Paul — Santa Famiglia, inviolabile creazione divina, chiamata a educare i selvaggi alla virtù! Ripeti con me: santa famiglia, sacrario di tutti i valori… Ripeti! Dove bambini innocenti sono torturati finché non hanno detto la prima bugia… dove la volontà è infrancata dall’autoritarismo e dalla repressione… dove la coscienza è uccisa da ciechi egoismi. Famiglia, tu sei il covo di tutti i vizi sociali.
Paul, un americano maturo quanto tenebroso, naufragato da anni a Parigi, incontra per caso la giovane Jeanne in un appartamento vuoto messo in affitto, dove improvvisamente si ritrovano a fare l’amore per terra, senza preamboli. Senza sapere nulla l’uno dell’altra, di comune accordo si ritroveranno nello stesso luogo per tre giorni consecutivi. Nel frattempo scopriremo che la moglie francese di Paul si è suicidata la notte precedente nell’albergo a ore del quale era proprietaria.
Jeanne, invece, vive ancora dalla madre, vedova di un colonnello caduto in Algeria, ed è la protagonista di un ritratto televisivo in stile cinéma-vérité girato in quei giorni dal fidanzato Tom. A mano a mano che gli amplessi tra i due amanti anonimi si ripetono, Paul sembra innamorarsi di Jeanne, proponendole di sposarla proprio quando la giovane donna decide di rompere la loro breve relazione.
Dopo una sbornia in una balera dove si svolge un concorso di tango, lui la rincorre per strada, fino a forzare la porta di casa sua. Lì, lei tira fuori la vecchia pistola del padre e gli spara a bruciapelo. Sotto choc, pronuncia poi a bassa voce le parole che ripeterà alla polizia: “Era un pazzo, voleva violentarmi, ho dovuto difendermi, non conosco il suo nome. Era un pazzo…”
Credits
Bernardo Bertolucci
Bernardo Bertolucci e Franco Arcalli, con la collaborazione iniziale di Giuseppe Bertolucci [n.a.], Alberto Moravia [n.a.] (intervista “matrimonio pop”), da un soggetto di Bernardo Bertolucci; collaborazione ai dialoghi Agnès Varda (versione francese della sceneggiatura), Jean-Louis Trintignant [n.a.], Marlon Brando [n.a.]
(Technicolor, 35mm, 1,66:1) Vittorio Storaro; operatore Enrico Umetelli, con Mauro Marchetti
Ferdinando Scarfiotti, con Philippe Turlure; arredamento Maria Paola Maino
Gitt Magrini
Franco Arcalli, Roberto Perpignani, con Gabriella Cristiani, Elvio Sordoni
Gato Barbieri (orchestra diretta da Oliver Nelson)
(mono, in presa diretta) Antoine Bonfanti; missaggio Fausto Ancillai
Fernand Moszkowicz, con Jean-David Lefèvre, Franco Arcalli [n.a.]
