Mr Johnson – Le parole sono importanti.
Pu Yi – Perché le parole sono importanti?
Mr Johnston – Se non sapete dire quello che pensate, Vostra Maestà, non riuscirete mai a sapere quello che dite. E un gentleman dovrebbe sempre sapere quello che dice.
Nel 1908, il piccolo principe Pu Yi di origine manciù, come tutti i rappresentanti della dinastia Qing, è designato a salire sul trono del Drago alla tenera età di 3 anni… Quando avviene la prima rivoluzione del 1911, la Cina diventa una repubblica; tocca all’ex Figlio del Cielo, privo ormai di ogni potere, rimanere confinato con la sua corte nella gabbia dorata della Città Proibita, prima di esserne espulso nel 1924 da un generale ribelle. Esiliato a Tianjin, questo “prigioniero del passato” continua intanto a seguire i consigli del suo tutore occidentale, Reginald Johnston, il quale lo incoraggia ad accettare l’invito dei giapponesi a risalire sul trono come imperatore del Manciukuo (in realtà uno Stato fantoccio usato come base per la programmata conquista del resto della Cina, e poi dell’intero continente asiatico). Siamo agli albori della seconda guerra mondiale…
Arriva il 1950: condannato per alto tradimento dopo una terribile e logorante guerra durata otto anni – inizialmente contro l’invasore nipponico, poi contro il Guomintang del “generalissimo” Chiang Kai-shek –, seguita dalla vittoria e dalla presa del potere da parte di Mao, Pu Yi viene “rieducato” insieme agli altri collaborazionisti del Manciukuo. In occasione del 10° anniversario della Repubblica Popolare, ottiene il “perdono” ufficiale del Regime.
Per l’ex sovrano comincia finalmente l’esistenza normale di un qualsiasi cittadino cinese, come orticultore presso il Giardino botanico di Pechino. Finché, nel 1966, scoppia un nuovo sconvolgimento maggiore: dappertutto attraverso la Celeste Repubblica, decine di milioni di adolescenti, tutti vestiti da Guardie Rosse, criticano all’unisono l’imborghesimento dei capi del Partito. È l’inizio della Grande rivoluzione culturale…
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci e Mark Peploe, con la collaborazione iniziale di Enzo Ungari, dall’autobiografia di Aisin Gioro Pu Yi, Sono stato imperatore (1964)
Aisin Gioro Pu Chieh, Li Wenda, Jin Yuan, Aisin Gioro Wen Xin, Aisin Gioro Yu Zhan
(Technicolor-Technovision, 35mm, 2.35:1 – theatrical release / Univisium, 2:00:1 – ratio modificato dagli stessi autori per l’edizione dvd restaurata della Criterion Collection) Vittorio Storaro; operatori Enrico Umetelli, Mauro Marchetti, Nicola Pecorini (steadicam)
Ferdinando Scarfiotti, con Gianni Silvestri, Giovanni Giovagnoni, Maria Teresa Barbasso; arredamento Bruno Cesari, Osvaldo Desideri, Cinzia Sleiter, con Wang Chunpu, Wang Jixian, Boriana Song
James Acheson, Ugo Pericoli (divise militari)
Gabriella Cristiani, con Elvio Sordoni, Fiorella Amico Giovanelli
David Byrne, Ryuichi Sakamoto, Su çong; Concerto per violino di Ludwig van Beethoven; canzoni Am I Blue? (1929) di Harry Akst & Grant Clarke, China Boy (1929) di Phil Boutelje e Dick Winfree, Ol’ Man River (1927) dal musical Show Boat di Jerome Kern e Oscar Hammerstein, Auld Lang Syne (traditional Scottish folk tune), Yankee Doodle Dee (traditional American folk tune), L’Oriente è rosso (Dōngfāng hóng , 1964) di Li Youyan, Fuori dal PC niente Cina nuova! (Méiyǒu Gòngchǎndǎng jiù méiyǒu xin Zhōngguó, circa 1966), Ribellarsi è giusto! La rivoluzione non è un crimine! (circa 1966)
