Pubblichiamo una lettera scritta da Lotte Eisner, immensa scrittrice e critico cinematografico, a Bernardo Bertolucci cinquant’anni fa, esattamente il 4 giugno del 1971. Nella lettera Eisner chiede a Bernardo una prefazione all’edizione inglese del suo Murnau, avendo messo il libro in una scena di Partner tra le mani di Pierre Clementi. La prefazione non è mai stata scritta, ma resta la lettera, a cui fa cenno lo stesso regista nella bella intervista a proposito di Partner realizzata nel 1969 da Adriano Aprà, Maurizio Ponzi e Piero Spila, che ringraziamo.

OGNI INQUADRATURA È UN FILM

di Adriano Aprà, Maurizio Ponzi, Piero Spila

 

“Il comportamento dello spettatore cinematografico di Partner dovrebbe essere quello dello spettatore ideale, cioè di uno spettatore molto passivo che riuscisse a trovare nell’ora e quarantacinque minuti di proiezione lo spazio per dormire almeno dieci minuti e durante questi dieci minuti sognare, vincendo così la propria passività.

Credo che questo dovrebbe essere il comportamento dello spettatore al cinema, normalmente”.

 

Perché Pierre Clémenti a un certo punto del film si rivolge al pubblico, invitandolo a guardarsi intorno perché nel cinema stesso, due file avanti o dietro, chiunque potrebbe trovare il proprio sosia?

Sì, ma se ci pensiamo un momento, a quale pubblico si rivolge Clémenti? Si rivolge al pubblico che non ci interessa. In realtà Clémenti, lì, fa della fiction, gioca all’attore che si rivolge al pubblico. Anche perché non solo Clémenti si rivolge al pubblico che non ha capito, ma le cose che dice sono delle bugie, finge che il problema del film sia quello dello sdoppiamento, del «trovatevi anche voi il vostro doppio», eccetera. Tutto questo è molto lontano dalla realtà, perché volutamente riduttivo.

Comunque su questa sequenza potrei aggiungere qualcosa. La battuta che voi sentite di Clémenti è stata aggiunta in doppiaggio, nella versione originale, in francese, era molto diversa. Quando ho girato, Clémenti faceva un suo discorso folle sul modo di agire contro l’imperialismo americano. Posso anche cercare di ricostruirlo, diceva pressappoco: «Il nemico numero uno nel mondo oggi è l’imperialismo americano. Se i pescatori del Golfo di Napoli facessero saltare una portaerei americana, se le puttane di Genova diffondessero la sifilide ogni notte su una ventina di marines americani, se tutti si comportassero in questo modo allora si farebbe forse qualcosa di positivo e lo spettacolo sarebbe permanente».

Quando ho montato il film questo discorso mi è sembrato troppo moralistico, allora nell’edizione italiana ho doppiato e ho cambiato completamente il testo.

 

Facendo Prima della rivoluzione ti sei posto gli stessi problemi di Partner, oppure il passaggio di questi quattro anni ti ha fatto un po’ mutare il rapporto con il pubblico? Diciamo questo perché vedendo Partner ci siamo accorti che tu ami ancora moltissimo Prima della rivoluzione, da alcune scene si capisce benissimo.

Penso che i due film siano molto vicini. Tanto vicini quanto lo sono io che ho fatto Partner al regista che ha fatto Prima della rivoluzione. Sono passati da allora quattro anni in cui non ho fatto quasi niente. È come se voi dopo quattro anni mi rivedeste solo oggi; sono lo stesso di allora ma quattro anni dopo. E così è per il mio film: è lo stesso di allora ma sono passati quattro anni. Non c’è stata nessuna preparazione per lo spettatore come invece c’è per esempio nei confronti di Godard che fa tre film all’anno e quindi non ci si rende conto del cammino che compie tra Questa è la mia vita e Una storia americana, che invece è enorme. C’è questo grosso problema del rapporto privato, del rapporto personale con l’opera. Io adesso so, per esempio, che bisognerà che faccia subito un altro film, che ne faccia sempre più spesso, perché non si può fare un film ogni quattro anni. Si perde completamente la naturalezza nel rapporto con il film, si dà troppa importanza a quello che si fa, io per ogni inquadratura che giravo mi sono trovato a soffrire come se ne dipendesse tutta la mia vita. E non è giusto.

