Sacerdote africano – Ed egli disse ai discepoli: Tutti mangiavano e bevevano, compravano e vendevano, piantavano e costruivano. Ma nel giorno in cui Lot uscì da Sodoma, una pioggia di fuoco e zolfo cadde dal cielo e fece perire tutti quanti. Chi cercherà di salvare la sua vita la perderà; e chi la perderà l’avrà salvata.
Fuggita dal paese natio in Africa, Shandurai studia medicina a Roma. In cambio di vitto e alloggio, lavora come colf per Mr. Kinsky, un pianista inglese che vive in un palazzo un po’ decadente del centro storico, ereditato dalla zia. Kinsky è scapolo e occupa il piano nobile; la giovane donna ha sistemato il proprio spazio privato di sotto, nella vecchia cucina. Una notte, il padrone di casa infila un’orchidea nel portavivande che le serve da dispensa. Seguono altri enigmatici messaggi e regali, finché una sera lui si decide a dichiararle goffamente i propri sentimenti. Sottraendosi all’abbraccio, lei gli urla in faccia, rivelando che è sposata, e che suo marito è rinchiuso da anni in Africa come prigioniero politico. Sconvolto, Kinsky si profonde in scuse e la lascia tranquilla.
Intanto Shandurai, ormai all’erta, si mette in cerca di un nuovo alloggio, quando nota, continuando a fare le pulizie di sopra, che certi mobili e oggetti d’arte spariscono uno dopo altro. Quadri, statuine, arazzi, pianoforte: insomma il palazzo si sta svuotando, mentre Kinsky avvia misteriosi contatti con un prete di colore… Pochi mesi dopo, arriva la notizia della liberazione del marito di Shandurai, che presto sarà autorizzato a raggiungerla in Italia.
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci e Clare Peploe, dal racconto The Siege (1985) di James Lasdun
(Technicolor, 35mm, 1.66:1) Fabio Cianchetti; operatori Roberto De Nigris, Salvatore Anversa (steadicam)
Gianni Silvestri; arredamento Cynthia Sleiter
Metka Kosak
Jacopo Quadri
Musiche originali di Alessio Vlad; brani da Fantasia in Re minore, K 397 di W.A. Mozart, 32 Variazioni in Do minore di L. van Beethoven, Sonata op. 7 in Mi minore (2° movimento) di E. Grieg, Preludio in Mi diesis minore di J.S. Bach, Studio op. 8 n. 12 in Re diesis minore di A. Scriabin, eseguiti da Stefano Arnaldi, Walzer in Mi maggiore di F. Chopin, dal piccolo Andrea Quercia; My Favourite Things di + R. Rodgers & O. Hammerstein, da John Coltrane; canzoni Maria Valencia e Le Voyageur di Papà Wemba, Sina di Salif Keita, Cuore matto da Little Tony, Africa e Nyumbani di John C. Ojwang, Diaraby di Ali Faraka Touré e Ry Cooder, Full Option di Pépé Kalle e Papy Tex, Mambote na nje dal coro Bondeko; Ostinato di Alessio Vlad.