(Dolby Digital) Ivan Sharrock, con David Motta, Don Banks
Gabriele Polverosi, con Serena Canevari, Wang Biao, Lou Hangmin, Li Hongsheng e Ning Ying, Nicoletta Peyran, F. Gerard, Franco Angeli, Giulio Levi
Suzanne Durrenberger, con Daniel Shallon
Maurice Binder
John Lone (Pu Yi), Joan Chen (Wan Jung), Peter O’Toole (Mr Johnston), Wu Jun Mei alias Vivian Wu (Wen Hsiu), Ying Ruocheng (governatore del penitenziario), Victor Wong (Chen Pao-shen), Ryuichi Sakamoto (Mr Amakasu), Maggie Han (Gioiello d’Oriente), Richard Vuu (Pu Yi 3 anni), Tijger Tsou (Pu Yi 10 anni), Wu Tao (Pu Yi 15 anni), Fan Guang (Pu Chieh), Henry Kyi (Pu Chieh 8 anni), Alvin Riley (Pu Chieh 14 anni), Lisa Lu (imperatrice Tzu Hsi), Chen Kaige (capitano della guardia imperiale), Liang Dong (madre di Pu Yi), Basil Pao (padre di Pu Yi), (Ar Mo, la balia), Song Huaikuei, alias Madame Song (imperatrice Lung Yu), Cary Hiroyuki Tagawa (capo eunuco), Huang Wenjie (Gobbetto), Zhang Liangbin (Piedone), Jiang Xiren (ciambellano), Dennis Dun (Grande Li), Ric Young (interrogatore), Yu Shihong (Hsiao Hsiu), Lisa Hwong (Signora del Libro), Wu Jun (Wen Hsiu 12 anni), Gu Junguo (chauffeur), Dong Jiechen e Dong Zhendong (vecchi medici), Zhang Tianmin e Luo Hongnian (vecchi tutori), Constantine Gregory (oculista), Xu Chunqing (capitano della guardia nel Manciukuo), Fumihiko Ikeda (colonnello Yoshioka), Hideo Takamatsu (generale Ishikari), Hajime Tshibana (suo interprete), Li Fusheng (ministro del Commercio), Chen Shu (Chang Chinghui), Luo Shigang (segretario), Akira Ikuta (ostetrico giapponese), Yang Hongchang (scriba), Zhang Daxin e Zu Ruigang (custodi del penitenziario), Wang Biao (carcerato), Jin Yuan (capo del PCC), Matthew Spender e Michael Vermaaten (membri del Country Club), Alan Berkowitz e F. Gerard (fotografi); nelle versioni tv e estesa Li Wei (padre di Ar Mo), Cai Hongchiang (eunuco sfregiato), Ning Ying (moglie di Grande Li); voci italiane Giancarlo Giannini (Pu Yi), Fabrizio Manfredi (Pu Yi 15 anni), Ilaria Stagni (Pu Yi 3 e 18 anni), Rossella Izzo (Wan Jung), Giuseppe Rinaldi (Mr Johnston), Antonio Guidi (governatore del penitenziario)
Jeremy Thomas per la RPC [Recorded Picture Company] (Londra) / Tao Film s.r.l. (Roma)/ CFCC [China Film Co-production Corporation] (Pechino) / Yanco Films Ltd (Hong Kong) / Hemdale Film Corporation (Londra) / Screenframe Ltd (Londra), AAA Soprofilm (Parigi), con la partecipazione della Rai-tv; produttori associati Franco Giovalé, Joyce Herlihy; produttore esecutivo John Daly; rappresentanti CFCC Xu Chunqing, Zhang Liangbin; direttori di produzione Attilio Viti, Pietro Sassaroli, Stefano Bolzoni, Lamberto Palmieri, Alberto Passone, Wang Liansheng, Yang Kebing, Zhang Yumin; organizzazione generale Mario Cotone, Cai Rubin
Cecchi Gori
160’ / versione tv 2019: 219’ / versione estesa (director’s cut): 209’
Pechino, Beijing Film Studio, Changchun, Dalian (Cina), Teatro 5 di Cinecittà, Salsomaggiore, aerodromo militare di Guidonia (Italia); 2 agosto 1986-30 gennaio 1987
23 ottobre 1987