Poi durante tutti questi anni in cui non ho girato, praticamente non ho fatto altro che riflettere sul cinema, sullo stile, non so, sul fatto che le inquadrature sono delle monadi e quindi sono autonome, e ogni inquadratura è un film. Ora tutto questo ha pesato sulla realizzazione di Partner, ho cercato di fare il più spesso possibile delle inquadrature che fossero autonome. Un’altra idea che a questo proposito mi ossessionava da due o tre anni era che il montaggio è il momento in cui ogni film perde la sua violenza stilistica, il momento in cui tagliando le punte stilistiche tutti i film diventano uguali. Penso che il montaggio sia il momento che ha fermato la storia dell’evoluzione cinematografica. Perché girare, malgrado si debba passare attraverso l’obbiettivo, il treppiedi, i macchinisti, è un fatto gestuale e istintivo che produce dei momenti di libertà stilistiche autentiche. Il montaggio è stato inventato dagli autori e poi strumentalizzato dalle produzioni proprio per eliminare queste libertà, per livellare tutto. I produttori americani, infatti, per contratto hanno diritto a modificare il montaggio di un film. È stato persino inventato un termine: final cut (l’ultimo taglio).

A un certo punto mi sono trovato quasi paralizzato da queste idee: o il piano sequenza o la morte, eccetera. E nel film si sente la volontà di abolire il montaggio, riducendolo, quando c’è, alla sua forma più elementare. Per esempio, nella sequenza della festa ho usato il montaggio ma è un montaggio del tutto primario, un montaggio chapliniano.

 

Nella sequenza della festa c’è infatti un montaggio molto semplice. Nel totale la Sandrelli è sempre in posizione di sfavore: è messa sotto una scala, è girata di spalle, è in ombra malgrado sia il personaggio più importante dell’inquadratura. Ma immediatamente tu inserisci un suo primo piano isolato, ma sufficientemente lungo, per eliminare quella stranezza. Poi torni sul totale.

Sì, è un montaggio soprattutto elementare. Solo in due o tre scene il montaggio ha anche una funzione espressiva: la festa, la scena della camera di Giacobbe quando i due si scambiano i vestiti, eccetera.

 

La scena tipica di questa volontà di superare il montaggio è quella in cui i due si incontrano nel gabinetto pubblico, e quando a un certo punto si parla della natura tu alzi la macchina da presa col dolly per poi ritornare giù a inquadrare il gabinetto.

Infatti la cosa che non ho mai capito è perché a un certo punto si debba staccare. Quando? Perché?

 

L’ideale sarebbe un piano sequenza infinito. Oppure il montaggio di Ophüls: I gioielli di Madame de… sembra non montato. Oppure fare tanti piccoli film per poi metterli uno dietro l’altro.

Ecco. In tutti questi anni forse ho pensato troppo a queste cose. Per questo dicevo che c’è stata una perdita di naturalezza. Credo che Partner non sia un film molto naturale.

 

Diciamo che queste riflessioni è bene farle ma è ancora meglio farle girando i film.

Questa è la critica che mi faccio, ma è una critica fatta non tanto al film quanto a una mia situazione personale.

 

Chi si pone il problema della vitalità e dell’autonomia del piano unico, ha il grosso problema del dover tagliare, perché? Dove? Come? Tu per esempio perché tagli delle sequenze che potrebbero benissimo essere girate in un piano unico? Interrompere un piano sequenza, se non è aberrante, è comunque sempre molto significante.

Spesso sono molto tentato di tagliare i piani sequenza. In Partner ci sono piani lunghissimi interrotti da un inserto, per esempio. In questi casi l’inserto diviene macroscopico. Spesso taglio proprio per negare il piano sequenza. In fondo non faccio che un’operazione critica, faccio il piano sequenza e poi lo nego, questo perché in generale trovo che si debba andare contro quello che si fa. Si fa una cosa, poi la si contraddice, poi si contraddice il contraddetto e così via. La vitalità è proprio contraddirsi continuamente, negare se stessi e alla fine si scoprirà che non si è affatto negato ma che si è seguita l’unica propria verità.

