 19 anni, arriva da New York per passare l’estate in Toscana, presso i Grayson, una coppia di vecchi amici dei suoi, il cui casale in mezzo alle vigne è rimasto il ritrovo dello stesso gruppetto cechoviano di boomers, artisti, scrittori e intellettuali più o meno disillusi che sembrano essersi abbandonati ormai al semplice spettacolo di uno dei paesaggi più incantevoli del mondo. Intanto, al di là dei confini di questo minuscolo paradiso terrestre chiuso su se stesso, l’umanità prosegue la sua corsa verso il precipizio. Tale comunità autarchica forma quasi una grande famiglia, con i suoi segreti piccoli o grandi e gli inevitabili pettegolezzi. Mentre Ian, che fa lo scultore, lavora al ritratto di Lucy, lei cerca di scoprire chi, tra i vari ospiti di casa Grayson, potrebbe essere il suo vero genitore (al quale accennano, senza nominarlo, alcuni versi della madre, scritti proprio in questo luogo, una ventina di anni prima).
Il suo primo confidente sarà Alex, un autore inglese ormai in fase terminale di cancro o di AIDS (non lo sapremo mai), cui Lucy si arrischia a confessare anche la propria verginità; però non le ci vorrà molto a capire, l’indomani mattina a colazione, che il suo segreto non è più un segreto… È a quel punto che entra in scena Niccolò, il ragazzo del suo primo bacio, conosciuto durante un precedente soggiorno nel Chianti quattro anni prima. Ma quest’ultimo si rivela essere un assai cinico seduttore, che ricorda a malapena il nome di tutte le sue conquiste. Lucy ne rifiuterà le avances, e incontrerà comunque la persona giusta che la aiuterà a uscire dall’adolescenza. Ritroverà pure il padre biologico – appena meno smemorato di Niccolò – e questo resterà il “loro” segreto.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci e Susan Minot, da un soggetto di Bernardo Bertolucci
(Technicolor, 35mm, 2.35:1) Darius Khondji; operatori Enrico Umetelli, Nicola Pecorini e Marc Koninckx (steadicam), e Bernardo Bertolucci (handycam nella sequenza iniziale)
Gianni Silvestri, con Domenico Sica; arredamento Cinzia Sleiter; tessuti e giardini Metka Košak
Louise Stjernsward, con Giorgio Armani
Pietro Scalia, con Beni Atria (AVID)
Richard Hartley; brani dal Concerto per clarinetto e orchestra in La maggiore K. 622, Quartetto n. 20 in Re maggiore K. 499, Trio per piano in Do maggiore K. 548, Concerto per corno n. 1 in Re maggiore K. 412 di W.A. Mozart; canzoni Rocket Boy di Liz Phair, Glory Box dei Portishead, 2 Wicky degli Hooverphonic, Walk on By eseguita da Isaac Hayes, You Won’t Fall di Lori Carson, Alice dei Cocteau Twins, O cammello ’nnammurato di Pino Daniele, My Baby Just Cares for Me eseguita da Nina Simone, Satisfaction di Stevie Wonder, If 6 Was 9 eseguita dagli Axiom Funk, I’ll Be Seeing You eseguita da Billie Holiday, Annie Mae e Chill Out (Things Gonna Change) di John Lee Hooker, I Need Love di Sam Phillips, Rhymes of an Hour dei Mazzy Star, Say It Ain’t So di Roland Gift, Rockstar delle Hole, My Love and I di Charlie Haden, Tenderly eseguita da Chet Baker, Comet #9 degli Helium, (This Is) the Life di Mark Tschanz, Variazioni su un tema messicano eseguita dalla Società filarmonica di Gaiole in Chianti, In questa splendida città di Paolo Passano
(Dolby surround) Ivan Sharrock con David Motta, Don Banks
Serena Canevari, con Pasquale Plastino, Silvia Ranfagni, e Saskia Spender, Andre Ristum, Daniele Nerenzi
Suzanne Durrenberger, F. Gerard
Angelo Novi, Alessia Bulgari, Peter Mountain
Matthew Spender
Bernardo Siciliano
