Joe – Mamma, tu non mi porti mai con te… Ma io voglio venire in Italia!… Perché no?… Posso farlo io tutto quello che fa papà. Posso fare le prenotazioni, prendere le telefonate per te, discutere i tuoi contratti… Lo farei anche meglio di lui… Fammi venire, ti prego.
Dopo un enigmatico prologo “primi anni ’60” sul Tirreno, tra Sole e Luna, la diva Caterina Silveri si appresta a lasciare la sua casa di New York per una tournée europea, quando suo marito, Douglas, muore improvvisamente d’infarto. Di ritorno dal funerale, decide che ad accompagnarla sarà invece il figlio quindicenne, Joe. Ritroviamo la nuova “coppia” a Roma dove, durante le rappresentazioni del Trovatore all’opera, Caterina scopre che il ragazzo è tossicodipendente. Non sapendo più come gestire la situazione, una sera si offre a lui, provocando una violentissima reazione; in seguito gli rivela che suo padre non era Douglas, bensì un tale Giuseppe, conosciuto e amato in Italia una quindicina di anni prima. Joe riesce a rintracciare il genitore letteralmente caduto dal cielo e lo visita senza preavviso nella casetta sul mare in cui vive con la propria madre, facendosi passare per un amico del figlio, il quale sarebbe appena morto di overdose.
Durante le prove di Un ballo in maschera a Caracalla, Giuseppe, sconvolto per la terribile notizia, irrompe nelle quinte in cerca di Caterina. Questa, assai sorpresa, gli indica allora Joe – più vivo che mai – che dalla platea applaude allo spettacolo dei suoi genitori finalmente riuniti sul palcoscenico grazie al suo stratagemma.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci, Clare Peploe e Giuseppe Bertolucci, da un soggetto di Bernardo Bertolucci, Giuseppe Bertolucci e Franco Arcalli; dialoghi inglesi George Malko
(Eastmancolor, 35mm, 1,85:1) Vittorio Storaro; operatori Enrico Umetelli, Craig DiBona [n.a.] (steadicam)
Gianni Silvestri, Maria Paola Maino, con Beatrice Caracciolo, Tiziana Cassoni e Luigi Marchione; arredamento Ferdinando Giovannoni
Lina Nerli Taviani, con Pino Lancetti
Gabriella Cristiani
Ennio Morricone; brani dal Trovatore, Rigoletto, La traviata e Un ballo in maschera di Giuseppe Verdi, Così fan tutte di W.A. Mozart; canzoni Saint Tropez Twist di Peppino Di Capri, Night Fever dei Bee Gees
(Mono) Mario Dallimonti; missaggio Fausto Ancillai
Gabriele Polverosi, Clare Peploe [n.a.], Giuseppe Bertolucci [n.a.], Jirges Ristum
Suzanne Durrenberger
Marilù Parolini, Brian Hamill
Jill Clayburgh (Caterina Silveri), Matthew Barry (Joe), Fred Gwynne (Douglas), Veronica Lazar (Marina), Tomas Milian (Giuseppe), Alida Valli (madre di Giuseppe), Elisabetta Campeti (Arianna), Stéphane Barat (Mustafà), Peter Eyre (Edward), Franco Citti (uomo allo Zanzibar), Renato Salvatori (+ ricco (?) comunista emiliano), Pippo Campanini (albergatore), Roberto Benigni (tappezziere), Carlo Verdone (regista a Caracalla), Alessio Vlad (direttore dell’orchestra a Caracalla), Julian Adamoli [n.a.] (Julian), Shara Di Nepi (domestica), Franco Magrini (medico di guardia), Francesco Mei (barista), Mimmo Poli (facchino), Massimiliano Filoni (ragazzino), Rodolfo Lodi (vecchio maestro di canto), Liana Del Balzo [n.a.] (sua sorella), Fabrizio Polverini (tassista), Mario Tocci [n.a.] (conte di Luna nel Trovatore), Nicola Nicoloso [n.a.] (Manrico nel Trovatore), Iole Silvani (guardarobiera al Teatro dell’Opera), Jole Cecchini (parrucchiera), + Paola Medici, Fiorella Infascelli, Enzo Siciliano e Bernardo Bertolucci [n.a.] (amici che si congratulano con Caterina nel camerino); nelle scene eliminate dal montaggio definitivo Laura Betti [n.a.] (Ludovica), Lorenzo Tornabuoni [n.a.] (madonnaro), Ninetto Davoli, Ettore Garofolo e Mario Cipriani [n.a.] (altri clienti allo Zanzi-bar), Ronaldo Bonacchi (altro barista)
Giovanni Bertolucci per la Fiction cinematografica S.p.A. / 20th Century Fox; direttore di produzione Mario Di Biase
Fox
136’ (edizione italiana); 142’ (edizione USA)
