di Gabriella Palli Baroni

 

Ho incontrato Casarola nella poesia di Attilio Bertolucci e tale rimane per me, fermata nel tempo assoluto ed eterno dei suoi versi. L’emozione intensa che mi ha colto, quando vi giunsi per la prima volta, fu l’emozione di chi sentiva dolore per l’assenza del poeta amico, ma ritrovava intatti i luoghi cari della sua poesia: i tetti d’ardesia, le antiche case di pietra, i prati   profumati di garofanini campestri, i boschi, il Groppo Soprano “sorta / di dolomite rosa addolcita dai castagni” e più giù Corniglio “azzurra per la lontananza”.

Pittore supremo d’esterni e d’interni, di luci e d’ombre, Bertolucci, mescolando realtà e invenzione, ha fatto di Casarola il luogo mitico delle radici famigliari, ma ne ha fatto anche il teatro, netto e struggente, di gioie e dolori, della tenerezza degli affetti familiari e dell’allegria del bambino Bernardo “in volo sullo slittino”, seguito dal cane Flush, o teneramente addormentato accanto alla madre in un quadro di suprema grazia pittorica. Ma la Casarola poetica è anche il teatro dell’orrore della guerra e della ferocia del rastrellamento nazista, che trasformò un pacifico consorzio umano in luogo di lutto, oscurando e annuvolando il “così sereno così pio mattino” col fumo dell’incendio della casa e col pianto della morte dei familiari.

“Più che la tua poesia o il tuo talento invidio le tue radici” gli aveva scritto Vittorio Sereni il 12 gennaio 1980, riconoscendogli il dono di aver saputo trasformare un paesaggio reale, conosciuto e amato, in un altro paesaggio “che giganteggia sul precedente”: “avere una patria poetica, essere il sovrano- intendimi bene: non per connotazione geografica … è doloroso lavoro di anni; ma è anche il massimo risultato”.

 

In questo paesaggio poetico si staglia Casarola, un paese dal fascino particolare, riconosciuto da chi, come il critico d’arte Roberto Tassi, coniugava la bellezza del luogo con l’affetto per l’amico Attilio:

 

Domenica scorsa sono stato a Casarola, da solo: verso le dieci e mezzo del mattino mi sono sdraiato nei prati sopra la tua casa, caldo era il sole e la luce un po’ radente faceva luccicare il verde ancora non spento delle erbe, avvampavano gli alberi, per tutta la valle, delle loro rosse, gialle foglie, il Groppo Soprano immobile e viola; ogni tanto veniva dalla distanza verso il Navert uno sparo e l’abbaiare ripetuto dei segugi. Tutto era di una bellezza suprema, indicibile, ci vorrebbe il Tolstoj di Felicità familiare per dirlo.

 

Così Tassi scriveva da Parma il 29 ottobre 1965. Allo stesso modo nell’agosto del 1966 il sentimento del luogo gli fa mettere al centro del messaggio l’intimità della casa e l’eco dei versi di Attilio, di quella “vita mobile” tra passato, presente e futuro espressa in Viaggiando verso la primavera (Viaggio d’inverno):

 

Nelle mie passeggiate mattutine guardare “dalla parte di Casarola” è la cosa che mi emozione di più, mi dà uno struggimento lieve, non so perché una sottile malinconia, come per un tempo futuro da conquistare, ma che contenga tutto il passato e sia la destinazione finale della mia vita. Credo sia per quei monti bellissimi di Raboffia che hanno dietro il cuore di una casa.

 

Il lettore di Bertolucci sa che Casarola fu la sede a mille metri scelta dai pastori di cavalli in cammino dalla Toscanella, tra la Garfagnana e la Lunigiana, in un tempo antico. Raggiunto l’Appennino in un “sito riparato”, decisero di fermarsi e di costruire una casa, la casa di pietra che porta scolpiti una P e una B, che indicano il nome del proprietario Pietro Bertolucci, e l’anno di costruzione, Anno Domini 1798. Dall’evocazione di questo evento e dal paese appenninico inizia la Camera da letto, il romanzo in versi che narra la storia, in parte vera e in parte fantasticata, della famiglia Bertolucci, cui risalgono le radici di Attilio, Bernardo e Giuseppe. Si trattava di un mondo antico, di costumi severi, semplici, povero e sobrio, dedito alla raccolta di castagne nei boschi, alla produzione di patate, di pochissimo grano e di latte. Culturalmente – ricordava il poeta- la popolazione era quasi esclusivamente legata alla religione come elemento totalizzante della vita.

