di Attilio Bertolucci
Di libri sulla Resistenza ne uscirono molti, nel ’45, di cronaca e di fantasia. Per quel che possiamo ricordare le cose migliori debbono trovarsi più nella prima categoria che nella seconda.
I romanzi e racconti da Uomini e no di Vittorini in giù, assolsero soprattutto a una funzione di rottura che li lasciò piuttosto malconci. Oggi magari quell’archetipo riprende un senso e un valore, sia pure più nell’ambito della storia della cultura che di quello della poesia: e qua e là, fra i segnacci neri della struttura violentemente ideologia, o sedicente tale, rilucono frammenti di puro colore vittoriniano, patetico parallelo di quello di altri isolani degli stessi anni, poeti in versi o col pennello.
Fra le testimonianze dirette furono le più dirette, come le lettere dei condannati a morte a significare maggiormente, e in maniera irrevocabile, suprema.
Spostandoci dalla letteratura e dalla memorialistica si trova il cinema, in quel tempo che sembra lontanissimo, con due o tre capolavori e basterà citare Roma città aperta e Paisà di Rossellini e Fellini.
Fu un fatto di grande importanza, gli stranieri ci conobbero in quella pellicola bianca e nera, umile, sgranata, per la prima volta, e noi in essa ci riconoscemmo non per la prima volta, ma come fosse, perché troppi pochi avevano letto e inteso Manzoni e Verga, primi scopritori dell’anima nazionale nell’età moderna.
A quindici anni di distanza si dovrebbe essere già in prospettiva giusta per scrivere il romanzo. Ma non viene, non è detto che debba venire. In tempi così grami non d’un Tolstoj o di uno Stendhal, ma neppure d’un Hemingway, c’è speranza.
Pazienza, queste cose dipendono più dall’impresa solitaria d’un uomo (il quale può già trovarsi in mezzo a noi, in incognito) che dalle vicende dell’inquieta e minacciata letteratura contemporanea.
Ma intanto l’allontanamento dagli anni che furono, con tutti i loro disastri, “i migliori anni della nostra vita”, dico di noi che vi fummo dentro per intero, ha giovato anche a chi, senza ambizioni soverchie, avendo partecipato di persona alla guerra civile, ne ha voluto ricordare per iscritto persone e avvenimenti degni di memoria, e altrimenti destinati a venire scancellati crudelmente dal passare del tempo. Vogliamo dire di Ubaldo Bertoli, che ha scritto la storia della Quarantasettesima brigata non come l’avrebbe fatto nel ’45, l’animo troppo gremito di ricordi e di passioni, ma in maniera più libera, con un affetto più profondo, e provato, per gli uomini, un occhio più limpido per i paesi in cui quegli uomini vissero e morirono.
Gli anni di delusioni e amarezze ma pure di scoperte, ravvedimenti e insomma d’ogni sorta d’esperienze, seguiti, non lo hanno condizionato, o mutato, ma aiutato a essere più oggettivo. Che non significa meno poeta.
Il golfo di tenebra degli anni intercorsi gli ha permesso di vedere nella luce più vera possibile quel tempo, per lui e per noi, unico. Così la camera oscura serviva ai paesisti del Settecento.
Strano accostamento, si dirà. Eppure non è una delle qualità minori in Bertoli il continuo sentirsi della natura attorno agli uomini, la cui presenza sotto un cielo, su colline e per pianure d’una cristallina verità atmosferica non solo non è oziosa o indifferente ma estremamente significante.
L’arcuarsi dei cieli, lo schiarire e abbrunarsi dell’aria, il rinverdire delle colline, l’inaridire delle pianure è fatto partecipe del volgere degli eventi, nel fluire del tempo reale di autunno inverno primavera estate autunno inverno primavera degli anni ’43-’44-’45.
La Quarantasettesima racconta fatti realmente accaduti, i suoi personaggi sono realmente esistiti, e il volume potrebbe portare scritta, ma rovesciata, la frase senza la quale ormai non esce più alcun romanzo o film: “Avvenimenti e personaggi di quest’opera sono del tutto immaginari”. Eppure il libro di Bertoli ha la felicità dei libri inventati, non lo squallore (oh, qualche volta anche efficace) dei libri documentari. Non è un caso rarissimo, ci viene subito alle labbra un precedente, L’Armata a Cavallo di Isaac Babel, del quale non possiamo controllare la fedeltà agli avvenimenti e alle persone (qualche volta sì, il personaggio Budienny è il favoloso ma reale Maresciallo dell’Armata Rossa nei suoi primi anni, con i suoi baffi ancora neri): però un’ipotesi fondata su ragioni estetiche è possibile sempre.
Una certa affinità, anche d’argomento (la guerra civile, diciamo) non faccia pensare a qualcosa di voluto, da parte di Bertoli.
Sarebbe un errore voler stabilire dei rapporti, sia pure lontani, sul piano letterario. Non che il libro del russo, pubblicato in Italia e con successo negli anni trenta, non possa essere capitato fra le mani del lettore Bertoli.
Ma gli autori che gli hanno veramente giovato e non sappiamo se si veda o no a occhio nudo, sono altri, e specialmente due, Conrad, e Faulkner. Con i quali Bertoli non ha affinità di temi, ma che sono serviti a lui, non professionista, come esemplari sommi, unici, di stilistica, diciamo pure di retorica.
Sono stati essi a salvarlo dalle facili scorciatoie del neorealismo, e siano ringraziati dunque, anche se qualche volta lo hanno messo in difficoltà.
I fatti e le persone sono, come abbiamo detto, reali, ma nel libro sono diventati veri, come lo sono soltanto i fatti e le persone di fantasia.
Oggi vivono ancora molti di coloro di cui il libro racconto (altri morirono allora, ed è detto, altri più tardi, altri peggio che morire, si perdettero, ma è giusto che non se ne tenga conto): se leggeranno La Quarantasettesima forse non si riconosceranno. Ed è giusto anche questo, ciò che conta, di loro e di quegli anni di angoscia e di speranza, è nelle pagine del libro e non soltanto quando vi si narrano fatti memorabili o commoventi con una così straziante precisione.
Quegli avvii, spesso a due, per strade di pedemontana o d’appennino, in una luce o un’ombra sempre giusti, irripetibili, qualche volta seguiti dal ritorno, altre no, sono cose d’una verità e d’una poesia che non ha l’uguale nella nostra letteratura della Resistenza, nella loro tolstoiana, nella loro virile dolcezza.
Bertoli non ha forzato mai, ha fatto vivere i suoi partigiani e inglesi, e fascisti e tedeschi, e montanari, li ha fatti morire, senza intervenire, e tutti hanno avuto da lui quella pietà senza la quale uno scrittore non può creare persone vive, ma soltanto burattini.
Naturalmente anche se non lo grida ad ogni pagina lascia dire ai fatti, di continuo, che la ragione era dalla parte di quelli della quarantasettesima, e nessuno potrebbe contraddirlo. Lo lascia dire con la loro morte giovane a Fulmine, a Donez, a Vespa, che portano via “sulle barelle fatte di rami e con le prime foglie dei ciliegi” mentre tutto sta giù per finire, lo aveva lasciato dire agli altri, caduti prima, nei lunghi inverni, quando sembrava che non dovesse finire mai.
[prefazione a Ubaldo Bertoli, La Quarantasettesima, Guanda 1961]