È con la poesia, l’arte di tuo padre, che hai cominciato a esprimerti. Prima di diventare un cineasta anche tu sei stato un poeta.

Ho cominciato a scrivere poesie per imitare mio padre e ho smesso di scriverle quando ho cominciato a fare dei film, per differenziarmi da lui. Ho scritto poesie fino al giorno dell’inizio delle riprese del mio primo film fatto dentro l’industria. Dopo la prima inquadratura della mia vita, non ho più scritto poesie. Scrivi un verso e rappresenti metaforicamente qualcosa che col cinema invece mostri direttamente. Pasolini intendeva questo quando diceva che il cinema è il linguaggio della realtà. Per rappresentare una stalla non usi la sua parola, ma l’immagine della stalla stessa. Credo che passare dalla poesia al cinema abbia significato per me, prima di tutto, tornare alle emozioni dei giorni in cui andavo a verificare, nella realtà, le parole di mio padre come la poesia sull’ultima rosa bianca (mia madre). Soltanto col cinema era possibile continuare l’emozione di quelle scoperte. E poi la parola non mi bastava. Soprattutto non mi apparteneva.

 

Prima di diventare regista, quando ancora scrivevi poesie, hai fatto dei film giovanili. A sedici anni.

Sono stati una specie di iniziazione. Era l’epoca in cui mi esprimevo ancora con le parole, che appartenevano a mio padre, e rimanevo dentro quei confini, buono e tranquillo. Poi ho fatto due film in sedici millimetri. In fondo è giusto che a sedici anni si facciano dei film in sedici millimetri, ma il momento della verità è venuto dopo questi riti iniziatori, quando ho finalmente avuto un produttore.

 

La teleferica e La morte del maiale, i due film che hai girato da ragazzo, raccontavano una storia?

Sono due film sulla memoria. La teleferica ha per protagonisti tre bambini: mio fratello Giuseppe, che aveva nove anni, e due cuginette più piccole. Dopo il pranzo, durante l’ora della siesta, quando gli adulti dormivano, i tre bambini partono alla ricerca di una teleferica che Giuseppe si ricorda di aver visto tanto tempo prima, quando aveva cinque anni. La cercano ma non la trovano e, benché siano bambini, i protagonisti frugano nel passato. Anni dopo avrei capito che la storia di questa regressione era influenzata dal tema fisso di molti film di John Huston, la ricerca di qualcosa che all’ultimo momento si dissolve, e che è molto spesso il denaro. I tre bambini cercano guardando in alto, tra i rami dei castagni, e così non si accorgono che la teleferica esiste ancora, ma sotto i loro piedi, perché è crollata e ormai il filo metallico è tutt’uno con l’erba e il terreno.

La morte del maiale l’ho girato l’anno successivo. C’è un altro bambino, figlio di contadini, che esce di casa per andare a scuola, ma poi si nasconde in un fosso e resta a guardare i norcini che vengono per uccidere il maiale. Il film mostra l’azione dei norcini, che sono un po’ i killer della situazione, vista attraverso gli occhi del bambino. Un po’ alla volta il punto di vista da soggettivo diventa oggettivo. Ci si dimentica che è un bambino a guardare, e il suo sguardo diventa quello della macchina da presa.

 

L’uccisione del maiale ha un grande peso anche in Novecento.

Ho cercato, con la sequenza dell’uccisione del maiale, di fare il remake di quel vecchio film in sedici millimetri. C’è la presenza dei bambini che guardano e si tappano le orecchie per non sentire le grida. Ma la prima volta la scena era più riuscita.

 

È una sequenza crudele.

Ho incontrato Julian Beck e Judith Malina, undici anni dopo che avevamo lavorato insieme nel mio episodio di Amore e rabbia. Judith mi ha detto: “Quei poveri animali uccisi nel tuo film mi hanno fatto soffrire”. Ho cercato di spiegarle che non si può parlare di cultura contadina se non si parla anche di quel rito pagano che è la morte del maiale, un rito pieno di sangue che cola sulla terra. Gli occhi febbricitanti dei bambini vedono il sangue mescolarsi al fango e alla neve, in mezzo ai vapori del pentolone in cui si gettano i primi ciccioli. Non si può ignorare questa ferocia.

Poi ho scoperto che Judith Malina era vegetariana e allora ho rinunciato a convincerla.

 

Hai un’immagine chiara di che cosa rappresentava il cinema per te a quell’epoca?

I film che amavo di più erano i film d’azione, con i marines e i giapponesi, i cowboy e gli indiani. Quel genere di film mi rapiva completamente. Cercavo di ricostruirli nei giochi che facevo poi con i miei amici, a Baccanelli, a cinque chilometri da Parma. Oggi Baccanelli è stata risucchiata dalla città, ma allora la città sembrava lontanissima. Io ero il regista di quei giochi infantili.

