In occasione dell’anniversario della nascita di Attilio Bertolucci celebriamo Fuochi in novembre, la sua seconda raccolta di poesie, con un articolo dello scrittore e saggista parmense Paolo Lagazzi. La raccolta, che propose un modello evocativo alternativo alla poetica “pura” ed ermetica del secondo Ungaretti, celebra proprio quest’anno i novant’anni dalla sua uscita.

Attilio Bertolucci e Paolo Lagazzi, 1993 (Ph. Carlo Cerchioli) 

 

Nei “Fuochi” di Bertolucci la vita che rinasce di Paolo Lagazzi

La difficoltà di mantenersi leggeri di fronte alla marea montante della pesantezza ideologica, psichica e storica è nel Novecento quasi un topos, un‘evidenza che non ha bisogno di prove. È commovente tuttavia scoprire che nel cuore cupo della disperazione, tra i vortici della violenza e del nichilismo, resistono soffi quieti e freschi, scintille di una luce irradiante dalla terra al cielo, segni di qualcosa che dura nel fondo dell’essere: il miracolo della leggerezza, la trasfigurazione del peso nella grazia, dono di chissà chi, ghirigoro lucente dell’impossibile.

Due tra i frutti più delicati, icastici e radiosi dello spirito della leggerezza nella scena poetica italiana del Novecento sono le raccolte d’esordio di Attilio Bertolucci Sirio e Fuochi in novembre. Specialmente la seconda, apparsa nel 1934 (quest’anno, dunque, ne ricorre il novantesimo anniversario), è un libro lustro e screziato come un mosaico, un arabesco o una sequela di figure da lanterna magica, eppure mai sigillato in un puro gioco da esteti, in un intarsio preziosistico, in un’eleganza astratta. La leggerezza è anzitutto, per il giovane poeta, un’irresistibile propensione alla rêverie, un gusto d’immagini colorate, sognanti e “musicali” che, se da un lato gli permette di muoversi (un po’ come Govoni) quasi danzando, libero dai risucchi opachi del reale, dall’altro lo spinge a porsi in ascolto del “rumore” della vita nel suo battito profondo, seminale e incessante. Rispetto alla severa e spesso tortuosa idea lirica — infarcita di simboli o analogie, vibrante di oscure allusioni orfiche — dell’ermetismo in via d’affermarsi negli stessi anni, la lingua di Fuochi in novembre brilla per la freschezza, per la grazia mai manieristica o leziosa, per il piacere terso e vagabondo delle immagini in transito come nuvole, uccelli, farfalle, onde, bagliori, tremori.

Eugenio Montale, in una celebre recensione apparsa su “Pan” in quello stesso 1934, colse subito la novità di quell’ariosa e fiammante raccolta, la sua distanza dai canoni del post-simbolismo allora imperante, pur leggendola in modo sornionamente riduttivo («Voce piccola la sua, di tenor comico, ma di bel suono»); più tardi Luzi avrebbe scritto che la «grazia» di Bertolucci era ormai «un piccolo proverbio».

Per cogliere il senso vero di quella libertà e leggerezza, rileggendo oggi Fuochi in novembre non possiamo più ridurne la portata a un esperimento originale ma limitato come una miniatura, un teatrino o un grazioso merletto. Nelle sue mobili e iridescenti partiture, nel contrappunto delle sue figure tese a mostrarci il mondo come una sorta di perpetuo ossimoro, nel suo fluttuare tra sogni e risvegli, tra una quieta ebbrezza e attimi increspati e cangianti come le piume del «multicolore uccello del vento», nel suo ondeggiare tra dolcezze domestiche, striature d’ansia e vertigini amorose, nel suo pulsare tra un tempo frusciante come i grani di sabbia in una clessidra e quelle pause di silenzio in cui il tempo pare sospendersi, nel suo veleggiare fra estasi e struggimenti, tra chiarezza e mistero, Fuochi in novembre ci mostra come un grande poeta moderno, rifiutando la via mentale dei simboli e il grigiore del realismo, possa scavarsi una nicchia di felicità e bellezza all’interno della vita e delle sue prove infinite.

La grazia nei versi del giovane Bertolucci non è solo la piega ‘liberty” o surreale di un gusto nutrito d’amore per la pittura: è una pulsione di carattere sacrale (non è un caso che il poeta sia nato e cresciuto a Parma, la città dei due maestri supremi della grazia rinascimentale, il Correggio e il Parmigianino): è la capacità di cogliere la perennità della vita, la sua natura miracolosa, la sua forza di rigenerarsi attraverso e oltre le impasse, le ferite, le notti d’insonnia o i sussulti del cuore (“Convalescente”: «Ancora vita il tuo dolce rumore / dopo giorni bui e muti riprende…»); è la limpidezza di uno spirito in grado di riconoscere le occasioni, le soglie, i passaggi in cui la sofferenza si trasfigura in dolcezza, in cui l’ombra si decanta in luce.

Nella poesia più intimamente “cristiana” della raccolta, “Ginestre” il fiore per eccellenza leopardiano — emblema altamente creaturale della solitudine, della povertà in cui vivono i giovani abitanti delle terre dell’Appennino — deve proprio alla sua modestia un alone diverso di bellezza. La sua umiliazione è un dono, è quella grazia che Cristo ha rivelato come lo splendore dei piccoli: «Gioventù sacrificata / delle ginestre, / grama e splendente / per le pendici d’Appennino. / Vento e luce / ti nutrono. / Solitudine t’adorna.»

L’Avvenire, 08/10/2024