Liv Tyler (Lucy), Jeremy Irons (Alex Parrish), Sinéad Cusak (Diana Grayson), Donal McCann (Ian Grayson), Carlo Cecchi (Carlo Lisca), Stefania Sandrelli (Noemi), Jean Marais (Monsieur Guillaume), Rachel Weisz (Miranda), D.W. Moffett (Richard), Joseph Fiennes (Christopher), Roberto Zibetti (Niccolò Donati), Ignazio Oliva (Osvaldo Donati), Francesco Siciliano (Michele Lisca), Anna Maria Gherardi (Chiaretta Donati), Alessandra Vanzi (Marta), Leonardo Treviglio (tenente), Jason Flemyng (Gregory), Rebecca Valpy (Daisy Grayson), Mary Jo Sorgani (Maria), i danzatori dell’associazione Sosta Palmizi, Lola Peploe [n.a.] (ragazza di Niccolò), Mario Cotone [n.a.] (medico), Maria Francesca Etzi, Valentina Ricciardelli, Ruby Beker e Cosima Spender [n.a.] (ragazze al party), Matthew Spender [n.a.] (trombettista nella banda), Susan Minot [n.a.] (dettagli della mano di Lucy mentre scrive)
Jeremy Thomas per la RPC [Recorded Picture Company] / UGC Images / Fiction Film S.p.A; produttore esecutivo Yves Attal; produttore associato Chris Auty; direttore di produzione Attilio Viti; organizzazzione generale Mario Cotone
Vittorio Cecchi Gori
118′
Campagna del Chianti senese, San Regolo e Brolio (Gaiole in Chianti), Villa Bianchi-Bandinelli (Geggiano); giugno-agosto 1995
29 marzo 1996
Ricevuto come un film “di transizione”, Io ballo da sola apre in realtà una fase nuova della produzione bertolucciana. L’autore, dopo un decennio di viaggi cinematografici in paesi lontani, torna a casa “in punta di piedi”; invece della solita Bassa padana si ferma inaspettatamente in Val d’Orcia, mentre ad assistere a distanza ai mutamenti avvenuti in Italia all’indomani dell’operazione Mani Pulite sono diversi stranieri trasferitisi da tempo nel cosiddetto “Chiantishire”.
Perfino il lungo sodalizio con Vittorio Storaro sembra ormai essersi concluso attraverso l’apoteosi visiva della nota trilogia. Così, il regista di Piccolo Buddha, “reincarnatosi” in qualche modo in una ragazza USA parente dell’adolescente della Luna (e anche lei alla ricerca del vero genitore nella Vecchia Europa), guarda al tramonto delle utopie e al sorgere di nuove malattie che segnano pure il passaggio di secolo, con inedita serenità e una levità decisamente mozartiana. A prescindere dei vari brani musicali presi dal Maestro di Salisburgo, va notata una delle colonne sonore tra le più azzeccate e rappresentative del decennio. [F.G.]
A riassumere la sostanza della storia sviluppata in Io ballo da sola dicendo “è un film su una giovane e bellissima vergine” – cosa di per sé corretta –, se ne ridurrebbe in modo considerevole la sottigliezza. Il rischio non sarebbe semplicemente di togliere la sua verginità al soggetto – per così dire – ma di schematizzarlo in una dimensione “nero su bianco” troppo volgare rispetto a ciò che qui è messo in gioco in realtà; rattristerebbe anche non poco B.B., il quale giustamente si dà da fare per trascendere questo dato terra terra. In che modo? Attraverso la mise en scène della sequenza alla quale mi è stato dato di assistere oggi. Diciamo una mise en scène estremamente soggettiva, dove la macchina da presa danza e accarezza Liv Tyler le soffia sul collo in continuazione, con l’attenzione di un angelo custode e nello stesso tempo con un pizzico di quell’inevitabile desiderio senza il quale B.B. non sarebbe Bertolucci. Una macchina da presa, se non voyeuristicamente indiscreta, almeno molto intima, presente in maniera quasi umana. Donde l’uso frequentissimo della steadicam, manovrata da un colosso ciclopico straordinariamente grazioso. Questo è il primo paradosso formalista di un’opera a priori più cerebrale che pirotecnica: mai forse un film d’autore avrà sollecitato così assiduamente le tecnologie più avanzate per dei fini così poco spettacolari.