Suzanne Durrenberger
Angelo Novi
I dipinti Portrait of Lucian Freud e Study for a Portrait of Isabel Rawsthorne di Francis Bacon
Marlon Brando (Paul), Maria Schneider (Jeanne), Jean-Pierre Léaud (Tom), Catherine Allégret (donna delle pulizie), Veronica Lazar [n.a.] (Rosa), Maria Michi (madre di Rosa), Gitt Magrini (madre di Jeanne), Luce Marquand (Olympia, la tata), Massimo Girotti (Marcel), Darling Legitimus (concierge), Giovanna Galletti (prostituta), Armand Abplanalp (cliente della prostituta), Iole Cecchini [n.a.] (residente dell’albergo), Mauro Marchetti (cameraman tv), Catherine Sola (script girl tv), Dan Diament (fonico tv), Catherine Breillat e Marie-Hélène Breillat (Monique e Mouchette, costumiste tv), Peter Schommer (aiuto regista tv), Rachel Kesterber (Christine), Gérard Lepennec, Stephan Kosiak (facchini), Mimi Pinson (presidentessa della giuria al concorso di ballo), Ramón Mendizábal (direttore d’orchestra); nelle scene eliminate dal montaggio finale Michel Delahaye (venditore di Bibbie), Laura Betti (Miss Blandish, residente dell’albergo), Jean-Luc Bideau (capitano della chiatta), Franca Sciutto, Gianni Pulone (passante)
Alberto Grimaldi per la PEA [Produzioni Europee Associate] / Artistes Associés (Parigi); direttori di produzione Mario Di Biase, Gérard Crosnier; organizzazione generale Enzo Provenzale
PEA
126′
Parigi (Pont de Bir-Hakeim, rue de l’Alboni, perimetro del Champ de Mars, esterni Gare d’Orsay, chiusa del Canal Saint-Martin, impasse d’Odessa, Salle Wagram, Champs-Elysées, rue Vavin); gennaio-aprile 1972
15 dicembre 1972
CSC – Cineteca Nazionale, 2018
Come mai una modesta coproduzione italo-francese sul dramma della solitudine (Brando costava poco allora, essendo ancora sotto contratto con il produttore di Queimada, Alberto Grimaldi, mentre la sua partner era una débutante ancora sconosciuta) diventò subito in tutto il mondo un fenomeno di società, la cui pellicola verrà condannata alla distruzione fisica e lo stesso regista privato dei diritti civili per cinque anni?
Per capirlo bisogna rituffarsi nel clima trasgressivo del dopo ’68, sia sul piano estetico che su quello politico, considerando Ultimo tango a Parigi anzitutto come uno degli attacchi più violenti mai realizzati contro l’ordine borghese e i rapporti di forza all’interno della coppia. Al tempo stesso, portò al grande pubblico un’opera di rottura intensissima, integrante non solo lo spirito della nouvelle vague e lo sperimentalismo a 360 gradi di Partner, ma anche la lezione del cinema underground di Andy Warhol o di Shirley Clark. In altre parole, un’opera concepita per pochi, e creduta tale, venne vista da tutti.
Le polemiche torneranno al centro dell’attenzione negli anni 2000 quando i social, con non pochi malintesi e inesattezze, condanneranno irrevocabilmente Bertolucci e Brando per il metodo con cui, complici sul set, lasciarono la diciannovenne Maria Schneider all’oscuro della decisione di improvvisare parzialmente la scena del film destinata a diventare la più celebre e discussa. [F.G.]
Ultimo tango a Parigi contiene luoghi scabrosi e forse un poco temerari, e molto spregiudicato è il dialogo, ma il pubblico maturo, già qui alla serata di chiusura del Festival di Nuova York, è aiutato a superare lo choc (sempre in rapporto alla malizia dello spettatore) dalle ragioni poetiche che danno vita a echi profondamente suggestivi all’amore senza freni fra Paul e Jeanne, gli eroi di quella che si appresta a restare una delle più memorabili tragedie dello schermo.
La maggiore virtù del regista italiano sta però, e il pubblico in sala lo ha capito bene, nel fondere temi e motivi di disparate provenienza in uno struggente sentimento del vivere contemporaneo e della dissonanza che esso comporta. Insieme a tante altre cose, e sempre felicemente infischiandosi d’ogni giudizio moralistico, il film è un prodotto intelligente e sensibile del cinema esistenzialistico che vuole esprimere la difficoltà di uscire dall’isolamento cui ci ha condotti la civiltà e di riacquistare la verità naturale.
La prima di Ultimo Tango a Parigi ha avuto luogo in chiusura del New York Film Festival, il 14 ottobre 1972. Questa data dovrebbe diventare una pietra miliare nella storia del cinema, paragonabile — nella storia della musica — a quella serata del 29 maggio 1913 in cui fu eseguito per la prima volta Le Sacre du printemps. Nessuno ha fatto a botte né nulla è stato scagliato in direzione dello schermo, ma mi pare giusto precisare che il pubblico era in stato di choc, perché Ultimo tango possiede la stessa specie di eccitazione ipnotica del Sacre, la stessa forza primitiva, lo stesso erotismo penetrante e imperioso. Di sicuro è il più potente film erotico mai realizzato, e potrebbe diventare anche il film più liberatorio che ci sia. Bertolucci e Brando hanno modificato i lineamenti di una forma artistica.