Mentre il progetto decennale di portare sullo schermo Piombo e sangue, da Dashiell Hammett, provoca un nuovo scontro con Alberto Grimaldi (il produttore di Tango e di Novecento, rimasto proprietario dei diritti del romanzo), Bertolucci decide di imbarcarsi nella folle impresa dell’Ultimo imperatore. Questa, nata sulla scia dall’esperienza produttiva della serie televisiva Marco Polo, di Giuliano Montaldo, riscontra subito infatti la sua insofferenza crescente nei riguardi di una realtà italiana che ormai si rifiuta persino “di incidere la pellicola”, dando così il via, ancora a sua insaputa, a una trilogia grazie alla quale il regista partirà alla scoperta di altri modi di pensare e, magari, di possibili alternative al vicolo cieco del consumismo sfrenato fornito dal modello occidentale. Il successo planetario dell’Ultimo imperatore farà di questo apparente kolossal hollywoodiano – in realtà una superproduzione indipendente europea condotta da un nuovo produttore, l’inglese Jeremy Thomas, non priva, tra l’altro, di richiami anche alla tradizione dell’Aida verdiana o della Turandot di Puccini – l’evento che contribuì a legare nuovamente l’antico “Impero di mezzo” al resto del mondo, come aprirà pure la strada della cinematografia cinese ai maggiori festival internazionali. [F.G.]
Ne ha fatta di strada questo ancor giovane maestro dai tempi di Strategia del ragno, girato dietro casa mescolando la lettura di Borges e il profumo del culatello; e gli ammiratori di quel film inquietante e poveristico, tra i quali da sempre mi annovero, continuano a preferirlo ai più reclamizzati impegni successivi. Bisogna però concedere che la carriera di un artista non può svilupparsi sugli itinerari programmati dalla critica, gli autori fanno ciò che vogliono e non ciò che vorremmo noi. Bertolucci è riuscito a penetrare nella Città Proibita con una troupe pilotata dal grande operatore Vittorio Storaro, riccamente costumata da James Acheson, fra le scenografie vere o fantastiche di Ferdinando Scarfiotti? Accettiamo il bel gioco e godiamoci lo spettacolo che fin dalle prime immagini si annuncia affascinante, insolito, coinvolgente; e che continua a tener sveglia l’attenzione, e a non annoiare mai, sulla lunghezza pericolosa di due ore e mezzo.
Il collega Terzani sostiene che all’epoca il colpo d’occhio della Città Proibita era molto più sudicio e sbrindellato, non così impeccabilmente coreografico, e gli crediamo volentieri; ma nel suo dominio estetico ogni autore è un sovrano assoluto, più ancora dell’imperatore della Cina, e Bertolucci ha fatto bene a reinventare il passato come pareva a lui. Ci viene in mente, a questo punto, che la storia di Pu Yi nelle mani del regista parmigiano è diventata un po’ la sua storia personale o, almeno, un mito con forti connotazioni autobiografiche. Sullo sfondo del gran tema che è l’assoluta transitorietà del potere, la sua ridicolaggine, la sua inutile crudeltà, Pu Yi, educato all’onnipotenza, non riesce a comandare neppure se stesso. Con il coraggio che ci vuole, Bertolucci si affaccia sulle profondità dell’inconscio e cerca di raccontare le sue emozioni esistenziali. Insomma, nonostante i rischi che comporta la formula del kolossal d’autore, il Nostro sembra tornato sulla via maestra: L’ultimo imperatore è l’opera di un cineasta pienamente maturo, pronto per chissà quante altre imprevedibili avventure.