La presenza di Lucy, leggera e forte, vitale, tocca tutti gli abitanti della villa; e se alla fine del soggiorno lei avrà trovato i due uomini cruciali dell’esistenza femminile (il padre, il primo amante), avrà perduto la verginità, avrà cominciato a diventare donna, anche i padroni di casa avranno deciso di cambiare vita. I legami tra genitori e figli, la ricerca del padre sono temi cari a Bertolucci, e sul significato del film si può avanzare ogni ipotesi: insofferenza per l’invasione della bellezza naturale o artefatta; fine di un’epoca di culti estetici o artistici esautorati; maggiore serietà di alcuni giovani rispetto agli adulti nell’intreccio delle generazioni; necessità di rinunciare alla rappresentazione di sé per tornare all’autenticità di se stessi; accettazione del mondo con un sentimento di malinconia senza pathos. Ma in Io ballo da sola (il titolo allude anche a una sequenza in cui Liv Tyler s’abbandona a una solitaria danza di felicità), più che l’aneddoto lambiccato colpiscono altre cose. È ammirevole l’uso eloquente degli spazi nella villa, con la presenza incombente, invadente delle grandi sculture rosse di Matthew Spender che oppongono la loro mole e il loro stile di arte primitiva d’Africa o d’Oceania alla sofisticazione estenuata dei personaggi. È molto interessante l’uso del colore nella fotografia di Darius Khondji: toni dolci per il meraviglioso paesaggio toscano, e per i personaggi colori puri, di violenza espressiva antinaturalistica. Soprattutto colpisce l’assenza di dramma, anche negli episodi e negli scontri più aspri, tutto avviene con grande serenità, senza cinismi e senza gravi conseguenze, nel fluire pacato d’una naturalezza esistenziale.
Rielaborazione del passato, ricerca del padre, interpretazione del mondo alla luce delle “tracce” che portiamo dentro la coscienza: questo è Io ballo da sola, nuovo film di Bernardo Bertolucci, quindi non credete troppo alle chiacchiere. Il ritorno del “figliol prodigo” in patria è un dato esterno, almeno per chi è convinto – come il sottoscritto – che Bertolucci ha sempre raccontato le iniziazioni erotiche e politiche di adolescenti smarriti nelle campagne intorno a Parma, anche quando l’apparenza diceva che i film si svolgevano a Parigi, a Pechino, nel Sahara, a Sabaudia, a Seattle… Del resto è il regista stesso a dirlo: il suo è un cinema dialettico, che analizza contrasti e schizofrenie, e che si riassume tutto nella coppia di gemelli amici/nemici Alfredo e Olmo, il padrone e il contadino di Novecento. Ebbene, l’americana diciannovenne Lucy, borghese ricca come Alfredo, ma “bastarda” come Olmo, è il nuovo bozzolo – anche se è bella come una farfalla – nel quale il cinema di Bertolucci si è rinchiuso per una pausa di riflessione, in attesa di rinascere (l’annunciato film sul ’68 e il terzo capitolo di Novecento).
Nel giardino degli ulivi (la citazione cechoviana non è casuale ma si vorrebbe parlare anche di Jean Renoir se il discorso non si facesse troppo lungo) con corone di vigneti, tutt’attorno ad una antica, affascinante e un po’ misteriosa villa sull’olimpo del senese, abitata da personaggi strani, bislacchi, viziosi (ma per i quali si può, si deve provare comprensione e tenerezza), in questo luogo fuori dal mondo perché circondato da un palpabile per quanto invisibile fortificazione dove i sentimenti tendono a inaridirsi, a nutrirsi solo di se stessi, l’arrivo di Lucy, diciannovenne e luminosa americana venuta ufficialmente in vacanza, crea il desiderio e le premesse di nuove armonie. Qui, dove la volgarità per precisa scelta culturale rimane sempre sullo sfondo o viene rifiutata decisamente (il ripetitore televisivo, le nigeriane sull’autostrada, il cellulare che Richard – l’unico a essere poi “espulso” dalla comunità – tiene sempre acceso), la bellezza pulita della ragazza – così come la severa provocatorietà dell’Angelo pasoliniano in Teorema – stimola prese di coscienza, entusiasmi vitali che parevano irrimediabilmente sopiti.