(Dolby Digital) Maurizio Argentieri; missaggio Fausto Ancillai
Serena Canevari, con Henrique Laplaine, Ginevra Elkann (Roma), Yahya Chavanga (Kenya)
Suzanne Durrenberger, Fabien Gerard
Alessia Bulgari, Giovanni Mastrangelo (Kenya)
David Bush (CGI)
Thandie Newton (Shandurai), David Thewlis (Mr Kinsky), Claudio Santamaria (Agostino), John C. Ojwang (cantastorie), Cyril Nri (prete africano), Massimo De Rossi (acquirente di pianoforti), Andrea Quercia, Veronica Visentin, Alexander Menis, Natalia Mignosa, Lorenzo Mollica, Elena Perino e Fernando Trombetti (bambini al concerto), Paul Ozul (marito di Shandurai), Veronica Lazar (professoressa universitaria), Gian Franco Mazzoni (secondo professore universitario), padre Agostino Bita (direttore del coro in chiesa), Moustafa Ngom (ragazzo senegalese in discoteca), Luigi Cremonini e Ettore Martini (antiquari), (Maria Francesca Etzi (commessa), Salvatore Anversa (postino)
Massimo Cortesi per la Navert Film / Fiction Film s.r.l. / Mediaset / BBC Television Centre; produttrice associata Clare Peploe; direttore di produzione Andrea Filosa, con Luigi Melecchi (Kenya)
Medusa
93′
Vicolo del Bottino, piazza Vittorio, chiesa della Natività di Gesù, ospedale Sant’Eugenio (Roma); marzo-aprile 1998; periferia di Nairobi (Kenya); maggio 1998
5 febbraio 1999
Invece dell’Atto III di Novecento o del biopic sul compositore cinquecentesco Carlo Gesualdo da Venosa, annunciati l’uno e l’altro all’indomani di Io ballo da sola, Bertolucci firma una piccola produzione destinata in partenza alla Rai che gli permette di ritrovare la libertà creativa delle sue opere degli anni ’60. Girato in quattro settimane, in stretta collaborazione con sua moglie – la regista Clare Peploe –, L’assedio prende atto della “nuova Nouvelle Vague” allora in atto nella cinematografia internazionale, sviluppando tra l’altro una ricerca formale già iniziata nell’ultima parte de Il tè nel deserto. Si tratta di realizzare un film quasi completamente privo di parole, a tutto vantaggio, nella fattispecie , della musica. Tuttavia, in eco alle sue pellicole più recenti, sia la presenza dell’”altrove” che le “prove d’amore” appaiono tra le righe di questa trasposizione dell’omonimo racconto di James Lasdun (l’autore dietro l’inquietante Sunday di Jonathan Nossiter), ambientato invece a Londra, con una protagonista sudamericana. [F.G.]
A distanza di sette film e di un quarto di secolo (fa impressione dirlo di un regista che continua a sembrare giovane, ma è proprio così) Bernardo Bertolucci si lascia alle spalle i film-saga, l’esotismo, l’altrove e gli altri tempi, le produzioni miliardarie, e colpisce al cuore con un piccolo film, L’assedio, un “Kammerspiel” a due personaggi e poche comparse, che si svolge a Roma, oggi. E si capisce che Bertolucci sia rimasto affascinato dalle possibilità di questa storia che si svolge in sostanziale claustrofobia, un po’ – fatti tutti i distinguo del tempo che passa e della assai diversa temperatura emotiva – come Ultimo tango a Parigi, con due personaggi a confrontarsi e a sviluppare il loro rapporto in uno spazio chiuso e, in questo caso, altamente simbolico dei loro rapporti: in una stanzetta al pianterreno lei, Shandurai, lui, Mr. Kinsky, l’inglese ricco e nevrotico, il pianista che suona solo per sé e non osa esibirsi, ai piani alti di un palazzetto cadente e bellissimo attaccato alla scalinata di Trinità dei Monti.
Con un tocco di follia che è parente del “preferirei di no” di Bartleby lo scrivano di Melville – e cioè l’attaccarsi a una frase come a una regola di vita –, Mr. Kinsky risponde coerentemente e silenziosamente alla richiesta della ragazza, e comincia a spogliarsi di tutto quello che ha. Il loro rapporto di poche parole e di sfide reciproche è la cosa più bella di un film pudico e intenso, che cede un po’, invece, quando esce di casa e prende un’intonazione necessariamente più realistica – anche se continua a dimostrare che con pochi soldi e molto gusto si possono dissolvere i confini tra cinema per la tv e il grande cinema.
Accerchiamento. Blocco. Strategia. Forza. Conquista. Cos’altro associate alla parola “assedio”? Isolamento? Invasione? Sottomissione? Resistenza? Qualsiasi cosa vi venga in mente, il nuovo film di Bernardo Bertolucci la rovescerà nel suo contrario. L’assedio è liberazione, apertura, ripresa, scoperta. Potrebbe essere un Ultimo tango rivisto attraverso gli occhi del Piccolo Buddha, con una sensualità diffusa al posto dell’erotismo aggressivo e la rinuncia invece del possesso.