Via del Lungomare (Sabaudia) / Brooklyn Heights (New York) / Studi Safa Palatino, Passeggiata del Gianicolo, Piazza Cavour, Piazza della Minerva, Teatro dell’opera, cinema Adriano, Teatro cinema Il Vascello, Via della Pace, Piazza Farnese, Porta Settimiana, Via della Lungara, Lungotevere della Farnesina, quartiere San Lorenzo, Istituto Tata Giovanni, Terme di Caracalla (Roma) / Piazza del Duomo e Palazzo della Pilotta (Parma), Villa Verdi (Sant’Agata), Le Piacentine (Roncole Verdi, Busseto); luglio-novembre 1978
29 agosto 1979
Uscito dal montaggio alternativo di Novecento imposto dal mercato USA che lo ha impegnato per un altro anno, Bertolucci non abbandona l’universo verdiano per darci in piena luce, con La Luna, la chiave operistica di tutto il suo cinema. Scritto in partenza per l’attrice feticcio di Bergman, Liv Ullmann, a partire del primo ricordo d’infanzia del regista (il volto di sua madre che si confondeva con la sagoma della Luna), il film si svolge un po’ alla maniera di un manuale per freudiani principianti centrato sul complesso edipico — così come più tardi sarà il caso di Piccolo Buddha per gli apprendisti buddhisti.
Dietro al fantasma del tabù definitivo dell’incesto però, sotto sotto torna a galla la ricerca del padre assente. La “nuova drammaturgia” ironicamente teorizzata per l’occasione da Bertolucci funziona sulla falsariga dei libretti d’opera, dove contano più l’emozione in quanto tale e il mélange dei generi che la stretta verosimiglianza della trama. Il tutto con un occhio sia a un certo “Lubitsch touch”, sia a Douglas Sirk (si pensi a Elena paga il debito) e al Rossellini di Germania anno zero e di Europa ’51. Va notata, inoltre, una breve apparizione di Roberto Benigni, appena scoperto l’anno precedente dal fratello Giuseppe Bertolucci nel suo Berlinguer ti voglio bene. [F.G.]
A Venezia, facili profeti, il giorno prima della presentazione della Luna, avevamo presentito in molti l’atmosfera da happening. Ci eravamo sbagliati solo per difetto. L’happening c’è stato — non tanto il giorno della proiezione lagunare quanto in quelli susseguenti — ma molto più sfaccettato e variopinto di quanto si potesse sospettare. Tra i più sfaccettatati e variopinti, anzi, a memoria di critico cinematografico. Soltanto nel 1960, in occasione di Viva l’Italia! di Roberto Rossellini, si erano viste scendere in campo così cospicue energie per rimbrottare i critici di “non essere all’altezza”.
Per la stima che si ha, forse si esige troppo da Bertolucci. Resta che di momenti più belli della Luna, e ce n’è più d’uno, soprattutto l’andare dietro le quinte del teatro per dissacrare la macchina delle finzioni con la stessa empietà di quel frugare le pieghe dell’amore materno e il fare della musica la droga che distacca Caterina dal vero — sono isole ispirate in un magma che non trova il punto di fusione. Sono splendidi pezzi di cinema, e il fotografo Storaro ha la sua parte di merito, dietro i quali però mancano fantasia compatta e debita elaborazione culturale. Perché tutti sanno che ogni mamma è anche un po’ innamorata di suo figlio.
Un lieto fine? Può sembrarlo. Un finale da melodramma? Certamente. Non fate caso all’ira degli imbecilli che a Venezia è salita al cielo cercando di sommergere La Luna. È un finale da canto spiegato, come un’onda alta di emozione. Colma un film cui si può rimproverare, forse, un incompleto controllo della materia narrativa. Come in altri film di Bertolucci, è un difetto per eccesso di generosità, fatto di sconfinamenti, fratture, liriche accensioni, sperperi romantici, rimandi simbolici troppo ostentati. Perché dovremmo preferirgli le piccole virtù di tanti altri registi? Sostenuto dal lungo duetto — corpo a corpo, cuore a cuore — dell’esordiente e scattante Matthew Barry e di Jill Clayburgh che, esaltata dalle luci di Vittorio Storaro, è scesa con furore e tremore dentro il suo personaggio, La Luna è uno dei due tre film che, dal 25 agosto a oggi, chi scrive vorrebbe rivedere stasera, domani.