Il terreno sembra portare verso terreni scabrosi ma così non è: non c’è spazio qui per il sesso come atto di possesso, di violenza prevaricatrice come nell’appartamento parigino di Ultimo tango – ci aveva provato Ian diciannove anni prima – altri tempi, altre prove da dare a se stessi – ci riprova il solito Richard ma la disinibita Miranda lo rimette sul treno, rimandandolo dalla moglie – essendo le energie delegate ora a creare la delicatezza, la dolcezza del sentimento amore come scelta individuale e di coppia, lasciando un rammarico come una ferita profonda in chi, tra i non giovani abitanti della villa, non ha mai saputo – non si è mai voluto – impegnare in tal senso. E Bertolucci, con tocco magistrale, ci presenta la ragazza in piscina con un castigatissimo, quasi monacale, costume intero nero (che distanza abissale dalla meno bella e più debole Miranda, completamente nuda a prendere il sole!) e si volta per non vedere quando Richard si spoglia nudo per fare una nuotata. Sfumature, dettagli, attimi che tornano, poi, nella mente dello spettatore che ricostruisce il mosaico.
Di Lucy “dolce sguardo”, cerbiatta che, forte delle sue emozioni – affidate spesso a pensieri improvvisi scritti su bigliettini subito bruciati o nascosti in libri che forse nessuno aprirà mai, come mandala che svaniscono dopo la consapevolezza della creazione – e delle sue lunghe gambe da adolescente, s’inoltra senza paura nella foresta della vita (riuscendo a cogliere l’attimo in cui la decisione non può essere più rinviata e così respinge Niccolò – di cui credeva di essersi innamorata quattro anni prima, colpito solo dalla bellezza superficiale del ragazzo – per non ripetere l’errore commesso da sua madre), tessera dopo tessera si finisce col sapere tutto. Degli altri invece solo alcuni dettagli, essenziali, della loro vita privata in quanto esistono di per sé, stanchi semidei che stanno perdendo il piacere dell’osservazione. Lucy è la vita e il futuro, ravviva il loro interesse e pare suggerire che fino a quel momento, fino alla morte di Alex, hanno preservato qualcosa di troppo effimero. Completata la sua “strategia del ragno”, Lucy cresce come donna e rinasce in un’opera d’arte quando il suo vero padre la concepisce volontariamente e con affetto.
Un aneddoto dice tutto: uscendo da una proiezione di Io ballo da sola, Attilio Bertolucci, il padre di Bernardo – questo padre poeta, che conta tanto per lui – ha detto che gli sembrava di aver visto il suo “primo film”. Cioè uno di quei film nel quale si individua un autore tutto nuovo, diverso del passato. A meno che si tratti di una seconda nascita – di una reincarnazione? Tutto qui è suggerito, l’esilio, le scelte rivendicate, i colpi di fulmine, i capogiri, e poi le amarezze insidiose, le atmosfere alla Forster, alla Wharton, alla Henry James, l’usura del tempo, e infine il ripiegarsi su di sé, l’abbandonarsi, il dormire, la morte che aleggia.
I paesaggi sono ovviamente splendidi. Gli attori di prim’ordine. Allora da dove deriva il fatto che il film lasci insoddisfatti? Dal suo carattere eccessivo, forse. Eccesso di significati suggeriti con insistenza, eccesso di immagini travagliate quando sembra che bastasse lasciar fare al sole toscano, eccesso di virtuosismo nell’intrecciare le perversità degli uni (di cui il regista, lo sappiamo, è grande pittore) con gli slanci e gli sconforti degli altri. Si pensa più volte a Buñuel in quegli arabeschi dei fascini discreti di un’intelligencija sull’orlo della fine, mentre sull’orlo dello schermo palpita la presenza di un mondo violento, sempre in ebollizione. Sottile quando il breve passaggio di un jet è sufficiente a ricordare che una guerra è in corso lì vicino, dall’altra parte dell’Adriatico, il film si fa spesso troppo insistente riguardo alla caratterizzazione dei personaggi. Inatteso da parte del cineasta, il finale opterà per un ottimismo più simpatico del cinismo cui questa parabola poteva dar luogo, ma che suona qui un po’ artificiale. Quasi che Bertolucci non fosse più capace di guardare con semplicità, e lasciare che accada ciò che deve succedere nel cuore della storia di cui egli ha fissato le premesse.