La vicenda è quella – remota nello spazio e nel tempo – dell’ultimo “Figlio del Cielo”; ma, come tutte le favole (e questo film è anche una favola dolente e grandiosa), mentre parla di principi e re, parla anche di tutti gli altri umani senza lignaggio e senza storia. Asservito fin dalla tenera età di 3 anni a scopi e progetti altrui (le esigenze dinastiche, gli interessi dei cortigiani…), vede violati i suoi diritti umani basilari: le spietate separazioni dalla madre poi dalla tenera balia Ar Mo; il padre che – invece di accogliere la sua domanda “Quando torniamo a casa?”, il giorno dell’arrivo al palazzo imperiale – gli si prostra davanti nel profondo inchino rituale. Ma la violenza peggiore è proprio nel fatto che questa onnipotenza patologicamente alimentata gli impedisce di accedere alla maturità e di forgiare strumenti psicologici atti a far fronte ai traumi reali; come quando, ormai a 10 anni, il fratellino gli rivela dispettosamente che il suo impero è crollato, e lui – nel tentativo di affermare il proprio potere – ordina a un eunuco di bere l’inchiostro; ma poi, in presa all’ansia e allo smarrimento, non sa far altro che cercare regressivamente il contatto con il seno di Ar Mo. Poiché è certo: l’altra faccia dell’onnipotenza è l’impotenza, come sperimenta ciascuno nel processo maturativo.
Pu Yi è stato definito “un Peter Pan orientale”, ma è un’analisi valida solo relativamente. Il ragazzo del racconto non vuol crescere; il giovane imperatore invece vorrebbe crescere, ma ogni suo tentativo di conoscenza e di autonomia viene determinatamente soffocato e represso.
Nell’Ultimo imperatore, il primo film di Bernardo Bertolucci da sette anni, lo stilista più sensuale del cinema si butta in una frenesia dell’immagine, evocando visioni di splendore orientale che farebbero impallidire d’invidia Josef von Sternberg. Ma qui c’è molto più che puro spettacolo. Sessant’anni di storia rappresentano per qualunque film – anche uno di due ore e 45 minuti – un terreno ben vasto da circoscrivere. Gli storici metteranno in discussione le libertà e le omissioni, e gli spettatori resteranno forse perplessi di fronte ai riferimenti sommari ed enunciati fuori campo alla sfilata politica di passaggio. Ma Bertolucci non intende fare una lezione di storia. Noi siamo testimoni del secolo dal punto di vista di Pu Yi – da dentro una gabbia dorata.
Bertolucci ritiene che Pu Yi ebbe un’autentica conversione all’umanità in prigione, che il suo cambiamento politico fu anche spirituale, e tuttavia il modo in cui rende sul piano drammatico questa trasformazione appare stranamente incerto. Alla fine, Pu Yi rimane un affascinante enigma, che il cineasta italiano non pretende di spiegare troppo a fondo. Il film stesso mantiene una distanza cerimoniale; incanta, ma raramente parla al cuore. Nei suoi momenti più deboli la sceneggiatura ha una tessitura quasi fumettistica. “Io odio la Cina”, dice la fascinosa spia Gioiello d’Oriente alla moglie dell’imperatore, diventata oppiomane. “Io odio... te”, risponde l’imperatrice. Se a tratti L’ultimo imperatore è più vicino a Cecil B. DeMille che a Dostoevskij, e le parti di cui è composto sono migliori dell’intero, quand’è stata l’ultima volta che uno spettacolo ha offerto tali splendori? Bertolucci crea delle immagini che altri si accontentano di sognare; potrebbe essere l’ultimo imperatore dell’epica cinematografica.