Bertolucci costruisce una struttura che supporta l’improvvisazione. Tutto è preparato, ma tutto è soggetto a cambiamenti, e quindi l’opera “vive”, con un senso di scoperta. Bertolucci costruisce i suoi personaggi “su ciò che gli attori sono veramente, dentro di loro, senza mai chiedere loro di interpretare qualcosa di preesistente, tranne i dialoghi, che comunque cambiano molto anche essi”.
L’interpretazione di Brando è qui la rivelazione di quanto il lavoro di un attore cinematografico può essere creativo. Su un piano più semplice, Brando, con le sue inflessioni e i suoi ritmi, le giuste oscenità americane, e forse un monologo, fa suoi i dialoghi, e fa di Paul un autentico americano all’estero in un modo che un autore italiano semplicemente non poteva inventare da solo. Su un piano più complesso, aiuta Bertolucci a scoprire il film via via che le riprese vanno avanti, e questo è ciò che fa del cinema una forma di arte.
Ho cercato di descrivere l’impatto di un film che ha lasciato in me l’impressione più forte in quasi vent’anni di carriera. Ultimo tango è una pellicola di cui la gente continuerà a dibattere, credo, finché esisteranno i film.
Pure, nel discorso di Bertolucci, che parrebbe qui indicare attorno a sé un perimetro esistenziale abbastanza rigido, vibra il riflesso non secondario del suo impegno politico, si avverte l’eco sottile, pressante, della società e della Storia. La morte è, in Ultimo tango, così come la frenesia sessuale che le fa da battistrada, un’estrema fuga dalla vita borghese, e insieme il suo necessario approdo. Mentre accoglie, criticamente filtrata, la lezione dei maestri del decadentismo e dell’erotismo, il regista esprime dunque il fascino e l’intollerabilità, a un tempo, di tutta una cultura, rappresentazione della morte e della vita borghese. Donde la mancanza, nel film, di ogni esteriore compiacimento, la misura severa e perfino solenne del suo stile, come di un rito espiatorio e liberatorio.
Visceralmente unito ai suoi personaggi, l’autore li guarda tuttavia quasi fossero ombre, incubi, spettri domestici da esorcizzare. Questo aspetto fantomatico della realtà è motivo ricorrente, ma raggiunge il suo più alto significato e splendore formale nella straordinaria scena del ballo, con quelle assurde coppie, quasi di manichini o fantocci, allacciate sull’orlo di un abisso invisibile: angoscioso contorno e riscontro al procedere del dramma di Paul e Jeanne verso la catastrofe.
Bertolucci comincia con il costruire sotto i nostri occhi le porte chiuse del vuoto e dell’anonimato. Poi, attraverso scivolate e slittamenti della macchina da presa, ci trasporta nella vita privata di Paul, quindi nel suo passato e nella sua identità. Comprendere qualcuno è risalire indietro lungo il suo passato. Idem per Jeanne, la partner di Paul nell’appartamento dei giochi. Ma per lei, nessun mistero: buona borghesia perfettamente francese, tradizioni e pregiudizi fatti su misura. Famiglia, luoghi, oggetti: si risale indietro senza problemi, tutto è ben definito. Il passato di lui è più drammatico. Bertolucci moltiplica le zone d’ombra. Dell’iceberg Paul vediamo soltanto la parte emersa. Un’amarezza violenta, una disperazione che riconosce ormai come unica verità soltanto quella della sensazione presente, e che la sua rivolta intima veste dei panni della ribellione contro le strutture sociali: famiglia, esercito, morale, Dio, la Chiesa.
Altro tema caro a Bertolucci. Il rifiuto romantico prende qui le fattezze della vertigine sessuale, accompagnata dal ghigno nichilista e dalla provocazione distruttiva. Jeanne vacilla sul bordo dell’abisso. Ma senza cadere. Il fidanzato amoroso, piccolo pseudo-Godard della televisione, senza attrattive visibili, avrà l’ultima parola.