In Weekend Godard taglia una sua lunghissima carrellata sulle automobili in fila. Taglia un carrello perfetto, dove tutti gli attori sono al loro posto, le automobili si muovono sempre al momento giusto, tutto è perfetto. Credo che abbia tagliato solo per distruggere una cosa riuscita troppo bene. È come qualcuno che arrivato a Siena o sul Canal Grande si accorge che tutto si è conservato troppo bene, mette una bomba e fa saltare qualche palazzo.

 

I titoli di testa sono sempre il piano sequenza più perfetto.

È vero. In Partner ho fatto titoli di testa molto semplici.

 

Hai usato i colori di Nicholas Ray.

I colori del Vietnam. La bandiera del Vietnam è un motivo ricorrente nel film, e il numero delle bandiere aumenta continuamente, la bandiera del Vietnam che diventa un elemento decorativo, le bombe Molotov che non esplodono che una volta su cinque.

 

Una nostra impressione è che in Partner si siano accumulati tutti i film che non hai potuto fare in questi anni. Ogni inquadratura del film sembra il risultato di dieci inquadrature messe insieme, e ciò ci sembra voluto. Cioè mentre potevi scegliere di eliminare tutto quello che ti eri lasciato dietro le spalle, tu non lo hai fatto, e invece di bruciarlo internamente a te stesso lo hai bruciato esteriormente, filmandolo. Infatti in questo senso Partner non sembra neanche un film, sembra un grande falò, una accumulazione di materiali.

Dipende dal fatto che io per natura tendo ad arrivare a qualcosa aggiungendo piuttosto che togliendo.

 

In Prima della rivoluzione ci si riconosceva in tutte le situazioni, al livello dei personaggi, della storia, si riconosceva il sapore della città. In Partner invece no, ci si commuove forse solo pensando al cinema. Però nello stesso tempo ci rifiutiamo di definire Partner intellettualistico.

In Prima della rivoluzione la partenza era la vita, in più c’era il cinema, anzi più precisamente: l’idea mitologica del cinema. Qui l’idea di partenza è per metà la vita e per metà il cinema. Quando mi chiedono che cosa vuol dire il film io rispondo sempre: niente, il film vuol dire il film e basta.

 

Che poi è vero per tutti i film.

Certo, ma bisognerebbe cominciare a dirlo.

 

Idealmente il tuo poteva essere un film sul teatro, in realtà è un film sul cinema, sulla vita, sul presente (il Vietnam, la pubblicità, la televisione, eccetera). Il teatro è la vita, si dice abbastanza comunemente, invece nel tuo film la vita è contro il teatro, infatti lo impedisce. Il film potrebbe anche essere la cronaca di un fallimento di voler fare «teatro».

Sono d’accordo, Partner è un film fatto sul presente. Cioè tutti i film sono sul presente, anche quando si fanno dei flashback non si fa che il presente del passato.

 

Ci sono anche dei film utopistici. Dei film che si bruciano tutti i ponti alle spalle.

Io invece cerco di vedere le cose molto semplicemente nella confusione totale in cui mi trovo. La cosa più importante è rimanere fedeli a se stessi. È la cosa più importante anche politicamente. Jean-Marie Straub a questo proposito mi ha detto una cosa molto interessante, mi ha detto di aver visto i documentari francesi sui fatti di maggio e che dopo due o tre minuti di proiezione i poliziotti che si vedevano non avevano più alcun peso. Gli dava assai meglio l’idea della repressione l’inquadratura di quaranta secondi del poliziotto nel mio film che tutti i film documentari francesi.

 

È la forza dell’immaginario, ciò che è irreale diventa una forza inconsumabile. Quello che dice Straub conferma uno dei più grossi limiti del cinema documentario, cioè il fatto di non tenere mai abbastanza conto del peso dell’immagine che si riprende, l’immagine si annulla nel giro di pochi secondi.

Un’immagine è un’ombra. Bisogna strapparla…

 

E non c’è niente di più pericoloso delle ombre che assomigliano alla realtà. L’illusione è terribile e coinvolge praticamente l’80 percento di tutto il cinema cosiddetto impegnato.