Forse che Bertolucci sarebbe caduto nella trappola della superproduzione internazionale in lingua inglese, sarebbe finito nell’affresco storico-decorativo accademico, avrebbe perso un po’ della sua anima, o si sarebbe perduto tout court nell’impresa? Niente di tutto questo: se i personaggi parlano inglese, lui continua sempre a parlare il Bertolucci, e con L’ultimo imperatore firma insieme uno spettacolo magnifico e un film totalmente personale. Una delle chiavi della sua riuscita è che, malgrado le tante comparse, L’ultimo imperatore rimane un’opera intimista. Anzi, il film riposa su una doppia intimità: la prima, immediata, indispensabile e assai commovente, quella di Bertolucci con la figura di Pu Yi; la seconda, quella dello stesso Pu Yi con le persone, poche tutto sommato, che hanno condiviso questo o quel periodo della sua esistenza. (Questa solitudine forzata e sempre più sentita è d’altronde in gran parte il soggetto del film).
L’ultimo imperatore appare come la generalizzazione, l’estensione a un’intera vita, di un trauma iniziale, originario, eminentemente bertolucciano: la separazione del bambino da sua madre (vedi, tra l’altro, La Luna). Questa prima esperienza dello svezzamento dà luogo a una bellissima scena dove il giovane Pu Yi, in un momento di angoscia, slaccia il corpetto della balia, ne cerca il seno e vi si abbandona. Così come l’adolescente eroinomane della Luna, Pu Yi è destinato a vivere sotto il segno della mancanza, di una mancanza permanente, scritta nel più profondo del suo essere e accentuata dalla Storia. Quando Bertolucci dichiara di non essere uno storico ma un narratore di storie, bisogna prenderlo alla lettera. Ciò che lo appassiona nel personaggio di Pu Yi è il movimento perpetuo tra permanenza e mutamento, perennità e cambiamento: perennità di una cultura millennaria, parassitata dai mutamenti della Storia e della cronaca. L’interazione tra perennità e mutamento rimanda alla manifesta fascinazione del regista per le figure del passato. A prescindere del splendore della forma, c’è in lui qualcosa dell’ossessione viscontiana (dal Gattopardo a Gruppo di famiglia in un interno) per gli ultimi rappresentanti di una famiglia, di una casta, di una tradizione, di una cultura.
Conoscevamo il gusto e il talento del cineasta per filmare la bellezza dei corpi e dei décor, il suo culto delle luci sontuose e dei movimenti di macchina iperbrillanti. La Forma bertolucciana è più che elegante: è aristocratica. Una gigantesca felicità del cinema che ci ridà fiducia in certe superproduzioni, quando l’artista è abbastanza bravo, abbastanza astuto, abbastanza innamorato del suo soggetto per evitare di perdercisi ma per ritrovarsi in esso.
Semplificando parecchio, diciamo che la qualità principale del film consiste nell’avere fatto sì che il destino del protagonista si identificasse con quello di una nazione e viceversa. Nella mia critica avevo scritto che Bertolucci era riuscito a fondere due personaggi diversi, anzi opposti, come Giobbe nella Bibbia, cioè l’uomo che precipita dalla potenza e dalla ricchezza nella più abietta miseria, col Candide di Voltaire, cioè l’uomo avventuroso che passa indenne attraverso le più assurde catastrofi. Ora, Giobbe e Candide sono due personaggi emblematici di due situazioni non già politiche e storiche ma umane e naturali. Cosa vogliamo dire con questo? Che in Bertolucci l’espressione registica è stata sorretta da esperienze non soltanto formali. L’esperienza che probabilmente gli ha più giovato nel suo film sulla Cina è quella di avere preso parte sentimentalmente e culturalmente alle vicende politiche italiane. Senza questa partecipazione non ci sarebbe stata così la rinunzia alla storia romanzata come alla parabola psicologica di Pu Yi. Ci troviamo insomma di fronte a un approccio non già ideologico ma esistenziale a un tema storico-politico; cioè il solo approccio possibile alla mutevole e incostante vicenda che ancora oggi va sotto il nome di Storia.