Fu il padre di Attilio, Bernardo, scelto tra i fratelli per studiare in collegio a Parma, ad entrare in contatto con la pianura, con la “Molle, molle pianura del Po” (cap. II Giovanni Rossetti, v. 1), e con la sua civiltà più complessa e più ricca, di più varie abitudini, in un certo senso “tinta d’eresia /cittadina” (cap. III Un giovane di montagna scende in pianura, vv. 114-5). Il giovane, tanto intraprendente che, diciottenne, andò in Ungheria per acquistare cavalli, s’ innesta in una “società più aperta / e più facile” di quella montanara, “che si difende con valichi impervi, / preghiere iterate lungo il giorno, / pasti con poca carne e poco vino” (cap. III, 184-189). Complice una fuga d’amore (cap. IV, Il segreto), sposò, col favore della madre Stella, la bella Maria Rossetti, figlia poco più che adolescente di un importante proprietario agrario abitante a San Lazzaro. Attilio fu l’ultimogenito della coppia, dopo la perdita dei primi nati e della bambina Elsa, morta a tre anni (cap. V, Elsa) e dopo la nascita di Ugo, maggiore di quattro anni.

Attilio conobbe Casarola a dieci anni, salendo, attraverso una mulattiera, dal paese di Monchio, dove si giungeva con un tram a vapore da Parma, e fu colpito dal suo isolamento. Che così fosse lo rammenta un delizioso apologo L’asino del Vermont (Aritmie) che rappresenta, in occasione della proiezione di un documentario sulla vita agricola della regione americana, l’attenzione silenziosa dei paesani e il piacere, che li colse soltanto alla vista di un asino uguale a quegli animali che loro usavano come mezzo di trasporto e di lavoro. Su di un asino nell’estate del ’34 salirono a Casarola, ospiti della zia Maria Bertolucci e accolte dall’innamorato Attilio, Ninetta, la fidanzata, con la sorella Ninina per una memorabile vacanza estiva, che mise in evidenza (i versi sono bellissimi e appartengono ad un capitolo della Camera da letto non utilizzato nella edizione definitiva) la differenza tra gli usi locali e la modernità di abbigliamento e di gesti delle due ragazze parmigiane, abituate ad una libertà che veniva loro sia dall’educazione, impartita dalla madre australiana, sia dalla vita cittadina:

 

Una sola cosa ha voluto,

con molto tatto, raccomandare a N.

la zia Maria:

di non indossare nelle domeniche e nelle altre feste

comandate

gli shorts di tela caki scoloriti

dal sole e dalla salsedine delle vacanze defunte

stretti sulle gambe. La forma

è tutto, non è stato difficile

seguire più che il consiglio, l’ordine

non imperioso, anzi ammiccante, complice

                             N. a Casarola, vv.221-31

 

Alla poesia della giovinezza di Bertolucci, a Sirio (1929) e ai Fuochi in Novembre (1934) appartengono alcune liriche, dedicate all’Appennino con rilievo impressionistico di colori e suoni e pennellate essenziali e vivide come in Ginestre:

 

Gioventù sacrificata

delle ginestre,

grama e splendente

per le pendici d’Appennino.

Vento e luce

ti nutrono.

Solitudine t’adorna.

                             Ginestre

 

Ma già negli idilli, dei quali è protagonista Bernardo, Per B ... e La slitta (Lettera da casa), si rivelano modi affettuosi e il pensiero intimo del passare del tempo e del timore della perdita:

 

I piccoli aeroplani di carta che tu

fai volare nel crepuscolo, si perdono

come farfalle notturne nell’aria

che s’oscura, non torneranno più

 

Così i nostri giorni, ma un abisso

meno dolce li accoglie

di questa valle silente di foglie

morte e d’acque autunnali

 

dove posano le loro stanche ali

i tuoi fragili alianti.

                             Per B …

 

Per una slitta e un campanello infantile

la neve profumata sui monti

sui monti le foglie di rame, l’inverno che viene.

 

Il giorno è ozioso e così lungo il mattino

in un sole come questo che dolcemente

segna le ore sul tuo viso.

 

Ma le favole e i sogni della notte

dove sono, se una piccola vertigine

ti trascina per il pendìo

 

Dove siamo noi, il nostro amore,

se la neve ti riprende in corsa, e il sole

fuggitivo, se ci guardi e non ci vedi più?