C’è il grosso rischio che i flics di Saint-Germain possano non darti l’idea della repressione. Perché mentre l’autore di quei documentari girava con la sua 16 millimetri, probabilmente non aveva in sé l’esigenza di esprimere la repressione, aveva l’idea di testimoniare semplicemente una cosa che stava accadendo.

 

Puoi dire qualcosa sulle varie letture del film?

Il film è pieno di chiavi, di citazioni, di riferimenti. Mentre il sosia, per esempio, narra i suoi precedenti penali e citando una sua imputazione dice: corruzione di minatori a Marcinelle[1], la macchina da presa si alza a inquadrare sulla parete un quadro di Paul Delvaux, il surrealista belga che ha lo stesso cognome del regista belga André Delvaux, e il quadro raffigura un treno e la scena è ambientata di sera, quindi: Una sera… un treno. Pero è una citazione che riesco a notare solo io, ed è strano come la persona colta che legge un libro è pronta a cogliere immediatamente tutti i riferimenti culturali, mentre lo spettatore cinematografico resta sempre al di sotto dell’interpretazione culturale.

 

Forse la cosa più caratteristica del tuo modo di girare è come muovi la macchina da presa.

Però in Partner si muove abbastanza poco e non si muove come in genere si muove l’Arriflex, ma come si muove la Mitchell, e sono mobilità molto diverse.

 

Comunque si sente sempre che tu pensi dietro la macchina da presa. Potrebbe essere benissimo una inquadratura fissa invece c’è quasi sempre un carrellino. Che è una negazione dell’inquadratura, del «quadro», del punto di vista privilegiato.

C’è sempre un motivo però: nell’esempio fatto prima, quello dei precedenti penali del sosia per esempio, il movimento era addirittura didascalico.

 

Sì, ma sullo schermo un movimento del genere s’ingrandisce enormemente. Spesso acquista troppa importanza.

Lo spazio del film è sempre estremamente limitato. Spesso la macchina da presa si muove solo per seguire un suo andamento musicale. La musicalità è forse l’elemento più importante di Partner.

 

Nel film è molto bello il modo in cui vedi Roma. Sia quando è la Roma dei ruderi, dei monumenti, che quando è una Roma decisamente irriconoscibile; è comunque sempre una Roma che al cinema non si è vista mai.

Non volevo che si riconoscesse Roma. Volevo solo la presenza di una città, come c’è in certi racconti surrealisti, come c’è in Cocteau, o in Breton…

 

Una domanda sul cinema dell’«immaginario» e sul superamento degli elementi realistici. Il tuo è un film violentemente antinaturalistico. A parte il fatto che il cinema dovrebbe esserlo di per sé, perché il cinema è immagine, immagine e suono riprodotti, c’è evidentemente una volontà precisa di voler fare un cinema sempre più onirico in cui i maestri non siano più Griffith o Lumière, oppure Rossellini o Flaherty, ma Sternberg, Murnau, Lang, Ophüls, Cocteau. Perché questo bisogno di rivalutare il potere onirico del cinema?

Intanto perché c’è stata una totale consunzione di tutto quello che era il cinema naturalistico.

 

Per esempio?

Tutto il neorealismo italiano tranne Rossellini, tutto il cinema francese tranne Bresson. Il naturalismo va dal grande naturalismo di Kazan al naturalismo piccolo borghese di Truffaut, a quello di Forman.

Ora la cosa curiosa è che il cinema onirico a cui ho pensato facendo Partner in realtà è un cinema che non conosco. Non mi sono rifatto tanto a Sternberg o a Murnau, quanto all’idea che di loro mi sono fatto vedendo per esempio di Murnau solo L’ultima risata e di Sternberg pochissimi film. Per esempio la scena del pianista messa all’inizio del film credo sia molto sternberghiana, la sequenza non ha senso, è un vero nonsenso, una specie di prologo musicale, un omaggio a Sternberg, anzi meglio all’idea che ho del cinema di Sternberg: la ricerca delle atmosfere attraverso le ombre e le luci. Infatti Lotte Eisner, che è una testimone di quell’epoca, mi ha scritto dicendomi che le piace molto il mio film con le sue “belle ombre ondulanti”.