Girato in ventotto giorni a due passi da Piazza di Spagna (ma degli esterni si vede quasi solo il vicolo in cui è situato il palazzo, adiacente alla metropolitana), aperto da un prologo in Africa dallo stile semidocumentaristico (ma il paese in cui è ambientato è immaginario), L’assedio è costruito attorno alla figura di Shandurai (Thandie Newton – Intervista col vampiro, Jefferson in Paris, Beloved), giovane africana che lavora come colf per Mr. Kinsky (David Thewlis – Naked, Sette anni in Tibet, Il grande Lebowski), un compositore inglese eccentrico e solitario. Lei ha lasciato un paese in balia della dittatura e un marito in carcere per motivi politici. Lui si è trasferito a Roma dopo aver ereditato da una zia una casa dal fascino un po’ decadente, piena di oggetti d’arte antichi, disposta su due piani collegati da un’ampia ed elegante scala a chiocciola. Per entrambi, la casa è un rifugio e la scala è il luogo dove le note provenienti dalle rispettive stanze si infrangono l’una contro l’altra, generando accordi impossibili. Non avendo speranze di vedere ricambiato il suo amore per lei, Kinsky ritorna al suo pianoforte, svuotando a poco a poco l’appartamento di tutte le cose più preziose, finché “non c’è più nulla da spolverare”, come gli dice Shandurai. A quel punto l’uomo risponde con uno sguardo che pare il sorriso enigmatico della Gioconda…
Invece di Novecento: Atto III è spuntato questo piccolo, grande film contemporaneo, tratto da un racconto di James Lasdun e girato per la tv anche se viene distribuito nelle sale, ma del tutto anomalo rispetto ai prodotti televisivi e così “sperimentale” da risultare agli antipodi anche dei kolossal da Oscar del regista.
Un uomo, una donna, un palazzo. Siamo agli antipodi del Bertolucci “su grande scala” cui si riduce troppo spesso il regista di Novecento e dell’Ultimo imperatore, perdendo di vista che esordì pure come autore di film assai intimisti. Ormai all’apice della maturità, Bertolucci torna a un cinema “povero”. Ed eccolo improvvisamente come liberato, che si ricollega al desiderio – alla passione – di raccontare delle cose semplici e intime. Sì, quel palazzo è un personaggio non meno importante degli altri due protagonisti, e ha un talento incredibile! Balletto fragile quanto una ragnatela, L’assedio è un film in forma di sussurro. Tutto qui è trattenuto, ellittico, allusivo. I suoi segreti vengono rivelati a poco a poco, per cui il loro impatto emozionale risulta più forte. La luce, l’ombra, la tavolozza dei colori, la tonalità, le tessiture, tutto contribuisce a creare un’atmosfera dove osiamo appena respirare, per paura di distruggerne la magia.
In un’epoca in cui la psico-chiacchiera televisiva presume di svelarci i più grandi misteri dell’esistenza, è facile dimenticare che l’amore non è il prodotto di parole e di negoziato terapeutico. Le relazioni civili sono una cosa; la cieca forza che chiamiamo amore è un’altra. Una ragione per cui L’assedio appare così fresco e tonificante è che l’amore che cresce tra i due personaggi principali, Mr. Kinsky, un pianista inglese espatriato a Roma e la sua domestica nera, Shandurai, ha poco a che fare con le parole. Questa è una storia d’amore contemporanea nella quale non sentirete sparare parole come “confini” e “narcisistico”. Non sentirete neanche la parola “relazione”. L’assedio è un’esplorazione volutamente romantica di quelle connessioni non-verbali fra le persone che possono sbocciare in amore.
Pieno di immagini ricche, scintillanti, del mondo immaginato come un mosaico di confusa leggiadria, il film ha una delle sceneggiature più rarefatte fra tutti i film usciti quest’anno. Poiché i sentimenti esaminati da questa storia d’amore sono costruiti più attraverso la musica che il parlato, e attraverso azioni enigmatiche, compiute da un personaggio e osservate dall’altro, che non sembrano formare un quadro completo. Anche dopo la fine della storia, aleggia un senso nascosto di mistero.