Vittoria dell’ordine, cioè del sentimento rassicurante. E dell’idea, non meno rassicurante, che il presente è un punto, il passaggio del passato all’avvenire. L’ordine è anche questo. La memoria ritorna in forze. L’ordine vuole pure che ogni uomo abbia un’identità. Un nome. Condanna del vuoto e dell’anonimato, fine della libertà assoluta.
Con Ultimo tango si entra in quel cinema di grande profanità, fuor delle zone balneari, che esige un approccio critico difficilmente contenibile nei limiti di una rubrica: merita il saggio, non l’articolo. Ho in mente una mezza dozzina di recensioni “possibili” e non so quale scegliere…
Vi faremmo torto grave, Signori della Censura, se pensassimo che non sapete di dove provenga la materia prima utilizzata dal Bertolucci nel suo film. Basta una minima infarinatura di giardinaggio culturale per rendersi conto che esso non è certo un estremo fiore del Decadentismo, con plausibili radici in quel prezioso e torbido terreno caro ai maestri di poesia della statura di un Baudelaire o di un D’Annunzio. No: Ultimo tango a Parigi utilizza gli scarti degli scarti degli scarti degli orecchiatori di Baudelaire e D’Annunzio, che furono, com’è noto, innumerevoli.
Signori, Ultimo tango a Parigi, e gli altri tanghi, valzer e fox-trot che sicuramente lo seguiranno, sono film perniciosi. La nostra bella gioventù, tanto impressionabile e ricettiva, rischia di essere traviata per sempre, indotta a credere che il sesso debba necessariamente essere condito di sciocchezze à la Bertolucci. Vi invitiamo a una maggiore oculatezza e vi proponiamo di sforbiciare senza pietà, la prossima volta che si porrà il caso, non già quelli innocenti 8, 25 o 73 secondi, ma tutti gli altri secondi, che col sesso non hanno niente a che vedere. Sono quelli, soltanto quelli, che fanno del male ai minori di 18 anni.
Ora, a sei mesi di distanza, il film è storia, possiede la tangibilità di ciò che è storico; comunque qualcosa che è possibile constatare è già accaduto all’umanità a causa di esso, o almeno agli spettatori riuniti [al Festival di New York, il 14 ottobre scorso]. Se la nostra Lady Aceto, Pauline Kael, ha avuto una liberazione sessuale con Tango, la sua libido non è sola; anche il pubblico ha avuto I suoi brividi nel vedere i famosi attori inghiottire il loro moccio. (La liberazione, per la Maggioranza Silenziosa, può essere non tanto nell’assistere a una chiavata quanto nell’ascoltare barzellette sporche).
Così il vero brivido di Tango, per il pubblico da 5 dollari a biglietto, diventa la visione di Brando attraverso il buco della serratura che Brando stesso ci mostra. Sono tutti qui riuniti per udire un attore di fama mondiale che, in risposta a “Perché hai una lingua così rossa?”, dice: “Per infilartela dentro meglio”. Pandemonio di divertimento in sala. Chi mai vuole assistere a un atto d’amore quando è tornato lo spettro di Lenny Bruce? La gioia della folla è che una celebrità sia diventata oscena sullo schermo. Una sbirciatina privata ai grandi diventa l’alchimia dei mass media, il similoro del secolo delle comunicazioni. Fa parte del genio di Brando l’aver capito che il vero interesse del pubblico non è volere che egli rappresenti i momenti teneri e le micidiali tempeste di una sregolata passione fra uomo e donna; è volere che egli mostri i suoi personali ghiribizzi.
“La parola moderna per il concetto greco di fato è l’inconscio”, ha detto Bertolucci. E da questo inconscio emerse una figura della mitologia antica che avrebbe strutturato il film in modo estremamente coerente, senza togliere niente alla grandissima libertà d’improvvisazione degli interpreti. Infatti, un ricco intreccio di allusioni al mito di Orfeo, rivisitato in chiave moderna, permea l’opera dall’inizio alla fine.