La Luna è un film di grande ricchezza. Ha le sue debolezze, non lo nego, ma non c’è posto per discuterne in questa sede. Preferisco ripetere che questo film, di una maestria cinematografica assoluta, possiede delle grandi bellezze, e che bisogna proprio avere i paraocchi se si vuole a tutti i costi restarvi insensibili.
Visto attraverso i due decenni caotici che ci separano dall’esordio del regista, ogni singola inquadratura della Luna si carica di un’emozione straziante. Bertolucci qui restituisce tutto quanto, alla rinfusa: Parma e la sua infanzia, le arie inebrianti di Verdi, la folle teatralità dei gesti, delle situazioni (l’iniezione di eroina con una forchetta d’argento!) — vale a dire il rifiuto della vita vera. Più che mai la sua mise en scène rivela un’anima. Queste carrellate che iniziano sotto il turbamento di una sensazione, per una vampata di musica, e finiscono nel nulla, queste immagini disparate che si ricollegano tra di loro come capita, sono state costruite da un ammiratore dei creatori di stili (Welles, Sternberg, Ophüls). Tali incoerenze sono la testimonianza di un’impazienza e di una debolezza che sono anche nostre. Possono esasperare certi spettatori. Dovrebbero invece toccare i cuori sinceri.
Non intimorito dalle molte e a volte “autorevoli” intemerate, ma in omaggio a quel dubbio che tutti dovremmo avere come scelta metodologica, sono tornato a vedere La Luna, con il pubblico della “prima”. Spiacente ma non credo di potere cambiare, meditando, una sola riga di quel che ho scritto di getto da Venezia. Lo stile e il linguaggio evidenziano, sì, la bravura di Bertolucci, la sua capacità fascinatoria di creatore di immagini, il gioco talora mirabile della sua “scrittura”; ma non riescono mai, o quasi mai, a colmare l’inerzia di ispirazione, l’inconsistenza tematica, l’esilità narrativa del film. Qui anzi, forse proprio qui, dove più alligna il “talento” bertolucciano, è anche dove stanno le spie meglio percepibili di un’operazione che punta più al consumo, ammantato di suggestione “estetica”, che all’intelligenza creativa autenticamente sofferta (ovvero, per adoperare una formula schematica ma efficace, più al “kitsch” che all’”arte”). Invero ci si sorprende a seguire le evoluzioni della macchina da presa, sperando ogni volta che approdino a qualcosa e veicolino un “discorso”, magari smozzicato, ma percepibile. Ma quei dolly, quelle carrellate, quelle panoramiche, quei giochi sull’asse non scoprono mai nulla, o per lo meno nulla che li giustifichi, che ne dia la ragione narrativa: sono pura e intercambiabile avventura dell’occhio, pigro voyeurismo di uno sguardo che è mera contemplazione di un profilmico, il quale ha l’aria di essere lì solo per essere contemplato, in un rinvio di funzioni e di finzioni che elude continuamente la possibilità di costituirsi in “discorso”.
Com’è che questo, che sarebbe potuto essere solo un dubbio spezzatino, suscita emozione, per non dire complicità? Per la grazia di una mise en scène che sublima questa Phèdre all’italiana. E grazie all’intelligenza di un’evocazione che mette in crisi il compitino psicoanalitico per portarci in un labirinto poetico dove si mescolano i temi più cari all’autore. Ma perché sforzarsi ad analizzare troppo razionalmente questo intreccio? Il volto della madre qual è? E il volto della Luna, qual è? Non ne vediamo mai che una sola faccia per volta, l’altra rimane irresistibilmente nascosta. Il film di Bernardo Bertolucci sta in questa immagine.
Semplicistico e disarmante per l’ingenuità del suo catechismo freudiano se uno si ferma all’aneddoto. Superbo e capace di “provocare” il mistero, abile a suscitare il fascino, se accettiamo di varcare il fragile confine che separa reale e immaginario, materiale e immateriale.