L’assedio è così determinatamente ellittico che il suo rifiuto di essere diretto sembra a tratti affettato ed evasivo. E i suoi due protagonisti non risultano mai completamente messi a fuoco. D’altro canto, la prospettiva antipsicologica del film è talmente rinfrescante che è solo possibile applaudire il modo in cui crea due adulti che non hanno bisogno di venire spiegati da una lista di tratti caratteriali o di accordarsi a un profilo della personalità.
L’assedio è un film sulla domanda se due persone che non hanno niente in comune, che non fanno conversazioni serie, faranno l’amore – anche se ciò significa dimenticare tutto quello che abbiamo imparato sulla donna. È anche un film sulla domanda se vedremo o no i suoi seni.
Come può un regista così sofisticato, in un film di tale grazia stilistica, raccontare una storia così ristretta ed evasiva? Ma non è tutto: la pellicola riguarda anche la razza, la politica e la cultura, e riduce tutto questo a convenienti punti del plot. I valori sociali espressi nell’Assedio non avrebbero sorpreso in un film fatto 40 anni fa, ma vederli proposti seriamente oggigiorno è stupefacente. Thandie Newton è bellissima. È filmata da Bertolucci in modo tale da fare della sua bellezza il soggetto delle inquadrature. Sta facendo le pulizie, la curva superiore del suo seno che le gonfia la blusa. Dai capelli goccioline di sudore cadono davanti ai suoi occhi meravigliosi. C’è un montaggio in cui lei sta passando l’aspirapolvere e Mr. Kinsky sta suonando – un vero e proprio “duetto per pianoforte e aspirapolvere”.
Dopodiché vediamo i suoi seni quando è a letto, da sola. Faccio questa precisazione perché è, così trasparentemente, un bonus. Jean-Luc Godard ha detto che la storia del cinema è la storia di “boys photographing girls”. I film più recenti di Bertolucci (tipo Io ballo da sola) sottolineano questo punto. Io sono umano. Provo piacere a vedere Thandie Newton nuda. In un film senza pretese, la nudità non richiederebbe nemmeno la minima giustificazione. Nell’Assedio però vediamo celarsi dei fastidiosi problemi. Ora, poiché Mr. Kinsky ha venduto il suo Steinway & Sons per far liberare il marito di lei, lei si ubriaca, sale quatta quatta al piano di sopra e si infila di notte nel letto di lui. Fanno l’amore? Non lo sappiamo. All’alba, il famoso marito – ormai libero – è fermo davanti alla porta e suona ripetutamente il campanello – ignorato.
Come può una donna tradire lo sposo che ama e ammira, e scegliere invece un uomo con cui non ha avuto una seria comunicazione? Per essere onesti, alcuni ritengono che la conclusione è aperta. Io ho avuto la sensazione che il drin drin del marito sia rimasto inascoltato. L’assedio parla di un’attraente donna nera che preferisce un tipo strambo di pelle bianca al coraggioso marito che dice di amare. Quale motivazione possibile può mai avere? Io direi che il personaggio è motivato fondamentalmente dal fatto che gli autori del film sono bianchi.
L’assedio è un film percorso dai brividi di piacere e di paura di qualcuno che per due anni si è interrogato molto su dove stia andando il cinema. Non che io sia arrivato a delle conclusioni, però avverto profondamente un cambiamento storico, epocale, della stessa portata o almeno simile al passaggio dal muto al sonoro o dal bianco e nero al colore. L’ho avvertito in alcuni film degli ultimi anni, come Honk Kong Express e Happy Together di Wong Kar-wai, Gummo di Harmony Korine, o Vive l’amour, Il fiume e The Hole di Tsai Ming-liang.
A differenza di tutto il cinema che ho sempre amato e che ho fatto, questi film non ricorrono alla nostalgia del passato, si nutrono esclusivamente del presente e hanno metabolizzato perfettamente le nuove tecniche del linguaggio per immagini. In essi spesso molte cose mi sfuggono, mi sfugge il significato razionale, ma l’emozione mi colpisce al cuore, il mistero mi cattura. Il modo di navigare nel presente che hanno i giovani di oggi possiede una tale grazia, una tale ironia, una tale naturalezza, che mi viene quasi voglia di perdonare la loro mancanza di conoscenza del passato. Prima quel rifiuto del passato mi angosciava, oggi lo accetto come un dato di fatto. Ne sono affascinato perché “io sono una macchina da presa” e la macchina da presa è affascinata da ciò che ha davanti, si mangia il presente, è il suo nutrimento. E oggi il presente è questo. Così sono arrivato al punto non solo di accettarlo, ma di tentare, se possibile, di subirne un piccolo contagio.