Dapprima vediamo Paul; poi Jeanne, che lo raggiunge e lo sorpassa. A quel punto la macchina da presa lega in una panoramica il ponte e il fiume: l’enfasi cade sull’azione di attraversare il fiume (nella mitologia greca l’attraversamento dello Stige prelude all’Ade). Jeanne così precede Paul al quai de Passy, nome la cui etimologia costituisce un’altra allusione alla morte: Passy — passaggio — trapassare. Inoltre, la macchina da presa ce lo mostra da un’angolazione specifica sottolineando la forma cavernosa e arcuata del ponte.
Dopodiché seguono brevi inquadrature di poliziotti in crocchio che paiono sorvegliare l’argine opposto, in ciò che [sembra] un’allusione a un’altra famosa interpretazione del mito di Orfeo: l’Orphée (1950) di Jean Cocteau, nel quale già la polizia francese, in uniforme, vigilava il regno della Morte.
Appena varcato il portale del palazzo dove c’è l’appartamento in affitto, Jeanne s’imbatte nella sinistra figura di una concierge africana che la investe con voce rauca. Prima nega l’esistenza di un appartamento vacante; poi, stando dentro la portineria, produce suo malgrado il doppione delle chiavi, lo tende a Jeanne, le afferra la mano, la tiene prigioniera per alcuni angoscianti secondi, scatenandosi in una risata isterica. Secondo il mito, le Furie presiedono il vestibolo dell’Ade; chiuse in gabbie si scagliano contro chiunque arrivi. Rinveniamo figure malefiche analoghe nell’Orfeo negro (1959) di Marcel Camus e nella Discesa di Orfeo di Tennessee Williams, trasposto quest’ultimo nel magnifico Pelle di serpente (1959) di Sidney Lumet, con Anna Magnani e… Marlon Brando.
Un’altra scena era del tutto improvvisata, e Marlon in quel momento era completamente nudo. Caricai la macchina da presa con 900 piedi di pellicola, perché non avevo idea di quanto sarebbe durata. La facemmo in un’unica ripresa e quando fu finita Marlon mi guardò in maniera assai strana. Ebbi l’impressione che forse il giorno dopo non si sarebbe presentato sul set. Ma sapevo che se fosse tornato sarebbe rimasto fino a quando il film non fosse stato completato. Credo abbia provato l’intenso orrore — e il fascino — dell’intrusione nella sua intimità.
Ero partito dall’idea di fare un film su una coppia, e invece ho fatto un film su due solitudini. Esattamente dal momento in cui Maria sorpassa Marlon per strada e si volta a guardarlo, ho capito che ognuno dei due era condannato alla solitudine. Anche nelle loro scene insieme, sono sempre una più uno, mai due. E la scena che più parla di questa solitudine è quella in cui Maria si masturba e Marlon va nell’altra stanza e piange. Piange perché in quel momento è sincero su se stesso; capisce che sta cercando di trovare nel sesso un’innocenza perduta — soprattutto, di trovare mediante il sesso una relazione ideale. In quel momento, capisce che è una cosa impossibile…
La battaglia di Ultimo tango ha contribuito ad allargare le maglie della censura e a far vergognare i censori.
Scrissi io con Kim Arcalli una prima stesura di Novecento, che era un film pensato per la televisione, e quando già scrivevamo da qualche mese mi è venuta l’idea di Ultimo tango, su cui prima abbiamo lavorato io e Kim, poi solo lui e Bernardo. Era una cosa molto diversa da come è risultato; Bernardo pensava a un piccolo film girato a Milano, senza attori noti, poi, con l’arrivo di Brando, è cambiato tutto, ma l’idea era quella della ragazza con due storie, il cinéphile e l’uomo più anziano. Il personaggio dell’anziano aveva degli elementi della biografia di Kim, anarchico, tipografo, padre partigiano. Ultimo tango è il film in cui Kim, come sceneggiatore, ha probabilmente dato di più.