 

C’è stato il cinema espressionista, quello tedesco con tutti i suoi prolungamenti americani, poi c’è stato il cinema venuto dalla ribellione contro il cinema onirico. Questa è già la terza fase; diciamo che Godard, e gran parte del nuovo cinema, hanno segnato nuovamente il punto di rottura. Ora stiamo tornando a un nuovo surrealismo. Già Weekend lo è, lo vediamo solo come un grande sogno.

L’onirismo non deve essere comunque solo nelle cose che si filmano, c’è soprattutto nel modo come si usa la macchina da presa. Per esempio, nei Visionari di Ponzi l’onirismo è anche nel modo con cui si arriva al fondu. C’è la scena in cui Jean-Marc Bory esce dal teatro e comincia a camminare preso di spalle che è di chiara derivazione naturalistica, ma poi a poco a poco la strada diventa qualcosa d’altro, i muri sembrano fatti in studio, Bory stesso cambia. È successo che il continuare della sequenza, il suo prolungarsi, ha strappato l’inquadratura dal suo naturalismo, l’ha fatta diventare altro.

 

Siamo sicuri che molta parte della critica farà un discorso sullo straniamento esistente nel tuo film. Per esempio la scena d’amore tra Clémenti e la Sandrelli con davanti Sergio Tofano che finge di guidare, sarà considerata straniante. A noi sembra invece che solo in teoria la scena è straniante, mentre nell’universo del film la scena sarebbe risultata straniante proprio se non fosse stata girata in quel modo, perché sarebbe stata realistica, quindi abnorme.

Se io avessi voluto fare dello straniamento del tipo di quello spesso usato da Godard, mi sarebbe stato impossibile con Clémenti, con tutto quello che gli ho permesso di fare. La sua partecipazione al film è tutt’altro che brechtiana, è classica. E questo forse confonderà le idee a molti critici, il fatto cioè che il film si rifà continuamente a dei modelli classici e poi li contraddice puntualmente.

 

Ritornando al discorso sulle citazioni presenti nel tuo film, nel personaggio di Tina Aumont in partenza ci sono due citazioni: i detersivi, ovvero Godard, e gli occhi, ovvero Cocteau, alle quali si aggiunge il fatto che la Aumont recita un brano delle Mythologies di Barthes. C’è quindi in origine questa accumulazione di dati che però viene resa dialettica dalla voce della Aumont, che almeno nella versione francese è terribilmente patetica. Praticamente brucia tutti quegli elementi di partenza per arrivare a quel grado di verità che interessa, che riguarda esclusivamente il tuo film.

Quando ci si mette dietro la macchina da presa si instaura un rapporto che può cancellare tutto quello che è stato pensato e scritto a priori. Avevo pensato al personaggio della Aumont come a una donna robot caratterizzata da movimenti meccanici da marionetta, girando invece ho finito per contraddire tutto ciò.

Faccio arrivare la Aumont letteralmente coperta da pacchi di detersivi che a un certo punto prendono inspiegabilmente un movimento rotatorio che costringe la Aumont a cadere su una sedia quasi per un piccolo mancamento. In quel momento la Aumont è carica di umanità. C’è la contraddizione tra questa sua umanità e gli occhi dipinti sulle palpebre, per cui appare una specie di profetessa della pubblicità. Quando la Aumont apre gli occhi, appaiono quelli che sono i suoi veri occhi. C’è anche qui uno sdoppiamento abbastanza evidente, nessun personaggio gode del privilegio della credibilità.

 

È vero non solo per i personaggi ma anche per i luoghi in cui hai girato, per le situazioni, per il modo in cui giri. C’è per esempio la scena in cui Clémenti uccide Stefania Sandrelli sull’autobus che ci sembra eloquente.

Proprio a proposito di questa scena Jean Narboni mi ha detto che gli ricorda Aurora di Murnau, quando il marito e la moglie tornano in città sul tram. Io non ho mai visto Aurora ma per tanti anni mio padre me ne ha parlato, diceva che era un film che gli faceva venire la febbre, e mi raccontava di questa straordinaria presenza che era il tram. Allora io ho pensato al tram, Giacobbe doveva uccidere Clara su di un tram. Poi, solo per ragioni tecniche, ho dovuto accontentarmi di un autobus a due piani. Comunque ho fatto e pensato tutto questo sempre pensando ad Aurora che era un film che non avevo visto, e lo straordinario è che c’è qualcuno al mondo che se ne sia accorto.

