di Bernardo Bertolucci

 

Sorpreso, commosso, smarrito. Fin dalle prime pagine mi sembrava che La casa del poeta mi stesse aspettando. Forse anch’io, senza saperlo, aspettavo La casa del poeta. L’appuntamento con un libro è un evento raro, ma è diventato inevitabile dopo la scoperta inquietante delle ventiquattro estati che Paolo L ha trascorso con mio padre e con mia madre nel paese da cui vengono i Bertolucci, a quota mille metri sull’Alto Appennino parmigiano. Paolo L, così mio padre definiva Lagazzi, ma non se se lui si sia mai sentito chiamare in quel modo ironico e affettuoso.

Il numero ventiquattro ha assunto dunque per me una forza misteriosa, quasi minacciosa. È un tempo importante quello che Paolo ha trascorso con mio padre e con mia madre e lo si avverte pagina dopo pagina, estate dopo estate, si sa, le villeggiature si nutrono di ripetizioni, come il viaggio verso Casarola, i nomi dei paesi che si inseguono sempre uguali, da Parma a Langhirano a Corniglio verso i mille metri di Casarola, raggiunta ancora una volta da Paolo L.

Le estati allora erano infinite come sembra essere il sentimento che ha unito i miei genitori al loro ospite (lieve?), generando in me un’emozione così intensa da divenire quasi indescrivibile.

Mi chiedo: e io dove ero?

Prima in filigrana e poi sempre più evidente è la tentazione di Paolo, Attilio e Ninetta di abbandonarsi al gioco figlio-genitori. È fisiologica e appagante, chi vi rinuncerebbe avendo tanto tempo a disposizione con i miei genitori? E con Paolo che arriva a casa sempre al momento giusto di quella che lui (dotato di un avatar giapponese) chiama la cerimonia del tè. Paolo è complice della liturgia quotidiana di mio padre e ne rispetta i tempi e le regole, che piano piano non riesce più a distinguere dai versi che ama. Liturgia che gli altri figli non avrebbero mai smesso di sabotare, nel tentativo inutile di trovare vie di scampo da quella bolla poetica.

Ma la cosa che mi turba di più — uso una parola forte ma non me ne viene in mente un’altra — è l’identificazione di Paolo con Attilio. Nessuno, dopo La casa del poeta, potrà mai leggere le poesie appenniniche di Attilio con il privilegio della conoscenza dovuta a quella magica frequentazione. È in questo il segreto del libro. Per Paolo le poesie entrano in cortocircuito con il luogo, con quei corpi di asini, di piante e di animali e con lo schiudersi del paesaggio della valle del Bratica che conoscerà meglio, estate dopo estate, quasi ritrovando nei versi che sa a memoria una mappa segreta e accuratissima. Arriva a vedere la corrispondenza così intima di quel paesaggio con Attilio e ora anche con sé stesso, dopo che nelle ore libera ha esplorato Casarola tutto solo, quei muschi, quei sassi, quasi a impadronirsene.

Attilio e Paolo parlano, parlano e non solo di poesia, lo so, pure di arte, di cinema, di tutto. Nei momenti difficili (l’ansia di Attilio, quella che lui definiva “la malattia necessaria”, era contagiosissima), la loro grande amicizia, parola che ora mi suona riduttiva e semplificatoria, deve avere conosciuto anche momenti di disagio. Li vedo allora rifugiarsi insieme nella illusione della poesia, nel bozzolo di Attilio in cui nessun altro aveva mai avuto accesso.

Attilio lo fila dal di dentro con le proprie ossessioni, le nevrosi e i cerimoniali scaramantici e Paolo vi partecipa con la discrezione del testimone sopraffatto e invisibile. È quello il luogo magico in cui è avvenuta l’identificazione di Paolo L con mio padre, lì dove nasce la poesia, unica grande consolazione condivisa da entrambi. La casa del poeta ne è permeato dalla prima all’ultima parola.

Continuo a chiedermi: e io dove ero?

 

 

[In Paolo Lagazzi, La casa del poeta, Garzanti, Milano 2008; poi in Bernardo Bertolucci, La mia magnifica ossessione. Scritti, ricordi, interventi (1962-2010), a cura di Fabio Francione e Piero Spila, Garzanti 2010]