In genere gli attori devono adattarsi alla storia così come viene scritta dallo sceneggiatore e devono dare vita ai personaggi da lui creati, ma in Ultimo Tango Bernardo costruì una trama su misura per gli attori del film. Mi chiese di interpretare me stesso, di improvvisare i dialoghi e di rappresentare Paul come se mi vedessi riflesso in uno specchio. Dato che non parlava bene l’inglese e non conosceva affatto lo slang americano, volle che fossi io a scrivere praticamente tutte le mie scene e i dialoghi e fra noi comunicavamo in francese o a segni. Inventai i dialoghi basandomi sui miei ricordi, anche se non tutto si era verificato esattamente in quei termini e con la stessa sequenza. Per esempio, mio padre non mi aveva mai ordinato di mungere una mucca prima di andare a un appuntamento, ma quando uscivo con una ragazza mi sentivo molto umiliato pensando che le mie galosce potessero puzzare.
Durante la lavorazione del film ricordo di aver vissuto una delle esperienze più imbarazzanti della mia carriera. La cinepresa doveva riprendermi di fronte, completamente nudo nell’appartamento, ma quel giorno faceva talmente freddo che il mio pene si ridusse alla grandezza di una nocciolina, e la situazione venne ulteriormente peggiorata dalla tensione, dall’imbarazzo e dallo stress. Naturalmente non mi era possibile interpretare la scena in quel modo, quindi cominciai a camminare avanti e indietro nell’appartamento, nudo come un verme, sperando che accadesse un miracolo. Ho sempre creduto fermamente nel potere della mente sulla materia e mi concentrai sui genitali cercando di costringere il mio pene e i miei testicoli a tornare alle dimensioni normali; mi misi anche a parlargli, ma in quell’occasione la mente mi tradì. Mi sentivo umiliato ma non ero ancora disposto ad arrendermi. Chiesi a Bernardo di pazientare e spiegai alla troupe che non avevo ancora perso tutte le speranze. Dopo un’ora, dall’espressione dei loro volti capii che erano loro ad aver perso le speranze su si me. Dato che non era proprio possibile girare la scena in quelle condizioni, venne deciso di tagliarla.
Per un’attrice ancora agli inizi, com’ero io, era un sogno lavorare con Brando. Veniva dritto dalle riprese del Padrino, che poi fece parte del suo “comeback”, ma non cercava mai di avere la meglio in ogni scena, anzi mi dava il vantaggio, mi forniva il materiale su cui lavorare. Ed era brillante quando improvvisavamo. Fu il primo a dirmi del lato negativo della celebrità, di come la stampa è capace di saltare su qualsiasi cosa purché possa uscirne un pezzo clamoroso.
Dopo l’uscita di Tango, nelle interviste ho cominciato a dire cose scandalose, pensando che fossero divertenti. Dicevo di uscire sia con uomini che donne, mostrandomi promiscua, non prendevo la cosa sul serio. Ora mi accorgo che non era affatto un gioco.
Finito Il conformista c’è stato un attimo di crisi; mi chiedevo: cosa può esserci dopo l’“azzurro”? Non avevo la più pallida idea che potesse nascere un film “arancio”, non potevo davvero immaginarlo. C’è voluta un’altra emozione, un altro tipo di coinvolgimento in un’altra storia che sviluppasse un altro colore nella mia volta o nella nostra. È stato il caso, per l’appunto, di Ultimo tango.
Bertolucci è un cineasta con una personalità particolare. Il modo di girare un film è per Bernardo un fatto personale; la maniera di muovere la macchina da presa diventa così un fatto quasi viscerale, un bisogno fisico, oltre che intellettuale, di girare le sequenze con quella particolare angolazione. Con un regista come lui subentra immediatamente, almeno per ciò che mi riguarda, una forma di sincronia. Io cerco di esprimermi attraverso la luce, Bernardo mediante la cinepresa; così non c’è mai conflitto ma sintonia.
Se ho rifiutato Ultimo tango a Parigi, è esclusivamente per una ragione di pudore fisico. Altrimenti il ruolo mi piaceva molto. All’inizio ho perfino lavorato alla scrittura della sceneggiatura con Bertolucci. Sapevo che era troppo difficile per me. Non avrei mai osato essere impudico durante le riprese, e Bernardo non avrebbe mai potuto fare il film così come lo aveva in mente. Gli volevo troppo bene per ostacolarne l’ispirazione. Alla fine il ruolo andò a Marlon Brando, che conoscevo un po’ perché mio cognato, Christian Marquand, da anni era un suo grande amico.