Ho scritto L’assedio 15 anni fa, sebbene il germe del racconto risalga a diversi anni prima, quando io ne avevo 17. Ero andato in Nepal, dove mi ammalai gravemente e fui portato nel reparto per malati terminali di un ospedale di Katmandu, con una diagnosi di sospetto colera. Una raccolta di novelle medievali apparve misteriosamente accanto al mio letto, e mentre la mia diagnosi accertata veniva continuamente ridimensionata, passando a tifo, malaria e poi a semplice gastroenterite, lessi il libro dall’inizio alla fine. La novella di Dianora e Ansaldo, in particolare – di Boccaccio – ebbe un profondo effetto su di me. Nel mio stato febbricitante le geometrie del racconto avevano un effetto inebriante. Più tardi, diventato scrittore, mi trovai a cercare un modo per ridar vita a quell’intelaiatura senza ricorrere alla magia. La mia versione presenta un pianista solitario di nome Kinsky, che vive a Londra in una casa piena di preziosi cimeli di famiglia. L’uomo si innamora di una studentessa straniera, Marietta, che fa le pulizie per lui, ispirata al ricordo della colf argentina di cui mi ero invaghito, adolescente (la quale, a proposito, era risuscita un giorno a farmi entrare con lei in un cinema di terza visione dove davano uno dei film più discussi del momento: Ultimo tango a Parigi!
Ora che mi ritrovo invitato dallo stesso Bertolucci a visitare il suo set, il grande regista mi sembra di essere eccessivamente preoccupato che io possa sentirmi offeso per le libertà che lui e Clare Peploe si sono presi nel loro adattamento. Tutti i dovuti cambiamenti a me risultano azzeccati, e gli assicuro che credo fermamente nella metamorfosi. “Non c’è niente di più terribile – dico – di un film che resti fedele al racconto originario”.
Dentro il palazzo di Kinsky c’è un continuo flusso di persone che serpeggia su e giù per la grande scalinata a chiocciola, tante quante ce ne dovevano essere quando il palazzo era adibito alla propria funzione. Bertolucci, sua moglie e diversi assistenti, si stringono davanti ad un monitor. Il regista mi presenta a Suzanne, la sua segretaria di edizione francese. “Ha lavorato 20 anni per Buñuel”, mi dice, aggiungendo con una risatina: “Gliel’ho rubata!” Mi stringo dietro di loro, dove, di lì a poco vengo ulteriormente schiacciato dall’esperto di dizione, che è lì per affinare l’accento afro-italiano di Thandie, e da un pianista impiegato nei primi piani delle mani di David Thewlis (i suoi polsi sono stati rasati per assomigliare a quelli meno irsuti di Thewlis).
La strategia di Bernardo, nelle scene di stamattina, sembra essere quella di mescolare quanto più possibile i diversi tipi di ripresa: camera fissa, cinepresa portatile, carrellate, ecc. Non pretendo di capire questo lato delle cose e non me la sento di seccarlo chiedendo spiegazioni. Bertolucci, con molto tatto, ha descritto la mia visita come una visita del subconscio del film, ma potenzialmente mi sento molto di più di un invadente super-io: capace di inibire chiunque incontri. Usciamo dall’angusta dépendance. Mi siedo su una cassa nell’angolo del soggiorno molto più spazioso e tento di diventare invisibile, mentre il lento spettacolo della realizzazione di un film si sviluppa sotto ai miei occhi.
Bertolucci è pieno di una passione contagiosa e adora veramente gli attori, tanto che viene loro incontro, e ti permette di esercitare un’influenza; lavorare con lui è stata una di quelle esperienze che capitano una sola volta nella vita, ed è un film di cui sono molto fiera.