Di che cosa ci parla Io ballo da sola? Esattamente come nei fastidiosi kolossal esotici degli ultimi anni, di un individuo alla ricerca della sua identità e della sua maturità. Questo individuo non si oppone più a un impero in decadimento, né si tuffa in una religione planetaria. Si imbatte in una comunità leggermente anacronistica e fortemente circoscritta: un gruppo anglo-americano che ha trovato la sua sistemazione nel Chianti. Il gruppo è a dominante maschile e intellettuale; l’individuo è una fanciulla stricto sensu: una vergine. Se le donne sono più attive, la stanchezza non le risparmia lo stesso, e l’insieme del gruppo pratica dei riti assai sbiaditi (tra cui lo spinello). L’arrivo di Lucy provoca fra i maschi una specie di complotto galante che rimarrà velleitario (buffonesco riferimento a Mozart): bisogna trovare un fidanzato a Lucy. Ma quest’ultima è più interessata a individuare tra di essi il suo anonimo genitore, mentre ha occhi solo per l’irresistibile Niccolò, uno dei ragazzi della vicina villa Donati, ornata di rustici affreschi seicenteschi.
Il doppio impegno si scioglierà in modo così prevedibile che la morale della storia va trovata altrove: infatti sta nella confidenza che Alex, lo scrittore moribondo, fa a Lucy. L’artista, sia come sia, “ruba” un po’ di bellezza a un cosmo minacciato dal caos, tutto qua. Tale bellezza può stare nell’opera, nel gesto, perfino nello “stile di vita”, giudicato senza tenerezza ma anche senza cattiveria (l’unica cattiveria di Bertolucci riguarda un tenente che lascia intendere di lavorare per i servizi segreti). L’indubbia leggerezza dell’essere non è insostenibile, l’incertezza del sesso si risolve in quel chiaro oggetto del desiderio che si chiama vita, sia pure nell’incertezza dell’avvenire. Il fascino del film viene dalla sua modestia e dall’ironia che vi si riallaccia. Poco importa finalmente che Lucy sia tornata o no sui luoghi del suo concepimento e della sua rêverie a causa di una lettera (il cui segreto si nasconde in realtà nelle pagine di Cyrano de Bergerac). Al prologo risponde l’epilogo: il fuoco di paglia giovanile è svanito in nuvole nell’aurora. I passi di Lucy si perdono in mezzo ai campi per scoprire poi Siena vista dal cielo. L’allontanamento e la prossimità si annullano per l’iniziata diventata anche iniziatrice, al termine di un percorso dove il divenire di un’innocenza tutta relativa – per dirla con Nietzsche – si è rivelato a poco a poco come un’innocenza del divenire.
In Io ballo da sola è questione innanzitutto di identità, culturale e sessuale. Queste domande sono le stesse di Bertolucci, enfant prodige del cinema italiano al ritorno nel paese natale. Ma la Toscana idilliaca descritta qui è colonizzata da un microcosmo in cui vivono inglesi, francesi, italiani, americani, uniti dalla perdita delle radici e dalla solitudine. Questo piccolo mondo cosmopolita non esce mai, purtroppo, dai luoghi comuni del “jet set” più convenzionale. Forse Bertolucci vi vede una metafora del cinema, del mondo della creazione, che può talvolta passare oltre le differenze di lingua e di cultura. Questa villa toscana è internazionale, esattamente come i suoi film più recenti (L’ultimo imperatore, Il tè nel deserto). Laddove Strategia del ragno consentiva a Bertolucci di mettere in atto una ricerca sull’Italia, il suo passato e i suoi demoni, Io ballo da sola non parla del suo rapporto politico o storico con l’Italia ma preferisce interrogarsi sul suo lavoro di cineasta e di creatore.
Non è un caso se il personaggio centrale del film sia alla ricerca di un padre, di un genitore che la possa aiutare a situarsi entro questa terra che l’accoglie. Bertolucci rasenta l’auto-parodia, talvolta involontariamente, e filma questo piccolo mondo senza grande passione, con una distanza che non sembra mai essere quella giusta. Se Io ballo da sola irrita più che commuovere, è perché il suo autore cerca una verità, un’autenticità che non raggiunge mai, perso per sentieri secondari dove finisce per smarrire la strada, come quel personaggio del carabiniere sperduto su una strada di campagna – ironia della sorte – uno dei soli momenti veramente riusciti e inattesi del film.