Riassumere La Luna non significa forse restringerne il campo? Poiché Bertolucci non si accontenta di raccontare una storia e di scrivere un melodramma. Nel corso di questa analisi dei rapporti che legano una madre e suo figlio, egli evoca anche con intelligenza e franchezza la pulsione incestuosa sottintesa a essi. Al punto di lasciarla esplodere sullo schermo. Ma quanto tatto in quelle immagini! Così come risulta morbida e sontuosa la sua visione di una Roma tutta color ruggine e ocra, o quella delle prove del Ballo in maschera all’aperto. Anche l’ironia però è spesso presente, in questa passeggiata casuale sotto il temporale minaccioso di due amori feriti. E poi c’è Verdi, che trascina il film verso la sua apoteosi, dove si liberano attraverso un’unica, intensa emozione sia i personaggi sia gli spettatori dell’opera più ricca e più sensibile di un regista che si esprime con la sincerità di un poeta.
Joe ha dovuto ricostruire un’immagine materna attraverso la perifrasi di un’esperienza incestuosa, alla descrizione della quale il regista apporta tutta la sua sensibilità. A questo riguardo, la scena centrale del film è esemplare: la cena a due tra madre e figlio vacilla a poco a poco dalla commedia nel dramma, e Caterina comincia a intravedere che solo attraverso un comportamento che non esclude la sessualità potrà aiutare l’adolescente a costruire la sua identità. A questo punto, “così come Athos Magnani recitava la parte dell’eroe in Strategia del ragno, perché
questa era utile alla causa — nota Bertolucci — Caterina recita qui la parte della puttana, della donna travolta dal desiderio. Così facendo provoca in Joe una reazione terapeutica”. Per dirla con l’autore: “È una specie di santa che sacrifica se stessa”.
La Luna, il nuovo film di Bertolucci su una relazione para-incestuosa tra una cantante lirica e il suo figlio adolescente, ha dato luogo al peggior cumulo di critiche americane della sua carriera. Perciò non è una sorpresa che il suo incontro con i giornalisti, al festival di San Francisco, abbia provocato più di qualche scintilla. Alla conferenza stampa Bertolucci ha attaccato quella che ha definito una recensione “volgare e stupida” della Luna, uscita il giorno precedente sul San Francisco Chronicle. Dopo averlo sentito, stando a poca distanza da lui, Judy Stone, l’autrice dell’articolo, si è dichiarata d’accordo con lui in linea di principio — sul fatto che “i giornali dovrebbero cercare di analizzare i film, aiutare il pubblico a comprenderli, non essere distruttivi”, secondo le parole del regista — ma ha difeso il suo articolo, sulla base del fatto che è dovere del critico segnalare “quando un artista ha realizzato qualcosa che è al di sotto del suo livello, quando il film non funziona”. “Non me ne importa un (bip) se il mio film le piace o no”, ha risposto Bertolucci. “Lei mi ha definito come l’uomo che ha insegnato a Brando un nuovo uso per il burro. Questo è volgare, non spiritoso. Da lei io vorrei un’analisi dei miei film, non delle battute”.
La scenografia naturale della vecchia Roma, dove [Caterina] ha preso alloggio in una casa patrizia, sembra assecondare il suo intento, creandole attorno le quinte e i fondali da teatro tra i quali ha sempre desiderato abitare. Arredare con gusto scenografico la propria abitazione non equivale a trasferire tra le pareti domestiche i trionfi conseguiti sul palcoscenico. Joe, con l’imprevedibilità del suo comportamento immaturo, più che inserire una nota stonata nel mondo armonioso di Caterina, ha la capacità di smascherarne a ogni istante l’inconsistenza. Basta un gesto sgarbato, o una battuta impertinente del ragazzo per mandare all’aria una costruzione che non ha fondamenta.
Può accadere di tutto dentro una casa simile. Né vale la pena di chiedersi fino a che punto reggano i criteri della logica e della verosimiglianza. Le recriminazioni che i due protagonisti si rilanciano a vicenda corrispondono a quelle che ciascuno di essi potrebbe rivolgere a se stesso. Gli altri non esistono. Visti con gli occhi di Joe e Caterina, tutto gli esseri umani che popolano il pianeta equivalgono ad altrettanti palmipedi (come quelli che starnazzano ai margini di uno stagno durante il funerale di Douglas mentre madre e figlio, stretti l’uno all’altra dentro una limousine, cercano di sottrarsi alla curiosità degli astanti). Creature non reali, ma cinematografiche, emanazioni ectoplasmatiche della camera oscura, o frammenti di un sogno, i due sono fatti per volare. Insieme si innalzeranno in un cielo da leggenda romantica, o precipiteranno nel baratro dei gironi infernali. Ciascuno è la metà di un film. Ciò che per Caterina è la musica, e per Joe la droga, per Bertolucci è il cinema: una infatuazione dalla quale non ci si può liberare.