 

L’unica cosa diversa tra le due scene è che in Aurora la sequenza del tram inizia nel bosco per finire in città. Nel tuo film si svolge tutta in città.

Però si assomigliano lo stesso molto. L’autobus di Partner come il tram di Aurora è un luogo lirico, poetico, dove sullo sfondo le sue pareti cambiano continuamente, quasi fossero trasparenti invece che reali. E in quel luogo i personaggi non si muovono come se fossero a casa loro ma si muovono con circospezione come se si trovassero in un posto magico. In questo senso il tram diventa un vero tappeto volante. Il tappeto volante di Faust.

 

Tu hai fatto Prima della rivoluzione che forse è stato un film ideale anche per l’età in cui l’hai fatto. Poi c’è stata la grossa delusione di non potere più fare dei film per un lungo periodo. Infine ti sei trovato a fare dei film che potremmo più o meno definire «di comando»: La via del petrolio per la televisione e anche Il fico infruttuoso, cioè l’episodio Agonia per il film collettivo Amore e rabbia. Come sei arrivato a Partner attraverso questi due film?

La via del petrolio è certamente un film di comando e ha tutti i limiti del film di comando. Anzi ha dei limiti ancora più grossi perché si sentono continuamente gli sforzi fatti per contraddire il suo essere film di comando. Era un errore in fondo perché un film di comando deve essere di comando. Pasolini direbbe che ho fatto un film anfibiologico, né carne né pesce.

Partner è invece una diretta conseguenza del Fico infruttuoso. Il rapporto che sono riuscito a instaurare con Clémenti è ispirato proprio dalle esperienze importantissime fatte con il Living Theatre. Sia con il Living che con Clémenti ci siamo capiti a delle lunghezze d’onda particolari. Il Living mi ha dato il senso della sacralità del teatro e della recitazione che ho ritrovato un po’ in Clémenti.

La scena in cui Clémenti è nascosto dietro una catasta di libri e comincia il suo monologo, piange, canta La Marsigliese, è una scena basata su di me in quanto voyeur, la macchina da presa e Clémenti davanti a essa in quanto realtà in cui sta accadendo qualcosa. Anche lo strumento con il quale siamo arrivati a tale intensità è lo strumento tipico di tutti i riti del Living. Clémenti in questo rito è l’Officiante e l’incenso in quel momento è la droga. Questo è il grado zero da cui siamo partiti per quella scena.

 

In che modo il Living o Clémenti si sono opposti a te, si sono ribellati al film?

Non si sono opposti mai perché il film esiste solo come idea, non come storia. Loro accettano l’idea, poi non accettano magari la struttura o le altre cose. Allora tu sei costretto a seguirli. In questo senso il mio film è malgrado tutto molto vicino a una forma di cinéma-vérité. Come lo è il film di Straub e Huillet su Bach, Cronaca di Anna Magdalena Bach.

 

Quali scene hai tolto o non hai montato nel film?

Ho tolto una scena molto importante dove Clémenti andava per la prima volta a scuola e trovava l’aula completamente deserta; non volendo ammettere che gli studenti disertassero le sue lezioni svolgeva ugualmente la sua lezione ai banchi vuoti e leggeva un brano di Lautréamont.

Non ho montato una scena di dieci minuti circa dove Giacobbe spia due suoi studenti, Jean-Robert e Sibilla, che stanno facendo un vero e proprio film a sé sulla scalinata di Valle Giulia, tratto da un piccolo racconto di Norman Mailer intitolato Il blocco d’appunti.

Ho tagliato infine una scena in cui si demistificava completamente l’illusione filmica, mostrando il film come un oggetto fatto con una macchina da presa e della pellicola. Questa è la cosa che irrita di più, il pubblico accetta qualsiasi cosa tranne che di essere svegliato dal sogno che sta facendo; all’interno di questo sogno puoi dargli la cosa più difficile, ma se tu lo avverti che il sogno che sta facendo ha una velocità di ventiquattro fotogrammi al secondo e che viene dai bagni di acido della Technicolor sulla Tiburtina, il pubblico si irrita e non ci sta più.