Ogni inquadratura di Io ballo da sola ha le sue chiare ragioni, una circostanza così rara nel cinema odierno che, paradossalmente, all’incirca per il tutto primo atto pare una limitazione. Bernardo Bertolucci tenta di realizzare la forma cinematografica più difficile fra tutte, la pastorale, un territorio solitamente riservato ai maestri (Renoir, Griffith o Hitchcock, non Woody Allen). La sua perfezione intellettuale, col suo splendore di concentrata intenzione, all’inizio sembra inizialmente togliere un po’ di vita al film. Lo stile di Bertolucci appare come una brillante varietà di determinismo, in netta contraddizione con le caratteristiche di rarefazione del genere. Ma un maestro può essere cauto. Questo senso del controllo esprime la necessità di un’adolescente bloccata nel suo sviluppo di trovare un senso al proprio mondo, e la grazia comincia gradualmente a infiltrarsi nel film, rubando la bellezza come che sia, mentre lei prosegue la sua ricerca dentro di sé mediante l’incontro con altre persone. Alla fine, il film realizza l’emozionante impresa di sapersi innalzare a uno stato rapsodico della quotidianità. Sia pur diversissimo di tutti i suoi altri film, Io ballo da sola restituisce Bertolucci alla situazione di superiorità artistica del suo grande periodo da Prima della rivoluzione al Conformista e Ultimo tango a Parigi, incluso Novecento.
Forse ritorna a un’Italia diversa da quella che ha lasciato dichiarando che non gli era più congeniale sul piano artistico. Forse è l’influenza di sua moglie, Clare Peploe, il cui Alta stagione era un ispirato esempio del genere. Questo è cinema che ritorna con più forza di prima, profondamente rigoroso e gioiosamente libero. Anche la sceneggiatura (della romanziera Susan Minot, al suo debutto cinematografico) vanta una complessità ricca di finezze e un audace buonumore. Io ballo da sola non convincerà tutti. Chi ha la mente che funziona a luoghi comuni si fisserà sul vedere luoghi comuni, e non riuscirà a riconoscere le delicatezze e le ironie che rendono notevole la storia attraverso il modo di raccontarla. C’è un tesoro di rivelazioni per ogni spettatore che è capace di condividere la curiosità della protagonista per sentire nuovi sentimenti e pensare nuovi pensieri, il che è certamente una delle vocazioni più alte dell’arte.
Credo che la saggezza stessa di Lucy, come la leggerezza che ambivo durante le riprese, vengano proprio dall’ultima tappa della mia “trilogia”. Sono stati soprattutto i buddisti ad aprirmi gli occhi sui mali dovuti all’ego ipertrofico che affligge le nostre società occidentali. A fare allusione all’argomento è il personaggio di Carlo Cecchi, il reporter di guerra ospitato dai Grayson: “Ormai nessuno ascolta più nessuno, si sentono solo monologhi”, etc. Comunque, in Io ballo da sola mi sembra di essere riuscito a essere presente pure esibendo meno del solito il mio io nelle acrobazie della macchina da presa. Ma c’è dell’altro: c’è un viaggiare all’indietro nel tentativo di dimenticare, se possibile, tutto quello che ho fatto finora.
Anche se un autore si sdoppia sempre, chi più, chi meno, in ognuno dei suoi personaggi, la sfida è stata questa volta nell’identificarmi innanzitutto in una teenager di oggi; tutto lo sforzo è andato in questa direzione. Lucy è una ragazza del suo tempo, la cui sensibilità e la vocazione creativa però la emarginano un pochino, come sempre, salvandola dalla trappola di un conformismo generazionale sempre più forte e ingombrante.
Nel film è presente anche mio padre, in quelle scene in cui Lucy annota alcuni versi che brucia subito, appena scritti, o li lascia in giro dovunque. Queste si ispirano a un ricordo d’infanzia di mio padre: al collegio, scriveva poesie e voleva mostrarle a un suo professore, che al tempo stesso temeva. E allora lasciava le sue paginette sul davanzale di una certa finestra – dove dormiva il professore –,quasi fosse stato il vento a portarle fin lì.