È questo viaggio verso la luce che determina la struttura del film ed è riflesso della gradazione del suo stile. Quando Pu Yi risponde al suo interrogatore e al suo mentore, il direttore della prigione (interpretato, con gustosa ironia, dal vice-ministro della Cultura, Ying Ruocheng), vediamo una versione della sua straordinaria vita. Man mano che a un pezzo di bravura cinematografico ne segue un altro, il film corre il rischio, che non riesce interamente a evitare, di offrire un eccesso di spettacolo. Ma non è, si capisce, mero spettacolo, che, con tutta la sua pompa, finirebbe presto per diventare una tautologia visiva. Quello che abbiamo qui è la familiare strategia di Bertolucci di giocare un’interpretazione contro un’altra, visto che le reminiscenze di Pu Yi sono mediate dal commento del direttore su di esse, e dalla mutevole interpretazione di tali scene da parte dello spettatore stesso. Pu Yi come vittima, allora? Dovremmo sapere ormai che Bertolucci non poteva possedere un punto di vista così riduttivo, e ce ne sono già state importanti indicazioni. Il bambino onnipotente non è avverso alle seduzioni del potere. Quando perfino un grillo striscia fuori dalla sua gabbietta per inchinarsi davanti a lui, non è nulla per lui provare il suo potere imperiale obbligando un eunuco a bere inchiostro.
L’ombra di Freud non è mai lontana dai film di Bertolucci. Essa si aggirava ne Il conformista e sono le cupe ossessioni di quel film che le parti centrali dell’Ultimo imperatore richiamano maggiormente. E la sequenza finale, quando il cittadino Pu Yi torna in visita alla Città Proibita, è sentimentale in modo stupefacente. Lo schematismo perfettamente circolare di questa scena è un’indicazione del fatto che in ultima analisi il film non riesce a risolvere le proprie contraddizioni. Non è la prima volta nel lavoro del regista che le parti non si fondono bene in un intero, anche quando quest’intero è costruito su punti di vista variabili. Però sono magnifiche.
Alla fine della complessa vicenda, una domanda si propone: ma è davvero cambiato Pu Yi? Fin dove si spinge il suo cambiamento? Questi sono i grandi dubbi che sottendono tutto il film; la chiave di volta che sostiene tutta l’architettura di questa opera-cattedrale. Un film fra il reale e l’utopico: Bertolucci voleva raccontare, attraverso la figura di Pu Yi, la storia della Cina nel secolo XIX. Ma certamente, e bene lo si vede dalla struttura dell’Ultimo imperatore, ha pensato che era molto più interessante seguire il destino di una persona sola che non la Storia in se stessa. Se avesse mostrato la Cina mentre il suo protagonista se ne stava in prigione, sarebbe stato come abbandonarlo: il regista aveva invece bisogno del filtro degli occhi di Pu Yi. Fino a che punto, dunque, può cambiare un uomo? Solo attraverso il tentativo di rispondere a questa domanda, dalla risposta impossibile, Bertolucci riesce a proporre un eccezionale antieroe dei tempi moderni, una crisalide che galleggia sulla corrente della Storia e che non affonda mai. Ma accanto all’ultimo imperatore, sempre presente anche quando Pu Yi assurge al trono, c’è un bambino che a soli 3 anni viene incoronato, piangente, davanti a tre mila dignitari e che passa l’infanzia nella prigione dorata del palazzo imperiale: unico riferimento affettivo, in una reggia popolata da un esercito surreale di eunuchi, la giovanissima e fedele balia. Infine, Pu Yi è anche un uomo che si sentirà per la prima volta libero quando potrà finalmente permettersi di andare in bicicletta, ex imperatore divenuto giardiniere, uomo fra gli uomini. Il Drago si è fatto persona.