 

Il film ha una sua costruzione? Perché dato che sembrerebbe un insieme di inquadrature isolate, il problema del loro collegamento sembra non esistere.

Avete ragione. A un primo montaggio il film era completamente diverso, era un altro film. Poi ho rifatto il montaggio perché il film doveva uscire e doveva avere per il pubblico un arco un po’ più convenzionale. Il film l’ho girato molto liberamente, senza nessuna preoccupazione per la sceneggiatura, il suo arco l’ho trovato in montaggio, un po’ per fare piacere al produttore, un po’ per me stesso. Credo che le inquadrature del film siano perfettamente autonome, isolate l’una dall’altra, e comunque si montino per me è del tutto uguale.

 

Per approfondire un argomento già accennato ci sembra che il modo di tagliare le immagini, di spezzare i piani, di interrompere comunque una continuità che si potrebbe creare, sia una violenza fatta a te stesso con una grande freddezza.

È questa la cosa che mi rende inviso a tutti quelli che sarebbero pronti ad amarmi così come loro credono che io sia. Il bisogno di rigore che non c’era in me al tempo di Prima della rivoluzione in questi anni si è ingigantito, e forse scomparirà prestissimo.

Io adesso taglio di continuo per impedire il sorgere di quel rapporto di passionalità tra lo spettatore e il film che c’è in Prima della rivoluzione, che è un film che mi ha fatto soffrire di un complesso di colpa; adesso penso che facendo quel film mi sono troppo lasciato andare. Questo ha avuto naturalmente delle conseguenze, per esempio anche nella sceneggiatura di Natura contro natura che era un film con tre personaggi – il poeta, il politico, l’omosessuale – ed era diviso in parti. Nella parte intitolata «I problemi», il problema del poeta era quello di far leggere a Pasolini, il poeta «laureato», le sue poesie che portava sempre infilate nella camicia, senza però incontrare Pasolini, per timidezza o per non correre il rischio di rimanere deluso.

Il problema a un certo punto era risolto dall’omosessuale che diceva: aspettiamo la prima notte di vento, andiamo a casa di Pasolini, io ti farò salire sul muro di cinta del suo giardino, delle poesie farai tanti foglietti e lascerai che il vento li porti nel giardino, molti andranno persi ma altri resteranno tra i rami degli alberi, tra l’erba, tra le rose. Il mattino Pasolini leggerà le tue poesie.

Questa scena se l’avessi pensata al tempo di Prima della rivoluzione avrei cercato di visualizzarla, magari con dei flash in avanti, perché in fondo poteva essere una sequenza di un certo effetto. Invece se avessi fatto ora Natura contro natura tutto questo non si sarebbe visto, non sarebbe rimasta che l’idea, il racconto o la visione dell’omosessuale.

Mi sono reso conto a un certo punto che invece di mostrare le cose bisognerebbe mostrare l’idea delle cose. Far vedere le cose in fondo è un modo per non vederle più, per perdere il loro senso reale, perché spesso visualizzare vuol dire fornire una quantità di sensazioni che allontanano dall’idea, che è la sensazione estetica più importante.

 

Cosa pensi dell’ultimo cinema italiano?

Gli unici film italiani che amo non sono italiani. Uno è brasiliano: Tropici di Gianni Amico, un altro è danese: I visionari di Ponzi, e poi c’è un film marziano che è L’harem di Ferreri. Comunque i film più italiani di questi ultimi anni sono quelli di Forman.

 

[Intervista pubblicata su Cinema&Film, n. 7-8, Roma, primavera 1969; poi in Bernardo Bertolucci, Cinema la prima volta: Conversazioni sull’arte e la vita, a cura di Tiziana Lo Porto, minimum fax 2016]

 

[1] La versione originale, in francese, gioca in questa scena sul doppio senso della parola mineurs (in italiano sia «minatori» che «minorenni») eccheggiante alla clamorosa tragedia avvenuta nel 1956 in fondo a una miniera vicina a Charleroi, in Belgio, dove trovarono la morte 262 lavoratori, tra cui 136 emigrati italiani. [ndc]