C’era una specie di cilindro montato su quattro ruote che serviva per trasportare il liquame nei campi. Era diventato il nostro sommergibile, e noi ci chiudevamo dentro. Avremmo potuto anche morire asfissiati, perché i residui di gas del liquame sono velenosi. I giochi erano la ripetizione dei film che vedevo. A me piaceva molto essere un eroe triste. Morivo sempre alla fine. Io andavo spesso al cinema in città. I miei amici no. Erano figli di contadini, di operai, di pendolari. Così raccontavo i film che avevo visto e insieme li ripetevamo. Prendevamo i nomi dei personaggi. Avevo visto Stagecoach di John Ford e, naturalmente, mi ero dato la parte di Ringo. Tra i sette e i dieci anni mi ero identificato con John Wayne. Cercavo di imitarlo nel modo di camminare e di sorridere appena. Credo che il rapporto che un bambino ha col cinema sia esemplare, è su di esso che dovrebbe modellarsi quello che si ha da adulti. Quando l’identificazione un po’ infantile manca vuol dire che non c’è il rapporto giusto.

 

Ci sono molte resistenze a accettare l’aspetto regressivo del cinema.

Il cinema è sempre regressivo. Quando un film non mi dà il piacere della regressione mi sento mortificato, mi viene negato qualcosa. Mi viene negata la possibilità di lasciarmi andare, di avventurarmi aldilà del principio del piacere. Ma oggi perfino il piacere del cinema, il godimento cinematografico, vengono censurati. Il bello del cinema è proprio aldilà del piacere, non aldiqua.

 

Il bello dei tuoi giochi infantili in cosa consisteva?

Nel rifare i film che avevo visto, facendo recitare ai miei amici le storie che raccontavo. Erano giochi che facevamo in campagna, intorno alla casa.

 

Erano giochi di potere.

Certamente. Dietro alla casa c’erano alcuni alberi di ciliege, di amarene, di prugne, un melo. Era un piccolo frutteto e mio nonno, che lì era il vero padre perché era il padrone, mi aveva molto responsabilizzato. Ogni volta che il nostro gioco si spostava dentro il frutteto, immediatamente svaporava, perché i miei amici non avevano più alcun interesse nel giocare. Si arrampicavano sugli alberi e cominciavano a mangiare la frutta. Io ero doppiamente coinvolto, perché ero il guardiano del gioco, cioè del cinema, ma anche il guardiano del frutteto. Così la mia delusione era doppia. C’era quella del guardiano pieno di rimorso perché lascia che i ladri gli mangino la frutta e quella del regista che non può andare avanti così col suo film.

 

Ma il film continuava: non toccare i frutti sarebbe stato un documentario sul frutteto; mangiarli era abbandonarsi alla finzione.

Sì, perché le mele sono belle, ma soprattutto sono buone. È un’ambivalenza che non si riesce a sopire. Olmo e Alfredo bambini di Novecento sono proprio la rappresentazione di questa ambivalenza.

 

Anche le bambine partecipavano ai vostri giochi?

A quell’età le temevo. Ma per la stessa ragione le mitizzavo. Erano bambine contadine, come la Carla, che aveva gli occhi neri. Erano bambine comuniste. Gli slogan del partito non avevano molta importanza: arrivavano magari come una fiammata, che a contatto con i contadini si spegneva. Essere comunisti per loro non era mai la ripetizione di parole d’ordine decise in qualche centrale burocratica… Le bambine erano le più vicine alle madri e le madri erano il vero cuore del comunismo contadino. Era molto difficile accettare le bambine, non solo per me, anche per i miei compagni. O forse era così soltanto quando c’ero io. Forse d’estate, quando veniva buio e io andavo a cena, dopo che avevamo cacciato i pipistrelli con le pertiche, i maschi e le femmine si ritrovavano senza di me.

C’era però un’occasione in cui stavamo tutti insieme, maschi e femmine, quando portavano un toro per la monta. Avveniva di nascosto, dietro il fienile, perché sarebbe stato scandaloso far vedere la monta a tutti. Noi bambini ci arrampicavamo sulle balle di paglia fino a quando non trovavamo una fessura da cui poter guardare. C’erano anche le femmine, non c’era modo di trattenerle, erano curiose come noi. La monta era molto rapida. Il toro eiaculava subito ma non voleva smettere. Allora un contadino gli rovesciava sul muso una secchiata d’acqua gelida.

 

[da Scene madri di Bernardo Bertolucci, a cura di Enzo Ungari, Ubulibri, Milano 1982]