Avevo seri dubbi prima di vedere una versione di 3 ore e 39 minuti dell’Ultimo imperatore, pensando forse che un film già indolente sarebbe diventato assolutamente e lussuosamente corrotto. Quanto mi sbagliavo. Questo director’s cut è senz’altro un’opera più ricca, più corposa, realizzata secondo il vero ritmo di un’altra epoca e di un’altra cultura. Dieci anni fa la maggior parte dei professionisti avevano sentito che la versione dell’Ultimo imperatore che tutti conosciamo era un buon film; dopotutto stava per vincere ben nove premi Oscar, tra cui quelli per il miglior film e la miglior regia. Ma questa audace nuova versione, uscita qui il 4 dicembre, è un capolavoro; un’epica storica perfettamente modellata che ci aiuta a comprendere in profondità il carattere di Pu Yi, l’ultimo Figlio del Cielo. Tuttavia, fare l’elenco dettagliato delle scene ripristinate mancherebbe il vero punto di questa nuova versione, che è di restituire il ritmo autentico della vita nella Cina imperiale e, così facendo, di rivelarci una ricchezza di ingegno e spettacolo che da lungo tempo non si vedeva sugli schermi.
Bertolucci, chiaramente, ama la Cina. La vede non solo con lo stesso sguardo empatico di Marco Polo, ma anche con gli occhi meravigliati del bambino che ha aperto il buco nero di una gabbietta ammuffita e ci ha trovato un grillo, vissuto per più di mezzo secolo nell’oscurità. Con questo film, si ha veramente l’impressione di librarsi laggiù, in Cina. Per contrasto manca alla versione normale – sia pure montata benissimo e solida sul piano tematico – l’acuta sensualità dell’esperienza in cui la versione lunga ci avvolge come una vecchia giacca favorita. Forse è da quando Coppola presentò la copia restaurata del vecchio Napoléon di Abel Gance che il pubblico non aveva più avuto l’opportunità di condividere una tale festa per tutti i sensi. Così, che importa la questione della lunghezza? Al Pacino mi disse un giorno, a proposito della controversia sulla lunghezza del Padrino II (200 minuti), che il film gli era sempre parso più lungo dopo i famosi tagli, e che quando era più lungo gli era parso paradossalmente molto più breve.
Vedo il grande labirinto, moduli architettonici a forma di H che si ripetono a perdita d’occhio, un cortile dopo l’altro, un padiglione dopo l’altro. In tutto novemilanovecentonovantanove stanze e mezzo, non dieci mila, perché questo numero appartiene all’Imperatore, Figlio del Cielo, Signore dei diecimila anni… Quante volte, durante i sopralluoghi, abbiamo chiesto alle nostre guide cinesi chi avesse disegnato quel padiglione, scolpito quella tartaruga di bronzo, dipinto quella gru. Dopo l’imbarazzo, dopo i sorrisi, le risposte erano più che evasive: Dinastia Ming, 1368-1644, Qing, 1644-1911… L’idea dell’arte come bene collettivo (ma anche come creatività collettiva) e l’indifferenza di fronte all’individuo-artista sono state le più difficili da accettare tra tutte le diversità cinesi e la domanda che mi pongo nelle mie quasi quotidiane visite al set in cui gireremo per le prime dieci settimane di riprese è sempre la stessa, ossessiva: qual è il segreto della Città Proibita?
Città Proibita, sabato 30 agosto 1986 — L’intero pomeriggio è dedicato all’inquadratura più elaborata della settimana: Pu Yi nota un insolito vocio proveniente dalla “città dei suoni” che sta oltre le mura del palazzo. Improvvisa apertura dello spazio: una carrellata lunga 15 metri segue il giovane imperatore dalla penombra della veranda fino al centro del cortile. Come egli si inginocchia, l’orecchio premuto al suolo, la macchina fissata sul dolly lo scavalca a volo radente; una svolta di 180 gradi abbraccia il cielo al di sopra dei tetti di tegole gialle, poi ritorna dall’alto su Johnston, mentre questi esce a sua volta dalla veranda per raggiungere Pu Yi nell’accecante luce meridiana e informarlo della manifestazione degli studenti universitari in cui si è imbattuto la mattina stessa per le strade di Pechino.