                             La slitta

 

Queste liriche appartengono al periodo trascorso a Casarola dopo l’armistizio dell’8 settembre 1943 fino alla fine della guerra. La giovane famiglia che si era formata, dopo il matrimonio tra Attilio e Ninetta avvenuto nel 1938 e dopo la nascita di Bernardo il 17 marzo 1941, si rifugiò nella casa degli avi, ormai in abbandono da quando la nonna era morta e la zia Maria si era trasferita ad Aulla, ma dove il poeta trascorse “mesi meravigliosi, nella più completa irresponsabilità” (I giorni di un poeta). Il poeta ripensa e descrive quella fuga e quel ritorno nel paesino, isolato e ancora sereno, nella lirica “inventata dal vero” Verso Casarola (Viaggio d’inverno) con immagini di valli “ azzurre per la lontananza”, suoni di campane dai paesi vicini, “trionfo / inviolato di more ritardatarie e dolcissime, boschi di cerri e frescura d’acque di fontane e un virgiliano gruppo di famiglia, col piccolo figlio sulle spalle del padre, figlio “che all’uscita del folto veda con meraviglia/ mischiarsi fumo e stelle su Casarola raggiunta” (vv. 56-57).

Nella Camera da letto, nei capitoli XLI-XLIV Dall’altro versante, Fumi lontani, La fuga a Monte Navert, Questo così sereno così pio mattino, il poeta ripercorre, dopo l’arrivo nella casa degli zii Galeazzi, che ospitarono i giovani sposi, il loro bambino, la bambinaia e il cane Flush per una notte, la vita serena e quotidiana nella casa, che i versi dicono, riferendosi al piccolo Bernardo, “Più sua che di nessun altro poi che da secoli/ col suo nome la distingue la gente./ Chi primamente la edificò. / venuto dalle maremme, si chiamava Bernardo” (Dall’altro versante, vv. 178-181). Ed è il figlioletto presenza viva del racconto in versi dei giorni passati a Casarola “ricca d’asini di castagni e di sassi”: Bernardo, che, issato sull’ “alto trono- basto” di un mulo, è silenzioso per timidezza, proprio lui “ che pure ha lingua sciolta”; Bernardo che “ride a noi, all’universo abbrunato, all’interno illuminato”; il piccolo “ la zazzera/ sugli occhi intenti” con lo spaniel Flush” e ancora lui, “sanissimo, anche se magretto, e alto/ per la sua età”, che “parla, divaga impiega un tempo infinito a mangiare” tanto che il padre A. inventa la favola del Mago Sabino e del Grifasino, favola che Bernardo farà sua e ripeterà al fratellino Giuseppe e al cugino Giovanni incantandoli con la finzione e il gioco (cap. XLV, Il taglio dei riccioli).È l’anticipazione di quella disposizione al narrare per immagini che il padre celebrerà miticamente nella lirica La teleferica, che “tra castagni e felci” dei boschi di Casarola vedrà Bernardo quattordicenne sceneggiatore, cineoperatore e storyteller.

Ma, se torniamo agli anni dell’infanzia di Bernardo, anche nel paese tra i monti, che è “l’ultimo / paese della terra”, giungono violenza e dolore: il 2 luglio del 1944 il maresciallo Kesserling sferrò un rastrellamento, il più grande e feroce dell’Appennino tosco-emiliano. Due zii furono bruciati nelle loro case, mentre Attilio, Ninetta e Bernardo con altri familiari, riuscirono a salvarsi rifugiandosi sul Monte Navert. La poesia, che rievoca la notte all’aperto, si fa pittura (“Ut pictura poesis”) e dipinge un quadro di grande bellezza coloristica, nel quale si rinnova, grazie alle intermittenze del cuore, la poesia dell’infanzia e della maternità. Una poesia intenerita e visivamente perfetta, per sguardo e innesti cinematografici: Bernardo illuminato da un raggio di luna “effetto quieto / di ombra-luce” dorme “sul double-face scozzese della madre “che “l’accoglie / senza abbracciarlo”. Ed ecco

 

improvvisa si fa avanti

più argentea dell’astro

che splende fuori sulle capanne

solitarie dei non pastori più, ma piccoli

allevatori di vacche, una lumaca

ben nutrita, lenta, non suscitante ribrezzo.

Passerà vicina ai due volti

appena discosti e addormentati

di madre e figlio e tornerà nell’oscuro da cui venne: e fu

come un augurio o così apparve a chi ne contemplò

commovendosi il transito.

                             cap. XLIII, La fuga a Monte Navert, vv. 117-127

 

La realtà del mondo alpestre entra nell’arte, come accadrà nei film di Bernardo, che confessò: “Amo essere sorpreso dai film e nei miei film amo essere sorpreso di continuo”, accogliendo la lezione di Jean Renoir, ma anche la sensibilità e la lezione poetica del padre.