L’idea del film nacque qualche anno fa durante una seduta dall’analista. Il primo ricordo che ho – avevo circa due anni – riguarda me seduto dentro un cestino sulla sua bicicletta e la guardo. E improvvisamente vidi la luna nel cielo della sera. E c’era una confusione nella mia mente fra l’immagine della luna e quella del volto di mia madre. Non riuscivo ad andare oltre quell’immagine né potevo lasciare che se ne andasse via. Così ho pensato fosse un punto di partenza per un film. Nel film però tutto comincia col bambino che mangia un biscotto inzuppato nel miele. Si fa cadere del miele sulla gamba (perciò mi piace definire La Luna un “mielodramma”!). La madre lo lecca via. Poi lei alza il dito col miele ancora sopra e lo offre al bambino: lui succhia il miele dal dito di lei.
In realtà assistiamo al momento di passaggio dalla simbiosi madre-figlio che dura durante l’intero periodo dell’allattamento al seno fino al momento dell’individuazione, che, secondo Freud, avviene quando il bambino si confronta con la “scena primaria”: cioè immagina di vedere sua madre e suo padre che fanno l’amore; nella fattispecie ballano il twist. Più avanti nel film penso che l’eroina sia divenuta un sostituto per il nutrimento che Joe non riceve più da sua madre.
È stato un miracolo che io abbia avuto la parte. Ero andato dai responsabili del casting e loro avevano detto che ero troppo giovane per la parte (avevo 15 anni allora). Avevano buttato la mia foto nel mucchio di quelle scartate e la moglie di Bernardo l’ha vista in cima al mucchio e l’ha presa. Per il provino, Jill Clayburgh se la stava vedendo con circa quindici ragazzi. Lei stava lì, sudando sotto i riflettori. Io ho detto: “Mi dispiace davvero per lei”, e penso che lei lo abbia apprezzato! Poi si è scesi a quattro ragazzi. Poi a due. Eravamo stati soprannominati Monty Cliff junior e Brando junior. Brando junior ero io. Ci sono voluti due ore di tira e molla, e poi siamo andati via. Più tardi ho ricevuto da Bernardo la telefonata che la parte era mia.
Jill ha fatto di tutto per cercare di rendere le cose quanto più confortevoli possibile. È una donna veramente in gamba. Abbiamo veramente fatto per intero la scena del litigio. Ho ancora un bozzo dove mi ha colpito; è rimasto per un anno e mezzo. Bernardo mi aveva detto: “Cercherà di dare un’occhiata ai tuoi polsi mentre suoni il piano; voglio che tu la spinga contro la parete, e qui cominciate a litigare. Poi vi posizionerete in una certa posizione e vi schiaffeggiate a vicenda”. Mi sa che ci siamo davvero massacrati a vicenda. È stata proprio un’esperienza. Dopo stavo tremando. Jill è anche dovuta rientrare nel suo camerino per un paio di minuti, giusto per rilassarsi.
Tutti i genitori provano degli impulsi sessuali verso i loro bambini. Ti fa paura, essere responsabile per qualcosa che fa aprire gli occhi su sentimenti che tutti proviamo. La scena della masturbazione è stata difficile. Sapevo che Matthew era in qualche modo messo a nudo, così sono stata protettiva nei suoi confronti. Ho sentito la sofferenza di quel che significa essere un attore adolescente buttato in questa situazione. L’ho sentita più per lui che per me. Ma lui se l’è cavata bene. Ho anche sentito la responsabilità di rendere la situazione facilmente identificabile, umana e premurosa. L’altra scena è stata veramente una “scena d’attore”. Eravamo entrambi più preoccupati della nostra posizione, dell’illuminazione e della messa in scena del litigio; il sesso era una cosa secondaria.
… Decisamente uno dei miei film preferiti.
Dopo aver visto La Luna, ho pianto come un pazzo e ho capitato di essere diventato un altro uomo. Ma già girarlo era stata una malattia: nell’ultima scena io dovevo esprimere l’arrivo del padre che ritrova il figlio. C’era una terribile tensione tra tutti, stavamo tutti male, Bernardo sembrava un santo con le due braccia ingessate per una caduta. Io ero in analisi, e avevo da poco scoperto di essere stato innamorato di mia madre. Non mi sentivo padre ma mi identificavo col ragazzino. A un tratto abbiamo sentito le campane di Roma, avevano appena eletto papa Luciani; mi sentivo dentro una messa, una magia, e in quel momento Bernardo ha gridato: è nato il padre! Ho cominciato a piangere e per quel giorno non ho più lavorato.