L’inginocchiarsi per ascoltare la terra che parla sta molto a cuore a Bernardo; c’era già qualcosa di analogo con il piccolo Olmo in Novecento, ma qui si sovrappone alla triplice prosternazione del “koutou” imposta a tutti i dignitari davanti al Figlio del Cielo, ricorrente nel film. Però non echeggia per primo lo spettacolo di quei ragazzini della campagna emiliana che, solo pochi decenni prima, la domenica di Pasqua, dopo aver baciato tre volte il suolo, porgevano l’orecchio a terra, al modo dei pellerossa nei western di John Ford, per sentire le vibrazioni di tutte le campane della Bassa slegate in contemporanea? La poesia, è stato detto, consiste fra l’altro nella ricerca di certe segrete immagini sepolte in fondo alla memoria. Così, nel presente, il poeta non farebbe che riprodurre in altra forma le emozioni più intime dell’infanzia.
La Cina ha attraversato un buon numero di sconvolgimenti politici negli ultimi vent’anni, e i termini sinistra e destra sono diventati piuttosto nebulosi. Affibbiare a qualcuno l’etichetta di sinistra o destra non è molto importante per i cinesi. Non molta gente in Cina sa che Bertolucci proviene da una tradizione di sinistra. La sua reputazione nel nostro paese è fondamentalmente quella di un eminente regista. Non basiamo il nostro giudizio semplicemente sul fatto che è iscritto al Pci. Non ci aspettiamo da lui della propaganda, né pro né contro qualcosa. Il progetto dell’Ultimo imperatore non è stato approvato perché Bertolucci è di sinistra. Questo fatto non ha giocato alcun ruolo nelle nostre decisioni. Durante la fase preparatoria io ho avuto diverse conversazioni con Bernardo, così avevo una qualche idea di quello che lui aveva in mente. Per esempio, abbiamo parlato del fatto che Pu Yi passò tutta la sua vita senza una figura paterna. Anche Johnston, il tutore scozzese che fu così importante per il suo sviluppo, lo lasciò per conto suo in un momento cruciale. Più in là nella vita, Pu Yi incontrò il suo “rieducatore”, il direttore del penitenziario, che io interpreto, e che assunse più o meno il ruolo di un padre.
Girare dentro la Città Proibita era un compito difficilissimo. Abbiamo dovuto costruire la maggior parte degli interni in teatri di posa, perché nel Palazzo Imperiale non ci hanno lasciato filmare nessuno degli interni. Abbiamo filmato i cortili e la Sala del Trono, ma ci hanno permesso di entrarci solo per mezza giornata, con un pugno di tecnici e senza la minima illuminazione. I proiettori erano proibiti a causa dei rischi d’incendio. È la scena in cui il bambino viene incoronato, poi esce attraverso una cortina gialla che si apre diventando un baldacchino. Usare quella cortina era l’unica maniera in cui potevamo ottenere un po’ di luce all’interno e riuscire ancora a mantenere una certa separazione dal mondo esterno. Mi pare sia stata l’unica scena in cui abbiamo filmato un interno nella Città Proibita. Il resto è stato girato negli Studi di Pechino, meno la Camera Rossa [la camera nuziale] che è stata rifatta a Cinecittà.
Ciò detto, in realtà gli interni della Città Proibita sono piuttosto deludenti, se cercate grandezza e magnificenza: sono più piccole di quanto uno si aspetti e quasi tutte le stanze sono minuscole. Non davano proprio l’idea della vita di quel ragazzo in uno spazio immenso. Perciò ho praticamente ho ridisegnato e reinventato un bel po’ degli spazi. Ho girato per la Cina cercando di vedere quanto più potevo dell’architettura Qing. Due fratelli minori dell’imperatore [erano] ancora vivi a Pechino; uno di loro aveva fatto l’insegnante. Erano molto anziani, ma avevano ancora una buona memoria. Ci hanno raccontato un sacco di dettagli. Avevano pure un album di vecchie fotografie. Era assolutamente meraviglioso guardare alle immagini autentiche di Pu Yi e dei suoi familiari.