di Enzo Siciliano
Ci sono due anime di Bertolucci, due anime non discordi ma di segno diverso. Quella dell’autore di grandi affreschi evocativi di storia, Il conformista, Novecento, L’ultimo imperatore; e quella di un sensibilissimo poeta della crisi dell’io, Partner, Ultimo tango a Parigi, Il tè nel deserto.
Queste due anime si esprimono poi in un unico stile, una fluida movenza narrativa, talvolta trepida, esitante di fronte ai propri oggetti, così trepida da farci avvertiti del rischio di osservarli; talvolta rapinosa, e di tale evidenza da spingerci verso i paesaggi liberi dell’epica. Bertolucci ama Verdi, lo sappiamo; ma, se c’è un musicista cui la sua sensibilità, il suo stile mi fanno pensare, è Richard Strauss, le vaste campiture coloristiche, lo spazio sprofondato dei suoni, e insieme la sinuosità, la delicatezza dei dettagli che irrompono in primo piano così da determinare l’andamento di un ricchissimo e articolato strumentale.
Il tè nel deserto prende le mosse da un romanzo di Paul Bowles. C’è l’America di questo secondo dopoguerra, con la sua crisi latente ma crudele. Kit e Port, sposi da dieci anni, lasciano New York (magnifica la New York in bianco e nero che scorre sotto i titoli di testa) per il Marocco; con loro è un amico, Tunner, innamorato di Kit; insieme partiranno per il Sahara, in cerca di qualcosa che via via sfugge loro, e forse è lo stesso rimorso d’essere vivi, se Port si lascia morire di tifo, e Kit, disperata, si abbandona al nulla che il deserto le suggerisce. Kit si perde per una volontà tanto accanita quanto addolcita dalla malìa lieve, impalpabile, delle malattie dell’anima. Tunner la cercherà: lei gli sfuggirà con una mossa caparbia, suicida.
Bowles aveva raccontato la crisi dei rapporti amorosi, filtrandone la disfatta attraverso echi non dissimulati del Fitzgerald di Tenera è la notte. Il rapporto amoroso, per Bowles (che Bertolucci ha chiamato sullo schermo come testimone sapienziale dell’agire dei propri personaggi), non ha alcuna soluzione: è un confronto luttuoso, insensato. Bertolucci a suo modo va più in là, e sullo schermo proietta l’immagine di uno spavento cui non c’è rimedio, lo spavento che proviamo di fronte allo svelarsi di quella parte di noi che si fa arbitra del nostro stesso destino, e poi ci divora, ci annienta, ci distrugge.
C’è un momento in cui Kit e Port fanno l’amore su una rupe spalancata davanti al deserto, sono come sull’orlo dell’infinito: c’è lo spazio e non c’è il cielo, quel cielo che dovrebbe proteggerli, salvarli. L’amplesso stesso si arresta: è come se l’ombra del loro cuore dilagasse nella natura. L’amore che dovrebbe legarli non supera il limite dell’io di ciascuno di loro. Il viaggio in Africa è forse un naufragio dell’esotismo? Se Kit, Port e Tunner erano partiti da New York per sfuggire alle proprie angosce, accertano che il Sahara le mette a nudo ancora più ferocemente, fino a lasciar svanire la concretezza della loro persona. Mai, forse, in un film, un paesaggio è stato visto con altrettanta trainante foga interiore.
Ci sono film memorabili per il loro stile. Altri lo sono per la pienezza del sentimento di cui lo stile si anima. Il tè nel deserto è uno di questi. Non solo è per me — ripeto: per me — il più bel film di Bertolucci, ma anche uno dei più commossi e struggenti di tutta la storia del cinema. L’emozione si incarna in John Malkovich, un Port nobilissimo nei tratti, il corpo pieno di una forza compressa e straziata: c’è in lui la violenza di un Dioniso che fa oltraggio a se stesso. Debra Winger, i mutamenti fisici con cui ha reso romanzesca la sua Kit, è l’Arianna che patisce la folgore da cui il suo mito è cancellato, e quindi iscritto nei segni dolori, difficili dell’esistenza.
[in Enzo Siciliano, Cinema & Film. Cronaca di un amore contrastato, Rizzoli 1999]