Ed è presente anche attraverso il suo coetano Jean Marais, una figura che si riallaccia a diversi altri “fantasmi” del cinema contemporanei dei miei, e che io amo riutilizzare nei cast, come Alida Valli, Massimo Girotti, Sterling Haydn, il vecchio Burt… Sul set, l’aura benevolente e protettiva emanata da questi divi di una volta mi sostiene almeno in uguale misura con l’energia che scaturisce dal mistero contenuto in attori giovanissimi, ancora sconosciuti, e spesso ignari, da parte loro, di ciò che rappresenta per noi il passato. Ho bisogno di tutti e due. Per me, insomma, Io ballo da sola è una specie di ritorno alle radici, ma proiettato nel futuro. Girandolo ho ritrovato un’armonia che credevo dispersa.
Il film avrà una dimensione politica abbastanza importante legata anzitutto alle critiche che Bernardo potrebbe fare su quel che sta avvenendo in Italia da qualche tempo. Lo si sente benissimo in certe scene, anche se il film non è direttamente politico. Non è un caso che non abbia girato in Italia da quindici anni, e immagino abbia parecchio da dire sull’argomento. Poi, credo che abbia avuto voglia di fare un film sulla gente, semplicemente, cosa che non gli succedeva da molti anni.
Le riprese di Io ballo da sola sono state una lunga vacanza: avveniva tutto d’estate, in campagna, con la felicità di vedere un favoloso metteur en scène occupato a dirigere la macchina da presa. Poi Liv Tyler è così naturalmente bella che risulta impossibile fotografarla male. Personalmente, sono ancora influenzato dall’età d’oro del glamour, quando sulle star c’era sempre una luce principale: la key light. Però sono anche cresciuto con i film degli anni ’70, che nel frattempo avevano imparato ad amalgamare i personaggi in un ambiente, a illuminarli sempre meglio a seconda del significato della trama… Ascoltando Bernardo, ho cercato di creare una luce speciale per Liv, che arrivava da New York e portava nel senese un’aura di modernità, una luce più fredda, con una componente azzurrina che portava ovunque con sé, quasi che il cielo si riflettesse in permanenza sul suo volto.
“Monsieur Guillaume” – chissà, forse come Guillaume… Apollinaire? – è un personaggio un po’ strano, al quale mi sento più affezionato ogni giorno che passa. Un uomo che tutti quelli che gli stanno intorno dice il fatto suo e che osserva affascinato una splendida giovane donna. A differenza degli altri, non è sedotto, ma intrigato. Amo talmente Bertolucci, e sono così sorpreso che sia venuto a cercare me per questo suo nuovo film; non immaginavo neanche che potesse conoscere il mio nome. È stato tutto così inaspettato!
Un giorno, un rappresentante della coproduzione francese era venuto in visita sul set. (Noi montavamo il film in AVID, a due passi del casale dove stava filmando Bernardo). Gli faccio vedere la scena in cui si scorge Lucy attraverso la finestra aperta, che “balla da sola” in camera sua, ascoltando il pezzo di Hole nelle cuffie. “Bellissimo montaggio!”, esclama lui, con aria da intenditore. Ho dovuto trattenermi dal fargli notare che era tutto un unico piano-sequenza…
Non è sempre il prodotto finito o il suo successo che conta di più; anzi, più spesso è l’esperienza stessa di fare il film che trovo così straordinaria, così speciale. Tutte le cose si confondono le une con le altre. A volte è un semplice e piccolissimo ricordo oppure è il gruppo di persone con cui stai lavorando che la rende quasi magica. In questo senso direi che ogni film contiene memorie molto speciali e importanti per me. Alcune spiccano più delle altre, come l’incontro con Bertolucci sul set di Io ballo da sola. Mi ero appena diplomata al liceo, quell’estate, e ho compiuto i 18 anni proprio sul set. Poi la parte di Lucy mi ha dato l’opportunità di rivivere in qualche modo l’emozione del momento in cui avevo scoperto, anni prima, chi era il mio vero padre.